La libertà del Nano ovvero in viaggio con Italo Calvino
Appunti su Come una specie di vertigine di e con Mario Perrotta
Tra le idee nel cassetto parigino di Italo Calvino, allora membro dell’Oulipo, c’era quella, paradossale, di un Ulisse costretto all’immobilità. Nel suo ultimo spettacolo, Mario Perrotta sembra provare una realizzazione di quell’idea trasformando il potenziale limite letterario in un concreto quanto insidioso limite attorale. E lo fa mettendo in scena il personaggio del nano che compare in una pagina (e in una pagina sola) della Giornata d’uno scrutatore. Il disabile, però, non può muoversi né parlare («i suoi occhi erano solo occhi, senza pensieri dietro», scrive Calvino), perciò è la sua voce interiore a farsi personaggio. Della sua vita nel libro non si dice nulla: Perrotta la inventa e ne attraversa la disperata solitudine. Una solitudine nella quale emergono, come fantasmi in un labirinto psichico, figure e situazioni riconoscibili al lettore di Calvino ma non meramente narrate.
A suo modo il protagonista di Come una specie di vertigine è dunque un Ulisse che dà vita a una Odissea da fermo, a un vertiginoso viaggio interiore, a un immaginario periplo di sé stesso nel corpo a corpo con la scrittura calviniana, senza indulgere a quella “leggerezza” diventata luogo comune quando si parla dell’autore delle Lezioni americane. Il Nano è inchiodato a una sedia, a una smorfia, a una postura. La deformità lo obbliga a un’inquadratura fissa sul mondo. Ha la testa come una lampadina, storce la bocca, piega il collo in modo animalesco per alzare lo sguardo. Sbucato dal Cottolengo in cui è ambientato il romanzo breve (ma di lungo travaglio: pubblicato nel 1963, ha tenuto occupato l’autore per un decennio), diventa il fulcro di un allucinato itinerarium mentis in Calvino che si snoda fra atmosfere e personaggi presi e rimodellati da altre opere dello scrittore per “ragionare di libertà”. Quella libertà che il Nano non possiede e alla quale anela non conoscendone la natura. Perciò è affascinato dal barone rampante, ma non capisce come Cosimo, nella sua risolutezza a mantenere la promessa di restare a vivere per sempre sugli alberi, possa rinunciare perfino all’amore per Viola; riflette con Agilulfo (il Cavaliere inesistente) sulla liberazione dalla gravità della materia; con Qfwfq scopre l’insignificanza del soggetto, dato che anche il vecchio narratore delle Cosmicomiche non è che una voce, una voce-occhio sull’universo; e Palomar lo accompagna nelle più insospettate dimensioni della mente umana.
Lo spettacolo si apre con una batteria di fari a terra sparati sul pubblico. La visione del Nano emerge così da un abbaglio anche cognitivo che costringe lo spettatore a rapidi aggiustamenti progressivi, sia visivi sia interpretativi, mentre i tagli di luce sulla faccia modellano la deformità del personaggio. Indossa pantaloni anni Cinquanta (l’epoca della prima visita di Calvino alla Casa della Divina Provvidenza di Torino) e una striminzita giacchetta di paillettes per la sua serata immaginaria, il suo show irreale. L’immagine s’impone inquietante. Anche per questo si accetta subito che l’afasia straziante di questa apparizione grottesca, urlante, spasimante nei suoi sguaiati tentativi di canto sulle note de Il mondo di Jimmy Fontana (cosmicomica melodica) si rovesci come un calzino e diventi voce fluente, sempre agitata e torrenziale, irrefrenabile, ma ora intelligibile. Si entra così nella testa del personaggio, si sta di fronte alla sua anima che dà spettacolo. Inchiodato a una sedia girevole munita di microfono, è circondato dal suo pubblico: davanti gli spettatori reali, dietro gli altri degenti immaginari. Rispetto alla quotidianità dell’istituto, che ha il suo culmine consolatorio nel passaggio all’altezza del