Guerrieri della bellezza: la formazione del performer secondo Jan Fabre
In occasione dell'edizione italiana di Dall'azione alla recitazione (FrancoAngeli)
Il performer del XXI secolo
Guerrieri della bellezza: Jan Fabre definisce così i suoi attori e le sue attrici, protagonisti di performance leggendarie per la durata (dalle 8 ore del suo spettacolo d’esordio This is theatre like it was to be expected and foreseen (1982) fino alle 24 ore di Mount Olympus), per lo sforzo che richiedono agli attori (per esempio correre sul posto o in cerchio per 40 minuti, oppure roteare pesanti catene per una ventina di minuti, fino allo sfinimento), per le prestazioni richieste (orinare in scena o partorire un uovo dalla vagina). Provocatorio e controverso fin dagli inizi della carriera, Fabre si è affermato tra le star della performance, del teatro e delle arti visive, con decine di spettacoli e mostre in tutto il mondo.
Nelle scorse settimane è uscita la traduzione italiana di Dall’azione alla recitazione, ovvero le Linee guida di Jan Fabre per il performer del XXI secolo, firmato con Luk Van den Dries per un colophon all stars: presentazione di Anna Bandettini, introduzione di Richard Schechner e postfazione di Michail Barishnikov, traduzione di Luisa Berghout, nella collana diretta da Fabrizio Gifuni, che la cura con uno dei performer italiani di Fabre, Matteo Franco (FrancoAngeli, 2023).
Conosco Jan Fabre da quarant’anni, quando rimasi folgorato dal debutto di The Power of Theatrical Madness (1984) alla Biennale diretta da Franco Quadri. Da allora appena posso seguo il suo percorso, tra spettacoli e mostre. Ogni volta resto colpito dalla precisione, dalla potenza, dalla generosità impudica dei suoi performer, dalla loro presenza sulla scena, sia negli assoli sia nelle grandi opere collettive, dove lo spazio freme per i loro corpi in azione.
Le Linee guida sono alla base dei laboratori per performer “professionisti e semi-professionisti”, che Jan Fabre e i suoi collaboratori tengono da tempo in diverse città. A febbraio 2023, nel Troubleyn/Laboratorium, ne è stato organizzato uno di due settimane.
Il cuore del manuale è costituito da una quarantina di esercizi da eseguire da soli, a coppie, in gruppo, in un training che si sviluppa con coerenza, dal cosa e dal “diventare animale” (dove i totem sono gatto, tigra, lucertola e insetto) all’esplorazione dello spazio, dal rapporto con l’altro (e gli altri) nello spazio scenico, a figurazioni più complesse, di forte impatto simbolico. Ogni esercizio è descritto in dettaglio, nella genesi, nell’esecuzione, nelle intenzioni e negli obiettivi, ma soprattutto nell’impatto fisiologico sul corpo dei performer.
La condanna
Fabre è stato al centro di una clamorosa vicenda giudiziaria: i capi di imputazione erano diversi, secondo la stampa, tra cui violenza, bullismo, molestie sessuali sul lavoro e aggressione sessuale nei confronti di una donna. Nell’aprile 2022, il tribunale di Anversa ha condannato il regista belga a 18 mesi (senza reclusione), per 5 “violazioni della legge sul benessere dei lavoratori” e, nel caso di una donna, per “assault on decency (a French kiss)” (“aggressione a sfondo sessuale”). In una nota, il tribunale ha voluto precisare che
nella valutazione dei reati di cui è accusato l’imputato, il tribunale ha tenuto conto del contesto specifico in cui tali reati sono stati commessi. Ha tenuto conto anche del fatto che la libertà artistica è limitata da disposizioni di legge a tutela dell’integrità fisica e psichica dei dipendenti.
Dal canto suo l’artista ha smesso di rilasciare interviste. Durante il processo ha fatto leggere al suo avvocato una nota scritta a mano:
Mi scuso sinceramente con chiunque si senta ferito, con chiunque si sia sentito male a causa mia. Vi auguro l’anarchia dell’amore e della bellezza.
Forse l’intera vicenda verrà inserita nel catalogo delle performance dell’artista, come una variazione sui temi chiave della sua opera.
Oggi, quando si parla di Fabre, anche in Belgio, le reazioni sono varie: chi lo “cancella” e dunque lo vorrebbe escluso per sempre da tutti i teatri e da qualunque galleria d’arte, chi condanna l’uomo e assolve l’artista, chi si imbarazza, chi fa finta di niente, chi lo difende. Chi tace.
