I teatri comunali, un patrimonio per il futuro che ha le sue radici nella storia

L'intervento a "Lo spazio del possibile", Follonica, Teatro Fonderia Leopolda, 26 maggio 2023

Pubblicato il 22/06/2023 / di / ateatro n. 192 | Le funzioni e la gestione dei teatri comunali

Il 26 maggio 2023 il Teatro Fonderia Leopolda di Follonica ha ospitato Lo spazio del possibile. Eugenio Allegri e il teatro come politica culturale dei territori, la giornata di studi promossa dal Comune di Follonica e dal Teatro Fonderia Leopolda, contenuti e curatela a cura di Oliviero Ponte di Pino (Ateatro) e Luana Gramegna (Zaches Teatro), organizzazione, logisica e ecnica a cura di Ad Arte Spettacoli srl.
Quella che segue è la relazione di Mimma Gallina. Nei prossimi giorni pubblicheremo le altre relazioni e il report della giornata.
Info sull’iniziativa alla pagina Lo spazio del possibile. Eugenio Allegri e il teatro come politica culturale dei territori.
Nei prossimi mesi Ateatro rilancerà il progetto con nuovi approfondimenti e incontri.

Un po’ di storia

L’incontro Lo spazio del possibile e il pensiero di Eugenio Allegri cui è dedicato rilanciano molto opportunamente la riflessione sulle funzioni dei Teatri Comunali, e la stessa denominazione “teatro comunale”: sparita da anni dai decreti ministeriali (come del resto il termine “teatro pubblico”, cancellato dal 2014), raramente usata nelle leggi regionali, spesso sostituita da altre definizioni anche da parte degli stessi enti pubblici. Incredibilmente caduta in disuso, perché i teatri di proprietà, e in diverse forme gestiti dai Comuni hanno caratteristiche e funzioni specifiche, sono – quasi ovunque in Italia – un punto di riferimento fondamentale per la vita sociale e culturale delle collettività e costituiscono tuttora la spina dorsale del sistema teatrale.
Per coglierne l’importanza può essere interessante qualche suggestione storica.
Il primo e forse il principale atto dello Stato unitario relativo allo spettacolo, del 1867, è la cancellazione di tutte le spese per il settore e la cessione ai Comuni dei teatri di proprietà degli Stati preunitari. I Comuni – che già in molti casi possedevano propri teatri – si trovarono così a gestire un patrimonio immenso con risorse proprie, e le risorse erano scarse. Per scelta o per necessità, la maggioranza dei teatri furono nel tempo ceduti ai privati con locazioni anche secolari.

Follonica, 26 maggio 2023: Mimma Gallina e Matteo Negrin

Se nel pensiero ottocentesco lo spettacolo è un lusso, quindi non solo deve farcela da solo ma è vessato da tasse speciali (come lamentano i capocomici dell’epoca: e l’imposta sullo spettacolo sarà cancellata, e non del tutto, solo nel 1999), il fascismo peggiora la situazione: censura, finanziamenti discriminatori, limitazioni all’uso del dialetto, predilezione per il cinema (che autorizzerà frequenti trasformazioni, spesso irreversibili, delle sale). Scrive Silvio d’Amico in Il Teatro non deve morire (pubblicato il 20 aprile 1945), che ogni città di qualche importanza ha un teatro comunale ma nell’Italia che esce dal fascismo un’intera generazione non ha frequentato il teatro.
L’importanza dei Teatri Comunali e la funzione dei Comuni nella ricostruzione del teatro nel dopoguerra è rilanciata con la fondazione del Piccolo Teatro di Milano. Nella Lettera programmatica pubblicata sul “Politecnico” nel marzo del 1947, i firmatari (Mario Apollonio, Paolo Grassi, Giorgio Strehler e Virgilio Tosi) definiscono il nuovo Piccolo Teatro “il primo teatro di prosa tolto all’impresa privata a carattere speculativo”, “il primo teatro comunale d’Italia”. Altri seguiranno:

Su questa strada nasceranno domani molti altri Teatri municipali in Italia: perché moltissimi sono, in tutte le regioni, i Comuni che hanno un bel teatro in proprietà, spesso con una tradizione gloriosa e secolare di vita teatrale, oggi gestito però a cinema da concessionari privati che l’hanno ottenuto a condizioni favorevolissime, irrisorie. Non resta che attendere le scadenze più vicine: i contratti di concessione possono essere risolti ed i Teatri Municipali riprendere la loro funzione nella vita sociale del Comune.