suo sguardo del sedere di Suor Antica, il viaggio fantastico del Nano apre a una dimensione liberatoria. Parla veloce, indulge all’iperbole, affabula fino al delirio. Entra ed esce e si perde nel mondo del “signor Calvino Italo”, azzarda collegamenti astrusi, incontri impossibili fra i personaggi, chiosa sarcastico, canta, insiste nervoso, ossessivo, inventa un suo rap. Procede “scalvinando” le opere dello scrittore a suo uso e consumo, come scrive Perrotta nelle note di regia. Ma questa interrogazione serrata delle storie calviniane ha anche l’effetto di rendere meno fredde le pagine dello scrittore e mostra come il lavoro teatrale sul testo letterario possa diventare pratica conoscitiva, analitica, critica. Perrotta costringe i testi a reagire, li scuote con la vitalità esplosiva perché da sempre soffocata nel corpo-gabbia del Nano. Con il quale riesce a farci identificare in quanto siamo tutti prima o poi alle prese con il fardello del corpo, con la prigionia nel contingente. E anche questo vuole ricordarci lo spettacolo, che dalla condanna alla realtà si può sempre evadere attraverso l’arte. Che la libertà è dentro di noi.
C’è una tradizione rappresentativa secondo la quale l’attore nasconde sotto la serena partecipazione alle vicende del suo personaggio in scena un’anima dolorosa, preda di una disperazione di cui si nutre il piano visibile del suo lavoro. Perrotta costruisce il suo personaggio al contrario. Si agita nel Nano, sotto la sua disperata deformità, un’energia gioiosa, burlesca, sempre sopra le righe. Qualcosa di primordiale, una naturalità istintiva che può emergere solo nel suo flusso di coscienza incontrollato (controllatissimo dall’attore). Così dal “racconto più pensoso”, come Calvino definì La giornata d’uno scrutatore, emerge e si staglia nella sua autonomia una figura esuberante di pensiero in azione. Dalla sua postazione fissa, il Nano scruta tutto. Vede la sfilata di minorati indotti a votare per la Democrazia Cristiana. Vede anche lo stesso Calvino. Vede che quell’uomo è diverso e che osserva tutto quello che sta accadendo. Diventa il suo sguardo traslato.
Fissandolo esteriormente per spalancarne gli abissi interiori, Perrotta fa del Nano un personaggio beckettiano, un nipote plebeo di Murphy, di Molloy, di Malone. Perché anche la sua sagoma – la sua voce – si costruisce intorno a una assenza, a una impossibilità di essere. A differenza dei protagonisti indefiniti dei post-romanzi di Beckett, tuttavia, il Nano non vuole rinunciare, almeno nel suo delirio intestino, a farsi soggetto. Ha una sua identità (anche forte, sgradevole, depravata), sempre immaginata attraverso le vite degli altri (i personaggi calviniani) che sono a loro volta entità immaginarie. Le due dimensioni si confondono, appaiono e svaniscono come proiezioni di un soggetto che sembra sempre sull’orlo della sparizione, del dissolvimento nel fiotto di parole. Ma che resta presente. È una specie di Innominabile, l’estremo non-soggetto di Beckett protagonista tutto sostanza psichica, senza nome e senza azione, dell’ultima straordinaria parte della Trilogia. Ma poi ecco i sussulti di autocoscienza, gli spasmi dell’essere, il debordante, prepotente, sgraziato rigurgito del soggetto. Se per Calvino la negatività assoluta di Beckett si può esorcizzare con l’ironia, Perrotta la contiene nel grottesco. Se Amerigo Ormea, il protagonista della Giornata, è per Calvino «un ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco», il Nano di Perrotta è una creazione espressionista. L’attore ne plasma le contorsioni delle membra e della voce, modula al microfono le mille afasiche sfumature di un discorso d’amore per la vita. E quando infine riesce a intonare davvero Il mondo, fa venire i brividi.
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