Anche ad Anversa, la sua città, i segnali sono contraddittori. Nella cattedrale (cattolica) di Nostra Signora è custodito lo straordinario Innalzamento della Croce, realizzato nel 1610 da Pieter Paul Rubens su commissione dalla Gilda degli Archibugieri, che aveva come patrono san Cristoforo. A pochi metri dal polittico, nella navata centrale della cattedrale, dal 2015 riluce d’oro una scultura di Jan Fabre, L’uomo che porta la croce, dove l’effigie dello stesso artista tiene in precario equilibrio sulla mano destra protesa, in un gesto da giocoliere, una croce.
Il centro artistico De Singel ha invece scelto di rimuovere un’altra sua opera, L’uomo che misura le nuvole, una statua sul tetto dell’edificio che raffigurava naturalmente Jan Fabre, le braccia spalancate al cielo.
Troubleyn/Laboratorium
La compagnia ha sede nel quartiere dove Fabre è cresciuto, non lontano dal centro storico.
Ci si entra oltrepassando un pesante portone e percorrendo un vicoletto incassato tra due edifici.
Il cuore del complesso è un vecchio teatro che era andato a fuoco nel 1974. Dal 2007, grazie a un contratto d’affitto di ampio respiro, è una sala prove ideale, con un ampio palcoscenico (ma ogni tanto lo spazio si apre al quartiere per varie attività).
Restaurato dall’architetto Jan Dekeyser, negli anni è diventato un museo che raccoglie, disseminate nelle stanze, nei corridoi, sulle scale, negli sgabuzzini, decine di opere d’arte contemporanea.
Marina Abramović ha progettato la cucina, segnando le pareti con frasi scritte con il sangue di maiale.
Ci sono opere del belgi Hugo Claus, Luc Tuymans, Chantal Ackerman, e poi MASBEDO, Romeo Castellucci, Orlan, Pascal Rambert e decine di altri e altre… Un interfono nel pavimento dell’atrio collega il Troubleyn/Laboratorium al Watermill Center di Robert Wilson, a New York.
Mentre guida gli ospiti in un tour del labirintico edificio, metà teatro e metà scuola dismessa, Fabre informa sulla storia e sul significato di alcune installazioni, precisando ogni volta il valore di mercato degli artisti. Sono tutti i lavori site specific e dunque sarà molto difficile dare all’immobile una diversa destinazione d’uso. Resterà per sempre il museo creato da Jan Fabre.
Il laboratorio
Il teaching group, condotto da Ivana Jozič e Pietro Quadrino, performer “storici” del gruppo ora in veste di formatori, si è aperto ad alcuni osservatori, per una dimostrazione del “metodo Fabre”. In scena una ventina di giovani attori e danzatori da tutta Europa, selezionati tra centinaia di richieste: Estonia, Romania, Spagna, Slovenia, molti con borse di studio, soprattutto dopo la pandemia, e anche diversi italiani, perché “siamo due paesi cattolici”, sogghigna Fabre. Alcuni sono qui per la prima volta, altri hanno deciso di ripetere l’esperienza.
Il regista segue i lavori dal fondo della platea, fuma e prende appunti. In silenzio. Solo ogni tanto gli sfugge un commento ad alta voce. A metà pomeriggio e alla fine dei lavori dà un puntiglioso feedback al gruppo, a porte chiuse.
Per chi agisce sul palco, è un duro impegno, dal punto di vista sia fisico e sia psicologico. La fatica e il dolore, la noia della ripetizione, lo stress. Quando arrivano, i novizi vengono avvertiti: è un lavoro soprattutto fisico, che tuttavia può provocare sentimenti ed emozioni molto forti e inattesi.
Ogni esercizio viene accompagnato dalla lettura del manuale, a volte prima di cominciare, a volte tra due sessioni dello stesso esercizio, dopo che la prima volta era stato sommariamente spiegato. Sono spiegazioni lunghe e minuziose, narrative, che raccontano la genesi dell’esercizio, che in diversi casi riprende la scena di uno spettacolo. A volte è un omaggio a maestri come William Forsythe, Peter Brook, Jacques Lecoq ed Etienne Decroux, Emio Greco, o Mejerchol’d… In altri casi è dedicato a uno degli interpreti dei suoi vecchi spettacoli, come Els Deceuliker, “l’incarnazione dell’estasi, in molte produzioni di Fabre”, e magari nelle immagini fotografiche del volume sono proprio loro ad eseguire il compito: capita per esempio a Cédric Charron, Ivana Jozič o Annabelle Chambon.