La funzione del teatro per le comunità in una nuova e assieme antica dimensione democratica è ripresa con parole ispirate anche nel “manifesto” di Grassi e Strehler:

Il teatro resta quel che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori: il luogo dove una comunità liberamente riunita, si rivela a se stessa: il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere. Perché anche quando gli spettatori non se ne avvedono, questa parola li aiuterà a decidere nella loro vita individuale e nella loro responsabilità sociale.

Che rilanciare i luoghi di spettacolo fosse determinante per la sopravvivenza del teatro italiano lo avevano colto anche al Ministero della Cultura Popolare, nel 1942, fondando l’Ente Teatrale Italiano, il cui scopo era (e resta nel dopoguerra) proprio l’acquisto, il restauro e la gestione di immobili “destinati o da destinarsi ad uso teatrale” e occorrendo anche di imprese teatrali e cinematografiche (Silvio D’Amico non è generoso con il nuovo ente e ne parla come “capocomicato di Stato”).
Nella dialettica centro-periferia che caratterizza le vicende del teatro italiano nella seconda metà del Novecento, è fondamentale l’acquisizione in gestione dei teatri comunali da parte dell’ETI, con modalità di programmazione centralizzate, attente più alle necessità delle imprese che alle specificità territoriali. L’ETI, direttamente e mediando dalla fine degli anni Settanta con i neonati Circuiti regionali, nel momento di massima espansione arriverà a gestire 130 teatri.
Gli spazi di cui stiamo parlando sono prevalentemente “teatri all’italiana”. Qualche volta sono nati Comunali, spesso sono stati acquisiti dai Comuni in un secondo tempo. Le loro origini sono diverse (a volte gloriose, sempre suggestive): ci sono teatri nati “di corte”, teatri fondati dalle “accademie” (in Toscana hanno nomi suggestivi: si chiamano dei Rinnuovati, degli Industri, degli Animosi…), altri da società condominiali (i tanti teatri “sociali” o “della società” diffusi in tutta Italia), in qualche caso da società di mutuo soccorso (teatri “del popolo”…). Hanno 1000 o 50 posti, sono stati pensati per il melodramma, e ripropongono le proporzioni nate per questa forma di spettacolo anche se a volte su scala minima.
Ma ciascuno di questi teatri, e tutti nel loro complesso, costituiscono un formidabile patrimonio pubblico, un patrimonio fragile, ma da tutelare per pregio architettonico, funzione e significato identitario. Nelle nostre città hanno una posizione urbanistica centrale, che ne accentua anche il valore simbolico: per ceri aspetti, sono le cattedrali dell’Ottocento.
E non sappiamo neppure bene quanti sono (solo in alcune Regioni si è fatta una mappatura precisa).
Non ultimo, sono un elemento costitutivo del nostro teatro di giro -del nostro teatro tout court– nel bene e anche un po’ nel male: per i pregi e i limiti del dispositivo rispetto al nostro modo di fare e di partecipare al teatro.

