Kilowatt Festival a Cortona | L’energia del rinnovamento: gli spettacoli e i djset, il digitale, la partecipazione

Il report per TourFest 2023

Pubblicato il 28/08/2023 / di / ateatro n. 193 | TourFest 2023

Paradiso adesso

“Vivete fino in fondo la sospensione e la tensione del salto, senza avere né fretta, né paura di atterrare.”
Lucia Franchi e Luca Ricci

Giunto alla XXI edizione, il Kilowatt Festival di Sansepolcro e Cortona, con la direzione dei fondatori Lucia Franchi e Luca Ricci, rappresenta una finestra di grande valore sul panorama contemporaneo delle arti performative (e non solo). Nel programma variegato e trasversale, in cui convergono molte delle numerose iniziative portate avanti dal progetto CapoTrave/Kilowatt, si ricercano nuovi modi per concepire ed abitare il nostro tempo, e quello futuro.
Il desiderio di rinnovamento è l’energia che dal 2003 muove Kilowatt nella promozione di occasioni di incontro tra differenti realtà sociali e artistiche, per la creazione di una cultura viva, partecipata, di cui L’Italia dei Visionari è un’emblematica espressione. Nato nel 2007, il progetto coinvolge spettatori “non addetti ai lavori” della Val Tiberina nella scelta di alcuni degli spettacoli del cartellone, selezionandoli tra centinaia di lavori raccolti tramite un bando. Il percorso che dura tutto l’inverno e stimola il dialogo e il confronto tra i partecipanti.
Così si è riusciti ad instaurare un rapporto solido con il territorio e a stimolare nella cittadinanza la nascita di nuove relazioni e un acceso interesse per le pratiche artistiche. Il progetto ha arricchito di nuove voci e sguardi le dinamiche culturali locali e si è allargato anche in altri comuni italiani, portando alla costituzione dell’attuale rete nazionale dei Visionari.

Di ridere di piangere di paura

Kilowatt a Cortona, gli spettacoli

Per il secondo anno Kilowatt Festival, oltre che nell’originaria sede di Sansepolcro, si è svolto anche nella città di Cortona. Per cinque giornate si sono susseguiti eventi sparsi nella pittoresca cornice del centro storico, intervallati da appuntamenti musicali e conferenze nel convento di Sant’Agostino. Il suo chiostro seicentesco, animato da allestimenti sound check ed eventi, ha costituito il cuore della manifestazione, accogliendo aperitivi con concerti e spettacoli e soprattutto i dj set del dopo-festival.
Il primo spettacolo di prosa della giornata era previsto in linea di massima nel tardo pomeriggio: lavori impegnati, tra denunce sociali, crisi esistenziali e polemiche di classe, stemperati più o meno efficacemente da drammaturgie di slanci sagaci e interpretazioni capaci di sostenerle.
Di ridere di piangere di paura di Gioia Salvatori è un dialogo tra sé e sé che senza esclusione di colpi mette a nudo l’atroce difficoltà di abitare la propria persona, scoprendo tutte le ferite, fino alla carne viva. Ma in questo , one woman show, per ogni colpo incassato viene in soccorso un’immagine, un canto: così il dolore che infliggono le parole, viene curato, o almeno addolcito, da quelle stesse parole, in forma di poesia. Accompagnata dai puntuali interventi del polistrumentista Simone Alessandrini, muto ma eloquente compagno in questo tragicomico viaggio interiore, e con la regia di Gabriele Paolocà, Gioia Salvatori colpisce nel segno, con un mix di ironia e lirismo.
A seguire, brevi esibizioni di danza, molto differenziate per carattere e stile, in piazza della Repubblica, ai piedi della scalinata del municipio. I numerosissimi passanti si affollavano incuriositi tutt’intorno, e per un magico momento la vita del borgo rimaneva sospesa, rapita dalle evoluzioni degli artisti. All you need is di Emanuele Rosa, Maria Focaraccio e Armando Rossi è stata tra le esibizioni più coinvolgenti, un sentito pas de trois dalle configurazioni inarrestabilmente fluide, capace di esprimere con delicatezza una tensione densa di sentimento ed erotismo. La coreografia cadenzata, l’equilibrio tra la dimensione intima e pubblica del pezzo, mediata dalla capacità dei ballerini di far entrare in questo scambio l’intero pubblico, si sono risolti in uno spettacolo elegante e appassionato, insieme diretto e discreto.
Nella più formale location del Teatro Signorelli, nella piazza attigua, si sono concentrati gli spettacoli più scenograficamente esigenti, e la cui concezione risultava particolarmente aderente alle premesse programmatiche del festival. La disponibilità tecnica è stata ben sfruttata per rendere visioni decisamente evocative, al tempo stesso non è qui che si sono concentrate le performance più incisive o riuscite del cartellone.

