Risonanze Network in convegno a Kilowatt Festival | Che cosa vuol dire oggi partecipazione culturale?
Il report per TourFest 2023
Nel corso del TourFest 2023 stiamo dedicando particolare attenzione ai festival che fanno parte di Risonanze Network, con una serie di reportage a cura di Valeria Tacchi.
La rete nazionale Risonanze ha organizzato a Cortona il 23 luglio 2023, nell’ambito di Kilowatt Festival, il convegno Coming Up Next, dedicato alla discussione e all’analisi dei fenomeni collegati alla formazione del nuovo pubblico.
Coming Up Next
Una delle novità del panorama culturale degli ultimi decenni è la moltiplicazione di esperienze artistiche e di spettacolo basate sulla partecipazione dei cittadini. E’ una formula vincente, anche perché parole chiave come “allargamento del pubblico”, “partecipazione”, “giovani”, “inclusione”, “formazione”, “territorio”, “attivazione della cittadinanza” sono ormai immancabili nei bandi lanciati da pubbliche amministrazioni e dalle fondazioni con vocazione culturale. Lo stesso programma Creative Europe per il periodo 2014-2021 era centrato su audience development and engagement. Di questa prospettiva nel dibattito culturale italiano non c’è praticamente traccia, anche se queste modalità produttive si stanno diffondendo anche da noi, in reazione a una produzione culturale generalmente élitaria e poco inclusiva.
Riprova del successo di modalità creative e produttive basate sulla partecipazione dei cittadini è la rapida crescita di Risonanze Network, la rete che raccoglie i progetti di direzione partecipata di festival rivolti ai giovani. Ispirati dai “Visionari” di Kilowatt (cittadini di Sansepolcro selezionati a prescindere dall’anagrafe per curare la programmazione del festival), si sono moltiplicate le direzioni partecipate da giovani, sulla scia dell’esperienza di Tiziano Panici a Roma, con Dominio Pubblico. Adesso i soci di Risonanze Network sono 21, di cui 16 festival, in tutta Italia. Ma c’è anche qualche segnale di crisi: di recente alcune realtà pionieristiche, come il Festival 2030 a Bologna e Trasparenze a Modena, si sono prese una pausa e al momento attuale non fanno parte di Risonanze.
La partecipazione apre nuove prospettive, rispetto ai tradizionali dispositivi basati sulla passività dello spettatore. Al tempo stesso innesta diverse problematiche, che si riverberano dal piano teorico a quello organizzativo, da quello estetico a quello politico. Anche per questo – oltre che per un legittimo desiderio di accrescere la consapevolezza e la visibilità – la rete Risonanze ha organizzato a Cortona, nell’ambito di Kilowatt Festival, una intensa giornata di riflessione, Coming Up Next.
Curatori e destinatari
I processi partecipativi, come ha notato Sarah White, possono nascondere forme di condizionamento e di strumentalizzazione più o meno sottili. Non sorprende dunque che il rapporto tra i soggetti che lanciano e producono i progetti e i giovani che vengono “attivati” (presenti con una delegazione) sia emerso più volte nel corso della giornata, a partire da una domanda elementare: è giusto che i giovani partecipanti vengano formati? Da un lato, qualunque processo formativo rischia di essere manipolatorio e di condizionare lo sguardo dei giovani curatori, che così perdono la loro innocenza e dunque non incarnano più l’ideale dello “spettatore qualunque”, svincolato dai pregiudizi degli addetti ai lavori. Dall’altro lato, per alcune funzioni un percorso formativo è indispensabile, per esempio nei progetti che affidano a non professionisti funzioni organizzative e gestionali. In ogni processo decisionale, la consapevolezza del contesto e dei vincoli entro cui si opera determinano di per sé un percorso accelerato di autoformazione: nel momento stesso in cui si viene chiamati a responsabilità curatoriali (e in definitiva alla valutazione critica), l’innocenza è irrimediabilmente perduta, come testimonia La scelta.