Il decentramento

Gli anni Settanta – l’epoca del decentramento teatrale – segnano una svolta, con la riappropriazione dei teatri da parte di molti Comuni.
Il fenomeno è il frutto di fattori e spinte convergenti. La nascita delle Regioni, la discussione e la sperimentazione su cosa avrebbero dovuto o potuto fare, anticipata a volte dalle Provincie (come nel caso di Firenze). Lo sviluppo delle compagnie cooperative, che è uno degli effetti di un processo di riappropriazione della funzione intellettuale e di responsabilità sociale dei lavoratori dello spettacolo (degli attori in primo luogo). Il dinamismo della società civile con la scoperta dell’associazionismo, o la sua qualificazione culturale in alcuni territori (in Toscana in particolare dove il tessuto associativo e la rete delle case del popolo era capillare). Un incontro felice fra artisti e associazionismo si era già verificato con il “circuito alternativo” promosso da Dario Fo con La Comune nella seconda metà degli anni Sessanta. Il decentramento teatrale nasce insomma sull’onda lunga del ’68.
Furono molti i Comuni che si riappropriarono in quegli anni dei teatri, e molti quelli che decisero di promuovere attività teatrale pur non avendo teatri (negli spazi privati, nelle Case del Popolo, attrezzando le palestre). E’ molto più recente invece il recupero non episodico di spazi industriali per attività di spettacolo: ma il primo, nella seconda metà degli anni Settanta, è il Fabbricone di Prato.
Il fenomeno del decentramento non riguarda solo la provincia ma anche le città, dove si scoprono le periferie. Nascono gli Assessorati alla Cultura. E fiorisce l’attività all’aperto, i festival smettono di essere occasioni mondane, se ne fondano di nuovi che diventano vetrine per la ricerca o occasioni di cultura popolare. Le “stagioni estive” non sono più una prerogativa dei luoghi di villeggiatura, ormai sono dappertutto.
In questo processo, l’Emilia-Romagna arriva per prima, un po’ per la tradizione lirica che porta alla fondazione del primo circuito regionale, l’ATER, un po’ per la presenza di amministrazioni particolarmente attente. La Toscana è capofila di un movimento di piccoli comuni e anche principale terreno di scontro con l’ETI. Ma il fenomeno ha portata nazionale: dal Piemonte alla Campania, dal Friuli all’Abruzzo, dalla Lombardia alla Calabria, alla Sardegna, un po’ più tardi la Puglia e il Veneto (dove l’ETI era molto forte). Con tempi e modi propri di ciascun territorio, esplode un’inattesa Italia teatrale.
E’ anche per qualificare, razionalizzare e gestire questo fenomeno che nascono i Circuiti Teatrali Regionali, proprio come Associazioni di Comuni.
Il fenomeno è impressionante anche dal puno di vista quantitativo. Secondo le statistiche SIAE, si passa dalle 14.369 rappresentazioni di spettacoli musicali e di prosa del 1964 (l’anno che registra i risultati più bassi del dopoguerra) alle 23.682 del 1973, alle 48.209 del 1982. E se le rappresentazioni sono più che triplicate, si dice che le piazze siano decuplicate.
Nell’82, e per alcuni anni, la crescita si ferma anche per l’inasprimento dell’applicazione delle norme di sicurezza che segue l’incendio del Cinema Statuto a Torino. Ma l’interruzione ha anche altre cause: la fase pionieristica è cessata e le motivazioni socio-politiche si stanno spegnendo.
In compenso nel 1985 viene istituito il Fondo Unico per lo Spettacolo, non a caso a opera di un Ministro come Lelio Lagorio, che aveva già contribuito a promuovere il settore come presidente della Provincia di Firenze e poi della Regione Toscana negli anni che abbiamo descritto. Il FUS consentirà nei suoi primi anni un significativo consolidamento dei vecchi e di alcuni nuovi soggetti (i circuiti in particolare).