All you need is

Manfred di Madalena Reversa si distingue tra tutti i lavori proposti per la natura esperienziale della rappresentazione, che lo caratterizza forse più come una performance artistica che non un lavoro teatrale propriamente detto. Gli spettatori si fanno strada nella fitta cortina di nebbia che sommerge la sala per accede ad una altra dimensione, sovrumana e assoluta. L’incedere lento del pezzo li sprofonda in uno stato ipnotico, in un viaggio sensoriale di pregnanti suggestioni gotiche. Due figure incappucciate emergono dalla nebbia, squarciata ora da lampi convulsi, ora da tenui bagliori. Il magistrale lavoro sul sonoro di Angelo Sicurella, tanto possente da risultare coinvolgente a livello fisico, accompagna la struggente interpretazione di Maria Alterno, officiante di un rito oscuro e terribile, nell’aria satura di incenso e immagini sublimi. La tematica ecologista si traduce in maniera del tutto originale in quella che viene vissuta come una vera e propria catabasi, trasmettendo abilmente violente impressioni poetiche.
Sullo sfondo della piazza del Duomo si sono tenute in seconda serata le esibizioni di circo contemporaneo, che arricchivano l’offerta non solo sotto il profilo disciplinare, ma anche introducendo atmosfere di spensierato lirismo, incarnando la sua ricerca di modi alternativi per affacciarsi alla realtà. Con Gibbon Patfield & Triguero riescono a dare alla giocoleria un respiro più ampio, realizzando una performance in cui l’indubbia abilità tecnica si accorda amabilmente ad una recitazione di giocosa e puntuale ironia, delicata e sorprendente, in un esilarante fluire di posatissime gags.
Nella chiesa di Sant’Agostino sono stati messi in scena alcuni lavori direttamente legati alle iniziative di CapoTrave/Kilowatt. Un trittico di balletti diretto da Yana Reutova per un ensemble di ballerini cechi, ucraini e burkinabé, seguita e supportata a fronte dell’emergenza umanitaria, e altri due progetti realizzati con Residenze Digitali 2022, di cui CapoTrave/Kilowatt è il partner principale insieme ad Armunia. Il progetto del Centro di residenza della Toscana si propone di sostenere in maniera sistematica la ricerca delle arti performative in ambito digitale.
Il primo dei due spettacoli, Drone Tragico di Teatrino Giullare, è una interpretazione dell’Orestea di Eschilo nella traduzione di Pasolini. Il lavoro nasce per essere fruito da un device, così che lo spettatore possa orientare lo schermo a suo piacimento nella registrazione a 360 gradi fatta tramite un drone. In questo adattamento per la sala si è deciso di svolgere i dialoghi live, con Giulia dall’Ongaro e Enrico Deotti a incorniciare la proiezione video, la quale pure era gestita in diretta ma da operatori in regia. Il contrasto tra l’ambientazione ordinaria delle scene e la distanza dell’impersonalità del punto di vista aereo, unito allo straniamento dato dall’uso di maschere e dal trattamento allucinato dell’immagine, traduceva in maniera originale e convincente la peculiare convivenza di carattere crudamente concreto e insieme assoluto, personale e al tempo stesso universale, peculiare della tragedia greca.

Manfred

Chi ha paura del teatro digitale?