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La scelta (Fruitor Passiv) di Roger Bernat
Certamente, come in ogni rapporto tra maestro/a e allievo/a, la trasmissione non può essere a senso unico, soprattutto in questi contesti. Non si tratta solo e tanto di trasmettere nozioni, tecniche o “protocolli” (per riprendere l’espressione usata da Guido Di Palma), quanto di mettere in relazione due tipi di esperienza, due diversi sguardi. O meglio, nel ritrovarsi nel terreno che si trova “tra” le due soggettività.
Per chi opera “dall’alto”, le trappole sono numerose: c’è l’attivista, che cerca di ricondurre paternalisticamente le scelte alla sua verità, alla sua scala di valori ideologica o estetica; c’è la crocerossina, che porta acriticamente il proprio indulgente soccorso a soggetti che ritiene in qualche modo “infermi”, “menomati”, di cui vanno dunque perdonate tutte le debolezze; c’è il colonialista, che usa il lavoro e il sapere altrui per nutrire il proprio progetto, sia economicamente sia artisticamente. In definitiva, il rischio è quello di predicare ai convertiti: le minoranze già sensibili e attive, magari autocompiaciute e dunque spesso intrappolate nella loro falsa coscienza progressista e tollerante.
Professionisti e dilettanti
Un aspetto che non si può ignorare è il delicato rapporto tra professionisti e dilettanti, che porta con sé diverse implicazioni, in primo luogo riguardo alla sostenibilità di progetti basati sul lavoro dei volontari, come ha fatto notare Lucia Medri: se è sostenibile per chi lo produce e progetta, è sostenibile anche per i destinatari? E i sogni e le aspirazioni “professionali” che innescano questi processi partecipativi e laboratoriali, non rischiano di nutrire l’ennesima fabbrica delle illusioni?
Senza dimenticare che i processi partecipativi che coinvolgono i cittadini esistono da tempo, basti pensale alle filodrammatiche o alle rievocazioni storiche e i carnevali, per non parlare delle processioni e delle feste di piazza.
E’ invece rimasta in ombra la questione delle professionalità coinvolte in questi processi: quale deve essere la formazione di chi progetta processi partecipati? E’ sufficiente una preparazione artistica o teatrale? O sono necessari altri strumenti e competenze (psicologiche, sociologiche, organizzative…) per i quali non è sufficiente il learning by doing? E’ possibile ipotizzare percorsi formativi dedicati? O si rischia solo di innescare l’ennesimo specialismo tecnicista?
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Teatro, performance e arti partecipative: un nuovo crocevia disciplinare e professionale
Pratica artistica e finalità sociali
Per Luca Ricci (Capotrave, Kilowatt Festival), come per altri operatori impegnati nelle varie forme di teatro sociale e di comunità, il fulcro del progetto deve restare sempre e comunque la qualità artistica, considerato il core business del progetto, la fonte della sua ispirazione originaria. Per altri operatori, l’obiettivo prioritario è invece il “benessere” dei partecipanti.
Andrea Paolucci spiega che quando il Teatro dell’Argine aveva iniziato a somministrare laboratori teatrali a cittadini e cittadine di tutte le età, nutriva la speranza di portare quegli allievi a diventare spettatori; con il passare degli anni, si è reso conto che l’obiettivo non è quello, o non è più (solo) quello: a contare è piuttosto la qualità della presenza, che può verificarsi davanti a uno spettacolo, durante un laboratorio, o nel corso di un incontro. Il valore non sta tanto nell’opera, quanto nel processo, sulla scia di quello che hanno insegnato le avanguardie artistiche della seconda metà del Novecento.
“Fare” o “vedere”
E’ un’altra polarità che emerge non appena si inizia a riflettere sulla scarsa partecipazione culturale, soprattutto dei giovani. Sono sempre più numerosi coloro che rispondono che preferiscono “fare”, “partecipare”, che “guardare”, cioè essere spettatori silenziosi e immobili, come di fronte a una serie tv.