Teatri disabitati e compagnie senza casa

Il fenomeno del decentramento si normalizza e si esaurisce negli anni Ottanta, ma si associa a fenomeni e processi cui assistiamo tuttora.
La stabilizzazione delle compagnie in primo luogo: il Ministero dello Spettacolo riconosce gli Stabili Privati e i Centri di Ricerca teatrale.
Alcuni dei teatri chiusi dopo le vicende del Cinema Statuto e altri chiusi da decenni vengono ristrutturati fra gli anni Ottanta e Novanta, soprattutto grazie a fondi FIO (Fondo per gli Investimenti e l’Occupazione).
Questi recuperi però sono circoscritti ad alcuni territori regionali, i più lungimiranti, i più ricchi di teatri all’italiana (anche se non sempre alle nuove ristrutturazioni seguiranno pensieri nuovi e coerenti modalità di gestione).
Ma soprattutto il teatro è tornato nei ranghi: non lo si può più fare dappertutto e inevitabilmente le sperequazioni storiche si ripropongono, e non solo quella Nord-Sud.
Da dati incrociati SIAE-ISTAT del 1998, risulta che i Comuni capoluogo con il 30,3% della popolazione assorbono il 58,8% dell’offerta di spettacolo (le rappresentazioni), il 66,6% della domanda (le presenze), e totalizzano il 76,6% della spesa del pubblico (gli incassi). E se le città medie – quelle fra i 50.000 e i 200.000 abitanti – dimostrano un sostanziale equilibrio fra abitanti, domanda e offerta di spettacoli, i Comuni fino a 50.000 abitanti con il 64% dei residenti si aggiudicano solo il 38,6% delle rappresentazioni, il 30,2% degli spettatori e il 20,7% della spesa. Questi dati fotografano la sostanziale differenza di opportunità fra grandi e piccoli centri, per quanto riguarda il teatro. Gli obiettivi del decentramento teatrale sono lontani dall’essersi attuati, sono rimasti una parola d’ordine degli anni Settanta.
Già verso la fine degli anni Ottanta cominciano a diffondersi le esperienze di affidamento dei Teatri Comunali. Ma è solo molto più tardi, nel 1997, che il Ministro Walter Veltroni rilancia la discussione in una prospettiva nuova. In più occasioni il Ministro sottolinea che “l’Italia è un paese ricco di teatri disabitati e di compagnie senza casa”. La necessità di creare condizioni di incontro fra i Teatri (Comunali) e le compagnie è recepita dallo stesso Veltroni nel suo progetto di legge del ’97 (che come tutti gli altri si perderà nei passaggi fra le legislature) ed è alla base dei primi modelli di Residenze teatrali, a sua volta ispirati dal progetto toscano dei Teatri abitati.

Le modalità di gestione dei Teatri Comunali

Rimandando all’intervento di Matteo Negrin per una riflessione sulle funzioni dei Teatri Comunali e dei teatri di prossimità declinate al presente, vediamo come in quesi anni siano state messe a fuoco le diverse modalità di gestione.
L’affidamento – più o meno formale – era già una pratica consolidata, ma la prima a descriverla è la legge 13/1999 dell’Emilia-Romagna (Norme in materia di spettacolo):

Art. 3 (Funzioni dei Comuni) 1) I Comuni o le loro Unioni (…)
d) svolgono i compiti attinenti all’erogazione dei servizi teatrali, con riguardo alla promozione, programmazione e distribuzione degli spettacoli, avvalendosi di proprie strutture o di strutture di soggetti privati convenzionati, o tramite associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate.

Dieci anni dopo, la legge 21/2010 della Regione Toscana (Testo unico delle disposizioni in materia di beni, istituzioni e attività culturali) recepisce le numerose esperienze in materia. L’Art. 14 (Gestione degli istituti e luoghi della cultura come servizi privi di rilevanza economica) è molto dettagliato e descrive con precisione le modalità che si sono verificate e affermate negli anni in tutt’Italia, e che sono ancora attuali:

1. Nel rispetto dei principi di cui all’articolo 115 del d.lgs.42/2004, l’organizzazione degli istituti e luoghi della cultura come servizi privi di rilevanza economica può avvenire mediante gestione in forma diretta o in forma indiretta.
2. La gestione in forma diretta è svolta per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni, purché dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico. Tale gestione può essere svolta anche in forma associata, secondo la vigente legislazione.
3. La gestione in forma diretta può avvenire per mezzo di associazioni, fondazioni o altri organismi, le cui finalità consistano nella prestazione di servizi culturali, sui quali l’amministrazione cui l’istituto o il luogo della cultura appartiene esercita un’influenza dominante.
4. La gestione in forma indiretta si svolge mediante l’affidamento del servizio ad un soggetto esterno all’amministrazione cui l’istituto o luogo della cultura appartiene, che viene scelto tramite procedure ad evidenza pubblica in conformità alla disposizione di cui all’articolo 115, comma 3, del d.lgls. 42/2004.
5. Le procedure di cui al comma 4, sono definite nel rispetto dei seguenti criteri:
a) ricorso all’avviso pubblico ai fini della adeguata pubblicità della procedura;
b) effettuazione della selezione sulla base di progetti sufficientemente dettagliati sotto il profilo tecnico ed economico;
c) valutazione della qualità, della congruità economica e della fattibilità tecnica dei progetti di cui alla lettera b).
6. Nei casi di gestione in forma indiretta l’amministrazione titolare dell’istituto e luogo della cultura svolge le funzioni di indirizzo, controllo e vigilanza sull’attività dei soggetti concessionari della gestione e stipula contratti di servizio con tali soggetti. La Giunta regionale approva con apposita deliberazione schemi-tipo di contratto di servizio, elaborati nel rispetto dell’ articolo 115, comma 5, del d.lgs.42/2004, al fine di semplificare e rendere omogenea l’attività delle amministrazioni.