Le due rappresentazioni delle Residenze Digitali si sono inserite nel ciclo Chi ha paura del teatro digitale? Le opportunità dell’online per le performing arts, tre giornate di incontri con un nutrito ventaglio di ospiti tra accademici, critici, artisti, specialisti di varia provenienza. Alcune sessioni prevedevano anche dei momenti di dibattito moderati e strutturati variamente, che hanno coinvolto tutti i presenti.
Nell’introduzione al primo incontro Alessandro Pontremoli, appoggiandosi anche a un questionario somministrato durante il Festival di Sansepolcro, ha identificato due approcci opposti degli operatori del settore nei riguardi delle potenzialità del teatro in digitale: uno più critico e uno più ottimista, insomma “apocalittici” e “integrati”, in una reinterpretazione della terminologia di Umberto Eco.
Anna Maria Monteverdi elabora ulteriormente questo spunto. Comune tra gli apocalittici è l’idea che il teatro digitale manchi di alcuni degli elementi costitutivi del teatro, quali la presenza fisica, sostenendo per esempio la centralità del corpo o una differenza sostanziale tra la fruizione visiva “diretta” e quella tramite schermo, o l’assenza di determinate configurazioni nel dialogo tra artisti e pubblico: che senza queste condizioni sarebbe impossibile la “magia del teatro”, quel quid, quell’aura che si radica in una “materiale” condivisione dell’hic et nunc (relativamente al valore della visione dal vivo, viene citato Arnold Aronson, che arriva a definire le sperimentazioni tecnologiche “teatro di stile senza contenuti”). Dal canto loro gli integrati ritengono che l’inclusione di mezzi tecnologici non impoverisca ma allarghi le potenzialità espressive delle arti performative, espandendo le frontiere del teatro con nuovi linguaggi, e non vi sia dunque un’opposizione tra arte e tecnologia. In quest’ottica l’impiego della tecnologia sulla scena rappresenta per il teatro uno sviluppo naturale e prevedibile. Gli esempi addotti da Monteverdi, tratti dal repertorio storicizzato, supporterebbero questa tesi sottolineando anche come già la nascita del cinema avesse fatto sorgere la questione in termini quasi analoghi.
Da qui parte un excursus in cui si individuano tre momenti, la nascita del videoteatro, un momento definito del “teatro schermico”, in cui la presenza del video è normalizzata a tal punto da rendere possibile una frammentazione e moltiplicazione dello sguardo (in merito vengono citati tra gli altri il lavoro di Katie Mitchell e le sperimentazioni di live cinema), fino a giungere a una fase di saturazione, di “immagini ovunque, proiezione totale” (Santasangre con Seigradi o Alexis di Silvia Calderoni). L’ibridazione del teatro intermediale realizza il teatro enhanced, aumentato in termini di percezione e di “qui ed ora”, attraverso la creazione di ambienti polisensoriali (si pensi anche in tempi più recenti all’impiego di Virtual Realities).

Produzione

Nell’esaminare questo genere di manifestazioni artistiche, Antonio Pizzo distingue produzione e ricezione. Per quanto riguarda la prima, le possibilità drammaturgiche sono determinate dalle specifiche caratteristiche della tecnologia impiegata. Alcune, come Erica Magris ha chiaramente illustrato nel suo intervento sul teatro robotico, prevedono una rigida scrittura delle dinamiche dell’azione, che viene quindi stabilita a monte. A volte c’è un margine di interazione, qualora i mezzi impiegati siano programmati per reagire in maniere più o meno complesse a degli input, e queste condizioni di base determinano la grammatica del linguaggio drammaturgico. Si è preso in considerazione anche il caso dei chat bots, che danno un’illusione di effettiva produzione, ma che potrebbe non essere considerata autentica, sottostando anch’essa a dei parametri preconfigurati, ed essendo i bots limitati nell’autonomia.
L’impiego di intelligenze artificiali in ambito scenico, su cui verteva l’incontro condotto da Alice Barele, ha suggerito ulteriori spunti di riflessione, dall’evoluzione del rapporto uomo-macchina alla questione dell’autorialità, forse fino alla revisione dei limiti della definizione di ciò che è ‘umano’. Di fatto, sia nel teatro sia nei processi delle AI, il ruolo del dialogo e della simulazione sono cruciali: da questi punti di contatto nasce una relazione dalle innumerevoli implicazioni, che costituisce un fertile terreno per la ricerca creativa: Barele cita Improbotics e conduce un’analisi di It’s time to fight reality once more. Sentimental education for robots, progetto di Liina Keevallik, scritto da A. I. Chekhov.