Le ragioni di questa preferenza sono molteplici, a cominciare dall’abitudine al coinvolgimento (all’engagement) creata o imposta dai nuovi media e dai social.
Claire Bishop, riflettendo più di dieci anni fa sul fenomeno, aveva notato che
gli artisti che utilizzano i meccanismi partecipativi si oppongono esplicitamente al neocapitalismo liberale (in contrasto con l’individualismo e la società dei consumi), senza accorgersi che molti altri aspetti di queste forme artistiche si accoppiano con un’efficacia ancora maggiore alle forme più recenti del neoliberalismo (creazione di reti, mobilità, progettualità, emozionalità).
Più di recente, di fronte al boom dell’immersive theatre, Adam Alston commentava che il genere si rivela perfettamente funzionale all’ideologia e alla prassi del neocapitalismo, sia per il modello di business delle compagnie attive nel settore sia per la nuova tipologia di spettatore “proattivo”: curioso e desideroso di mettersi in mostra, emozionale, amante del rischio, in definitiva imprenditore di sé stesso.
C’è forse una ragione più profonda che spinge soprattutto i giovani a preferire il “fare” al “vedere”, a essere “attore” piuttosto che “spettatore”. La crisi identitaria, come ha notato Guido Di Palma, aumenta la necessità di esprimersi, dato che la nostra identità personale è determinata soprattutto dallo sguardo degli altri.
Risponde a questa preoccupazione Giuseppe Antelmo (Casa dello Spettatore), quando nota che la distanza dello spettatore “passivo” dall’evento è alla base della democrazia.
In questi anni, diverse esperienze di teatro partecipato si sono interrogate sui meccanismi della democrazia, mettendo in discussione i tradizionali dispositivi di rappresentazione lungo due direttrici. Da un lato tendono ad abolire la distinzione tra scena e platea, e tra attore e spettatore. Affidano dunque allo spettatore un ruolo attivo, all’interno di un dispositivo determinato da alcune regole. La gamification del dispositivo teatrale riflette peraltro una tendenza di carattere più generale. Dall’altro lato, smontano e rimontano la nostra percezione mettendo in frizione diversi livelli di realtà: il reale e la sua riproduzione video, il passato e il presente (la diretta e l’archivio), i corpi degli attori e le loro immagini virtuali, la proiezione nell’immaginario.
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Crisi della democrazia, nuova democrazia e dispositivi comicopolitici
Comunità e polis
Le esperienze di teatro partecipato (e in generale quelle di allargamento e promozione del pubblico) nascono per ovvie ragioni in stretta relazione con il territorio e i suoi abitanti. Per alcuni operatori, l’obiettivo di un progetto partecipato è “coinvolgere la comunità nella sua interezza”. Ma questo atteggiamento spinge a ipotizzare che il progetto abbia l’obiettivo identitario di rendere la comunità fortemente coesa, monolitica, e consapevole di questa sua natura. E’ del resto questo uno dei motivi che spingeva Jean-Jacques Rousseau a privilegiare la festa (ovvero la partecipazione all’evento dell’intera comunità) rispetto al teatro (che separa attori e spettatori).
Ma il teatro ha una funzione diversa dalla festa: dato (si spera) un fondo comune di valori condivisi dall’intera polis, fa emergere le diverse soggettività che la abitano e le contraddizioni che la attraversano, aprendo il dibattito. Grazie a questo processo diventa poi possibile trovare, attraverso il dibattito e la mediazione tra posizioni diverse, una possibile sintesi, attraverso la politica.
I processi partecipati e la politica
La partecipazione è uno strumento sempre più spesso invocato dalla politica. Nel momento in cui la democrazia rappresentativa vive una profonda crisi, il coinvolgimento dei cittadini a vari livelli (informazione, consultazione, partecipazione, responsabilizzazione/empowerment) pare offrire un antidoto. E il linguaggio utilizzato dalla pubblica amministrazione per promuovere la partecipazione dei cittadini per molti aspetti coincide con quello utilizzato dagli artisti che operano nel sociale.