Il decreto legislativo citato è il Codice dei beni culturali e del paesaggio, dove l’Articolo 115 disciplina le Forme di gestione. Ricapitolando e riconducendo alle pratiche teatrali, le modalità di gestione possibili sono le seguenti

  • La gestione diretta “in economia” (attraverso la propria struttura amministrativa) per un servizio di “modeste dimensioni”. Questa modalità, che potremmo definire “storica”, presenta qualche vantaggio ed è tuttora molto diffusa sulle piccole dimensioni (non esclude fra l’altro il ricorso a consulenti o esperti), ma presenta molti inconvenienti per attività consistenti e articolate.
  • La gestione attraverso l’affidamento a Istituzioni come le aziende speciali, che hanno regolamenti propri ma operano sotto il controllo degli enti locali e possono gestire uno o più servizi (sono infatti utilizzate piuttosto raramente solo per la gestione del teatro, ma in qualche caso per il complesso delle attività culturali). E’ prevista anche l’azienda speciale consortile.
  • L’affidamento ad associazioni o fondazioni costituite o partecipate dai Comuni, dalle Regioni, e in passato anche dalle Provincie. E’ la forma più frequente per la gestione dei grandi teatri comunali, che svolgono un’ampia gamma di attività. E’ riconducibile a questa modalità anche l’affidamento da parte dei Comuni ai Circuiti teatrali regionali di cui sono soci.
  • Infine la concessione dei teatri a soggetti privati terzi.

Il contratto di concessione in uso di un teatro a una impresa privata viene attuato oggi in conformità con le disposizioni del Codice degli appalti (D.Lgs 50/2016), seguendo le procedure a evidenza pubblica che esso prevede.
Particolarmente interessante un’altra forma di gestione, il contratto di Parternariato Pubblico Privato (art. 180).
E’ un contratto a titolo oneroso per il Comune, che può riguardare la sola gestione del bene di proprietà del Comune o anche investimenti per la sua ristrutturazione, manutenzione, trasformazione. Il termine partenariato indica la relazione di cooperazione tra il soggetto pubblico e quello privato che prevede:

  • che il rischio d’impresa sia a carico del concessionario;
  • che la scelta dell’operatore economico avvenga con procedure ad evidenza pubblica, anche mediante dialogo competitivo;
  • che l’ente locale provveda all’affidamento ponendo a base di gara il progetto (di gestione e eventualmente di investimento sul bene), uno schema di contratto e un piano economico finanziario.

Il Comune può esercitare il controllo sull’attività dell’operatore attraverso sistemi di monitoraggio e l’operatore è tenuto a collaborare attivamente alimentando i sistemi di monitoraggio stabiliti.
E’ frequente anche la pratica di affidamenti multipli, cioè a più soggetti privati; per esempio la gestione tecnico-amministrativa a un soggetto, la programmazione della musica, della danza, della prosa a soggetti diversi, mantenendo su tutti la vigilanza.

Il Codice degli Appalti prevede anche il Parternariato Pubblico Privato Speciale.
Il comma 3 dell’art. 51 del Codice degli Appalti (questa disposizione, come del resto quelle relative all’articolo 180, sono mantenute nella recente riforma, Nuovo Codice degli Appalti (pubblicato in “Gazzetta Ufficiale” il 31 marzo 2023) prevede:

Per assicurare la fruizione del patrimonio culturale della Nazione e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla tutela, lo Stato, le Regioni e gli enti territoriali possono, con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, attivare forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici e con soggetti privati, dirette a consentire il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l’apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato analoghe o ulteriori rispetto a quelle previste dal comma 1.