Gibbon

Ricezione

Tornando alla relazione di Pizzo, la fruizione di queste operazioni artistiche è caratterizzata generalmente da un alto livello di attivazione del pubblico, che viene coinvolto nell’osservazione del comportamento delle macchine, anche cercando di decodificarne i meccanismi. Inoltre le performance sono “attivate” dallo sguardo o talvolta propriamente dall’intervento degli spettatori, che sono portati a riconoscere l’agency artificiale dei mezzi impiegati, e questo ne modifica la percezione.
La questione si complica ulteriormente prendendo in esame il teatro digitale propriamente detto (si è fin qui trattato di teatro tecnologico, appunto).
Da sociologo, Giovanni Boccia Artieri ha approcciato l’argomento attraverso l’aspetto mediatico. Per comprendere i meccanismi di quelli che Giovanni Boccia Artieri chiama OTONI (Oggetti Teatrali Online Non Identificati), risulta utile la definizione del digitale come ambiente e non come strumento (una formula che può essere impiegata nel caso del teatro tecnologico). L’epoca contemporanea è segnata dalla mediatizzazione, ovvero dall’introduzione e normalizzazione di processi tecno-comunicativi in molti aspetti della vita delle persone. Per definizione i media forniscono (frames) alle esperienze umane, e la loro presenza nel quotidiano è pervasiva a tal punto da rendere possibile uno stato on-life, l’ambigua compresenza di reale virtuale, offline e online. Il medium non è passivo, non è oggetto, i suoi limiti e la sua struttura determinano le regole dell’interazione dell’utente con lo stesso e con gli altri users (affordance). Per esprimere questa condizione Boccia Artieri usa la metafora della mangrovia, che vive in una mescolanza di acque salate e dolci, una modalità di esistenza intermedia che caratterizza anche gli OTONI. Perché questi ultimi possano attuarsi, si presuppone allora che lo spettatore aderisca al format proposto, al framing, in maniera non univocamente ricettiva, realizzando la condizione di liveness (termine impiegato per definire il carattere fenomenologico più che ontologico di queste stesse esperienze teatrali).
Si tratta ora, come ha indicato anche Laura Gemini, di studiare i gradienti della liveness, formalizzarne le manifestazioni, insomma, trovare un modo per inquadrare anche questi aspetti del digitale.

Coinvolgimento e partecipazione

Federica Patti ha approfondito alcuni dei fattori che contribuiscono a costituire questi ambienti generando coinvolgimento, per esempio attraverso la progettazione degli aspetti relativi all’interattività dei vari ambienti, l’UX Design (User Experience) e altre applicazioni dell’ingegneria delle relazioni che si occupano di HCI (Human-Computer Interaction).
La partecipazione degli utenti invece deriva dalla presenza di chat, dall’impiego di webcams, avatars e altri metodi e spazi di scambio, e si sviluppa su diversi livelli, non ultimo quello emotivo, determinando la possibilità di creare communities. Queste, pur seguendo regole proprie e non trovando nella maggior parte dei casi un corrispettivo “reale”, sono comunque enti sociali a tutti gli effetti, e in quanto tali hanno una dimensione politica che può essere direzionata e capace di impattare concretamente sugli individui e sulla società a livello globale.
Un obbiettivo potrebbe essere quello di avvalersi di gruppi online come punto di appoggio per realizzare un senso di comunità offline o di trasferire o fondare in questa maniera delle realtà sociali con risvolti economici decentralizzati e non estrattivi. Al tempo stesso, come ha evidenziato Boccia Artieri, neanche i media sono estranei alle dinamiche capitaliste, non limitandosi a trasmettere dati, ma producendone attraverso la documentazione delle azioni degli utenti (deep mediatization), che risultano così quantificabili e introducibili in un sistema di produzione di valore di stampo neoliberista.