Nell’attuale scenario culturale, le esperienze partecipate rappresentano una fascia vitale, e tuttavia marginale e scarsamente riconosciuta e finanziata. Non sorprende che le amministrazioni più conservatrici (a destra come a sinistra) cerchino di soffocare questi processi, non appena ne hanno l’opportunità. E non sorprende nemmeno che alcune amministrazioni “illuminate” cerchino di strumentalizzare questi processi, in un’ottica di marketing politico.
Dal punto di vista della pubblica amministrazione, nell’ottica della distribuzione delle risorse per la cultura (sempre più scarse), diventa cruciale misurare l’impatto di queste attività. La misura non si può certamente ridurre a biglietti venduti, a giornate lavorative, a spese dei visitatori per alberghi e ristoranti… Se non ci si limita alla valutazione economica, misurare l’impatto sociale è molto più complesso e forse impossibile.
Il rischio è quello di ridurre i progetti alla logica dell’impresa, a partire dallo stesso linguaggio utilizzato per raccontarsi. E, come nota Alston, la tendenza è quella di creare progetti allineati con gli obiettivi e le modalità delle start up neocapitaliste.
Un solo linguaggio, una galassia di esperienze, un’eredità politica
Le realtà che si sono date appuntamento a Cortona sono molto diverse, per la dimensione, per i progetti, per i territori dove sono insediate, per le modalità di lavoro. E’ stato sottolineato in più occasioni che l’uso di un linguaggio e di una terminologia, anche se condivisi e in apparenza efficaci, rischia di occultare queste differenze.
Come è diverso l’obiettivo dei progetti, anche se si avverte un comune sentimento politico, ben identificato da Claire Bishop:
Nelle diverse epoche, l’arte partecipativa ha preso forme diverse […]. Oggi la sua diffusione accompagna le conseguenze del crollo del comunismo reale, l’assenza di un’alternativa realistica di sinistra, l’emergere di un consenso ‘post-politico’ e la sottomissione pressoché totale al mercato delle arti e dell’istruzione.
Ci stiamo muovendo su un crinale sottile. I meccanismi partecipativi possono sviluppare la cittadinanza attiva, perché spingono a lavorare in gruppo e a prendersi le proprie responsabilità, a migliorare e condividere competenze e capacità, a mettere in discussione e ad affinare le proprie aspirazioni. Al tempo stesso, quando vengono risucchiate dal “fare”, dall’unanimismo comunitario e dall’ideologia del benessere, rischiano di mettere in secondo piano lo sviluppo dello spirito critico e l’energia trasformativa dell’azione culturale.
E’ l’ambiguità del welfare culturale: da un lato serve a riattivare i cittadini, a mitigare il disagio, a promuovere la salute dei cittadini, a favorire l’inclusione, ad accrescere la coesione sociale. Dall’altro rischia di occultare sotto la patina del culturale (e dell’intrattenimento) le reali disuguaglianze e le discriminazioni, come efficace “strumento di distrazione di massa”.
Nel Novecento, una generazione di uomini e donne di teatro, da Bertolt Brecht a Judith Malina, si era illusa che il teatro potesse cambiare la società, o almeno che potesse avere un ruolo in questo processo di emancipazione. Oggi ci accontentiamo di una consapevolezza meno impegnativa: il teatro può cambiare la vita di alcune persone, o di un piccolo gruppo di persone, e dunque di un frammento della società.
Forse la domanda che dobbiamo farci oggi, di fronte a questi processi culturali, è se hanno un reale effetto di trasformazione. Che cosa lasciano ai citttadini quando il progetto si conclude? Solo la nostaglia di un tempo liberato e creativo? Qual è il loro lascito, sul medio e lungo termine, positivo o eventualmente negativo, sui territori in cui agiscono?
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