Il comma 1 fa riferimento alle sponsorizzazioni a luoghi e istituzioni culturali. La ricerca dell’operatore economico e il contratto si realizzano con procedure semplificate, analoghe a quelle delle sponsorizzazioni. La Società Fitzcarraldo, anche  in collaborazione con l’ANCI (che assiste i Comuni che decidono di seguire questa procedura innovativa), promuove questa forma di relazione contrattuale per la gestione dei beni e dei servizi culturali e ha messo a punto un impianto di relazione contrattuale orientato a sviluppare la cooperazione tra l’ente locale e il concessionario attraverso la concertazione flessibile e continuativa nel tempo delle condizioni di valorizzazione e gestione del bene oggetto del contratto.
L’aspetto più originale e interessante di questa forma riguarda la possibilità che siano uno o più operatori culturali ad avanzare una proposta di valorizzazione all’ente locale. Questa modalità è stata promossa recentemente per diversi progetti di recupero e gestione attivati “dal basso” e in funzione di un utilizzo teatrale, come quello per il Monastero del Carmine a Bergamo, per l’ex Chiesa di Santa Caterina a Cuneo, per Palazzo Gambassi e il borgo montano di Campsirago o per il Teatro di Barletta (oggetto di un intervento a questo stesso convegno).

Dall’affidamento in gestione alle pratiche di partecipazione

Negli ultimi 25 anni il dialogo fra Comuni/Teatri Comunali (disabitati) e compagnie/artisti (senza casa) non si è attuato solo, o prevalentemente, attraverso l’affidamento in gestione dei teatri.
Le esperienze di residenza sono in gran parte riconducibili a questo dialogo: sono molto articolate e solo in parte si identificano con il modello promosso dagli accordi di programma Stato-Regioni a partire dal 2015.
Le esperienze più avanzate e convinte sono state – come si diceva – quelle promosse Regione Toscana, che per molto tempo ha messo la residenzialità al centro delle sue politiche, ribadendo la scelta nella legge:

CAPO I
Sistema regionale delle attività teatrali, musicali, di danza, cinematografiche e audiovisive
Art. 34 Funzioni della Regione (…)
h) favorisce l’insediamento nei teatri e negli spazi destinati ad uso teatrale della Toscana dei complessi delle arti dello spettacolo, in particolare delle compagnie teatrali di prosa, di danza e dei complessi musicali, promuovendo la residenzialità come elemento qualificante del sistema regionale dello spettacolo;

Il principio della “residenzialità” si può realizzare in molte forme, così come le pratiche del rapporto con il territorio e con le comunità si sono affermate e trasformate nel tempo, anche a livello nazionale.
La promozione, formazione, costruzione del pubblico è sempre meno riconducibile al “reclutamento” degli spettatori (termine che oggi suona infelice, quanto lungimirante era ai tempi della fondazione del Piccolo Teatro), e passa sempre più frequentemente attraverso la partecipazione diretta, i laboratori, le pratiche del teatro sociale e di comunità applicate al territorio e alla sua narrazione.
In quest’ottica, alle compagnie che “risiedono” o “gestiscono” un teatro si chiede molto di più che creare o programmare spettacoli: si chiedono progetti capaci di cogliere e rispondere ai bisogni della collettività – intesa come organismo dinamico e creativo – e di interpretare il genius loci.
E a un direttore artistico si chiede di più, o almeno lo si chiede a un direttore (e a un Comune) che sappia cogliere questi mutamenti: è il caso di Eugenio Allegri e del suo rapporto con il Comune e con la città di Follonica.
Anche dal punto di vista amministrativo, è necessaria creatività nel delineare il progetto di gestione da mettere a gara, formulare convenzioni, ipotizzare modalità di relazione.