Drone Tragico

Coscienza e accessibilità

Se, come sostiene Carlo Infante, la politica riguarda i gradi di libertà, allora sviluppare la consapevolezza dell’espansione delle possibilità di intervento che il digitale rappresenta è di primaria importanza. I modi in cui si esercitano le proprie potenzialità sono determinati dalla comprensione ed interpretazione degli stessi, bisogna prendere atto dell’estensione della coscienza e del corpo che si stanno verificando per non cadere nell’automatismo, rischio concreto associato al digitale, ma farsi portatori di risposte senzienti. Il pubblico è un insieme di soggettività e la partecipazione è condizione perché le cose accadano.
Tuttavia partecipare non è semplice. Interrogandosi sull’effettiva inclusività degli ambienti digitali, è innegabile che una parte dei possibili fruitori non disponga delle competenze o delle conoscenze che servono per accedervi. Alessandro Iachino ritiene che per rendere davvero universalmente fruibili le manifestazioni artistiche digitali, la loro promozione andrebbe accompagnata da iniziative di alfabetizzazione generale sul loro funzionamento e dei loro linguaggi. Per Boccia Artieri, invece, avvicinare gli utenti a realtà di questo tipo attraverso approcci didattici non è la via migliore, e forse non è nemmeno sensata, considerando la natura stessa di questi fenomeni, che può essere compresa avvicinandosi a essi con un approccio da “nativo” e non da “conquistador”.

Accelerazione e formalizzazione

“La cultura digitale è l’oltre dell’accelerazione”: così Fabio Acca alla chiusura dell’ultima conferenza riassume uno dei principali nodi della questione, citando la lettura proposta da Simone Arcagni dell’evoluzione del rapporto teatro-tecnologia.
A partire dagli inizi del Novecento, da un primo momento all’insegna della Velocità, dea futurista, passando al momento della Simultaneità con il consolidarsi dei segni della globalizzazione sullo sviluppo della cultura e attraverso il diffondersi della rete, siamo giunti fino all’Accelerazione, che è Dissipazione.
Con l’emergere incessante di nuove tendenze e con il proliferare delle espressioni della cultura nell’epoca del Web 3.0, emerge la difficoltà nel definirne le manifestazioni: questa difficoltà è essa stessa una caratteristica costitutiva dell’avanzamento tecnologico. Si impone la necessità di riproblematizzare continuamente le definizioni, vista la natura di perenne dissipazione del digitale, a cui si accosta, come sottolineato da Valentina De Simone, anche la problematica dell’archiviazione, del tracciamento e della memoria (pure storica) dei fenomeni. Siamo quindi nella posizione di dover riadattare ininterrottamente le categorie attraverso cui interpretare la realtà.
Riferendosi all’ambito specifico dell’intelligenza artificiale, Alice Barale afferma che cambia nel momento stesso in cui lo si studia, e questo atteggiamento di può applicare all’intero discorso sul digitale. “Bisogna essere sempre la dove non si è”, rilancia Acca. “Il teatro digitale di fatto non esiste, è una categoria mutante, una parola-attrezzo che ci siamo messi nella condizione di adottare. Bisogna nominarla anche per il rapporto istituzionale che tutto questo comporta, e poi magari rinominarla.”
Il convegno è stato scandito da momenti di formalizzazione dei temi emersi e da momenti di moltiplicazione, connessione e ulteriore elaborazione dei temi, specie durante i momenti di confronto collettivo. L’approccio è risultato fruttuoso per lo sviluppo del discorso. L’apertura, il coinvolgimento e la sincera volontà di instaurare un dialogo costruttivo dei partecipanti hanno creato un vivace clima di ricerca.

Convegno

Condividere presente e futuro

Tornando al festival, i momenti conviviali che hanno condito i giorni fitti di spettacoli, completando il quadro. Anche i gruppi e i dj che si sono esibiti presentavano una notevole varietà di generi e contribuivano all’atmosfera distesa e allegra. Dal psichedelico indie rock degli Eugenia Post Meridiem alle distorte ibridazioni dei Wisecrack, come per la selezione degli spettacoli, anche in fatto di concerti c’era una proposta per ogni gusto: nemmeno i palati musicalmente più esigenti sono rimasti a bocca asciutta.
In ogni scelta e nella cura dei vari aspetti del Kilowatt Festival traspaiono il coraggio e la volontà di creare le condizioni per una crescita e per lo sviluppo di una coscienza più sensibile, attraverso la disposizione di uno spazio in cui coltivare pensieri originali.

IL LINK

Risonanze Network in convegno a Kilowatt Festival | Che cosa vuol dire oggi partecipazione culturale?




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