Dalle politiche regionali al Codice dello Spettacolo

Le Regioni hanno affrontato con modalità e attenzione molto diverse fra loro il tema dell’esercizio teatrale, pubblico o privato, e il sostegno ai teatri di proprietà comunale. I compiti degli stessi Comuni non sono esplicitati in tutte le leggi.
Ricapitoliamo le scelte più rilevanti o originali alla luce della ricerca confluita nel libro Le politiche per lo spettacolo dal vivo tra Stato e Regioni (a cura di Marina Caporale, Donati, Mimma Gallina e Panozzo, Franco Angeli, 2023). Le leggi regionali che richiamiamo sono quelle dedicate allo spettacolo e analizzate nel libro.
Se l ’Emilia-Romagna considera la gestione degli spazi pubblici un servizio che i Comuni devono erogare, la Lombardia è altrettanto precisa, anche se con termini diversi. Con riferimento alle “Sale destinate ad attività di spettacolo”, richiama la Legge Regionale per il governo del territorio, secondo cui i Comuni devono assicurare servizi pubblici o di interesse pubblico (spettacolo compreso) con proprie strutture o acquisendole. La Regione Marche – terra ricca di teatri storici anche molto piccoli – collega la promozione dello spettacolo alle politiche di valorizzazione dei beni culturali, e fra le funzioni dei Comuni prevede che garantiscano l’utilizzo delle loro strutture per consentire la diffusione dello spettacolo sul territorio e sostiene l’attività̀ del teatro amatoriale come funzione di utilizzo dei piccoli teatri. Troviamo un riferimento analogo nella legge della Sicilia, che raccomanda la concessione in uso dei teatri al teatro amatoriale e studentesco.
La Toscana – come si è visto – sostiene le compagnie nella misura in cui “abitano” i teatri. Altre Regioni stimolano in modo particolare la collaborazione pubblico-privato. Il Friuli-Venezia Giulia sostiene i teatri di ospitalità e di produzione e dedica un capitolo della legge ai “contenitori culturali e creativi”, ovvero spazi multidisciplinari, innovativi e funzionali alla “realizzazione di atmosfere creative”. Il Lazio sostiene gli “Spazi per lo spettacolo dal vivo”, con particolare riferimento a quelli di piccole dimensioni, gestiti e programmati da giovani, e in genere spazi stabili di produzione.
La Calabria attribuisce un ruolo rilevante alle Residenze, incaricate di gestire spazi teatrali (massimo due) di proprietà di enti locali per un triennio rinnovabile, con progetti anche orientati al turismo culturale. Anche la Campania prevede, sempre per le Residenze, la gestione di uno spazio pubblico, ma per almeno cinque anni e in aree disagiate. L’Abruzzo, favorisce “la collaborazione fra soggetti privi di teatro e i gestori di teatri pubblici e privati per la realizzazione di residenze temporanee” (riprende così, per quanto la legge sia del 2014, il modello originario delle Residenze).

I principi e i criteri di sostegno agli esercizi teatrali pubblici o privati, o pubblici gestiti da privati, o le attività “residenti” che implicano gestione di spazi, sono diversi da Regione a Regione, ma soprattutto non sono previsti da tutte le Regioni. Anche le denominazioni sono diverse: “luoghi della cultura”, “contenitori creativi”. Diversa è la descrizione degli stessi “spazi per lo spettacolo”: le leggi regionali più recenti hanno recepito la trasformazione in senso multidisciplinare e multifunzionale.
Non sono state quindi attivate politiche sistematiche e omogenee per il recupero e la gestione dei luoghi della cultura, e per sostenere i Comuni nel loro compito. Certo non ha giovato la scarsa chiarezza e la sovrapposizione di competenze fra Stato, Regione ed Enti locali.
Il sostegno al restauro e all’adeguamento tecnologico delle sale però (e in qualche caso anche la costruzione) è formalmente previsto, seppure con modalità e in misura diversa (e in molti casi è previsto ma non finanziato) da quasi tutte le Regioni. Mancano all’appello – con riferimento alle leggi analizzate – Liguria, Valle d’Aosta, Abruzzo, Molise e Calabria (dove si prevedono però contributi per le attrezzature utilizzate nella produzione).

Il Codice dello Spettacolo potrà determinare condizioni migliori e politiche più decise? Nella legge 22 novembre 2017, n. 175. Disposizioni in materia di spettacolo e deleghe al Governo per il riordino della materia i riferimenti rispetto a questo tema sono minimi, i Teatri Comunali non vengono nominati e non c’è nemmeno un riferimento indiretto. Si prevede però all’Art. 1

4. L’intervento pubblico a sostegno delle attività di spettacolo favorisce e promuove, in particolare: (…)
n) le attività di spettacolo realizzate in luoghi di particolare interesse culturale, tali da consentire una reciproca azione di valorizzazione tra il luogo e l’attività;
o) le modalità di collaborazione tra Stato ed enti locali per l’individuazione di immobili pubblici non utilizzati o che versino in stato di abbandono o di degrado o di beni confiscati da concedere, nel rispetto di quanto previsto dalle disposizioni vigenti in ordine all’utilizzazione, alla valorizzazione e al trasferimento dei beni immobili pubblici, per le attività di cui al comma 2.
(nda: il comma due elenca praticamente tutte le discipline e i settori)

Molto potrebbe naturalmente fare il governo, delegato a emanare uno o più Decreti. Per esempio, potrebbe pensare a un decreto ad hoc sui luoghi della cultura, o a un’azione concertata, un accordo di programma Stato-Regioni. Il dibattito nazionale sul tema è vivace, perché molte sono le energie che si muovono intorno ai luoghi di nuova concezione e agli spazi musicali. Da più parti si sostiene l’utilità di una legge ad hoc che potrebbe recepire forse le trasformazioni e le differenze territoriali e funzionali in una logica di sistema.
Ci piacerebbe però che la definizione Teatri Comunali restasse. E’ una definizione antica, ricca di storia, anzi di storie. Qualunque sia la forma di gestione, rispecchia la funzione pubblica di luoghi della e per la collettività, luoghi per l’esercizio della democrazia e della responsabilità sociale, sottratti alla speculazione, come si auspicava nel 1947.

I link

Marche: la regione dei Teatri

Nati come elegante “arredo urbano” e come salotto ideale, i teatri storici delle Marche hanno contributo ad accrescere la solida cultura musicale e l’amore per lo spettacolo, un tratto distintivo che il turista può apprezzare ancora oggi in tutta la sua vivacità, assistendo ad avvincenti rassegne di rappresentazioni e concerti che si svolgono durante l’anno. Oltre settanta teatri storici, infatti, ospitano stagioni liriche, sinfoniche, di danza e prosa.
Le Marche sono state definite la regione dei teatri, in gran parte gioielli del Settecento e dell’Ottocento: grandi e sfarzosi come quelli di Pesaro, Macerata e di Ascoli Piceno; preziosi perché conservano macchinari scenici d’epoca come quello di Offida. Teatri che sono autentici scrigni in miniatura come quello di Montegiorgio e il teatro della Rocca di Sassocorvaro. A Jesi il teatro G.B. Pergolesi è noto per la decorazione del soffitto eseguito da Felice Giani; a Fabriano nel teatro Gentile, l’acustica è la migliore dei teatri delle Marche. A Fermo nel teatro dell’Aquila è stata allestita una sezione dedicata alla documentazione storica delle attività della struttura. Da segnalare sono i teatri Le Muse di Ancona, Misa di Arcevia, La Vittoria di Ostra, La Fortuna di Fano, il teatro Comunale di Cagli, in fastose forme neobarocche, il teatro La Fenice di Osimo e il Mercantini di Ripatransone.

IL LINK: La regione dei Teatri

Le Residenze artistiche della Regione Toscana

Grazie all’attuazione della legge regionale 21 del 2010 tramite la linea di azione “Sostegno e promozione dei progetti di residenza artistica e culturale, finalizzati alla diffusione della cultura e delle arti e dello spettacolo dal vivo”, il sistema teatrale toscano si è dotato di una rete diffusa di residenze artistiche.
Il progetto, frutto della collaborazione virtuosa tra i vari soggetti sparsi sul territorio, si è confermato valido strumento per creare occasioni di incontro tra l’offerta culturale e la pluralità di istanze rappresentate da ogni singola comunità.
Le residenze artistiche teatrali in Toscana sono 23; 33 imprese che lavorano in 57 spazi teatrali in 43 Comuni, 1114 persone impiegate.
Il volume d’affari complessivo ammonta a 31 milioni e 980 mila euro, a fronte di un investimento pubblico di Regione (poco meno di 6 milioni di euro con 2 milioni per ogni annualità), Comuni e Mibac nel complesso pari a 14 milioni e 700 mila euro.

IL LINK: Le Residenze artistiche della Regione Toscana




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