Per certi aspetti i lavori di Fabre sono una sequenza di questi esercizi, che diventano moduli da inserire in un montaggio che è insieme architettonico e musicale.
Guerrieri della bellezza
Per il performer e la performer si tratta ogni volta di superare la soglia della fatica e del dolore. Era una delle tecniche usate nel Teatro delle Fonti di Jerzy Grotowski, dove non si doveva parlare, dormire, mangiare, e compiere azioni faticose fino allo sfinimento. Era lo stesso mantra dell’allenatore del tennista André Agassi, quando gli diceva che doveva raggiungere “the other side of tired”, l’altro lato della stanchezza. E’ una delle strade che portano all’estasi (o alle allucinazioni) care ai mistici.
Fabre ha una visione agonistica dell’arte e del teatro. I guerrieri della bellezza “superano sé stessi e raggiungono un altro stato dell’essere” (p. 31). Fare arte, fare teatro vuol dire superare il limite. Vuol dire usare la provocazione, anche estrema. In alcuni casi come arma ironica.
Il modello sono le performance di artisti “che hanno messo alla prova i propri corpi e hanno lavorato con i confini fisici e mentali dello sfinimento” (p. 55). Come Marina Abramović, che incide con una lametta sul proprio ventre una sanguinante stella a cinque punte; Chris Burden, che si fa sparare a un braccio da cinque metri; Joseph Beuys, che rimane chiuso per tre giorni in una galleria d’arte, da solo con un coyote.
Lo stesso Jan Fabre, nel Diario notturno portato in scena in Italia da Lino Musella, annota:
Ho comprato delle lamette Gillette. E nella mia stanzetta d’albergo mi sono tagliato la / fronte. Ho fatto sgocciolare il sangue del mio pensiero. È diventato una serie di bei disegni. / (Avevo l’eccitante sensazione di star facendo qualcosa di proibito).
Queste esperienze estreme esemplificano il concetto base della performance, contrapposta al teatro di rappresentazione: la regola base è Tempo reale/Azione reale. Lo sforzo, il dolore, lo scorrere del tempo, la ripetizione fanno collassare la rappresentazione. L’altro lato della finzione. Gli interpreti non recitano la fatica, la vivono con tutte le loro cellule.
Questo corpo non mente. Durante un esercizio fisico faticoso il cuore inizia a battere più velocemente, la respirazione diventa più veloce. In condizioni di caldo estremo le ghiandole sudoripare iniziano a lavorare di più per mantenere la temperatura corporea. Nella corsa all’orgasmo, c’è un aumento del flusso sanguigno. Queste sono leggi fisiche alle quali non si può sfuggire.
(p. 55)
Per questo motivo molti spettacoli ed esercizi sono basati sulla durata, “un logorio causato dal tempo, che immerge il performer sempre più nella sua esperienza”, e sulla ripetizione: “Ripetendo all’infinito la stessa serie di movimenti diventa visibile l’effetto reale sul corpo” e “diventa impossibile ripetere il ciclo di movimenti esattamente allo stesso modo” (p. 58).
La ripetizione non altera solo i corpi: altera anche il tempo, che “diventa una spaccatura sempre più aperta”, perché “si diventa consapevoli di ogni ciclo temporale che è passato” (p. 59).
Quando l’esecuzione di un esercizio non lo convince, Fabre commenta: “C’è una nota troppo drammatica, non arriva dal corpo”. In quel caso il gesto è rimasto teatro, psicologia, noia.
Lo sballo dell’attore
L’intenso stress psicofisico può portare alla perdita di controllo, alla trance.
Si sa che attraverso lo sforzo intenso e sostenuto di una corsa, si crea una varietà di neurotrasmettitori (endorfine e serotonina) che porta al cosiddetto “sballo del corridore”. Più a lungo si corre, più la coscienza si spegne: il corridore scivola lentamente in una sorta di intossicazione, una leggera sedazione. (…) I performer non mollano mai, nonostante l’evidente stanchezza, nonosante il sudore che imperla i loro corpi. E’ proprio allora che si continua, perché è proprio di questa fatica che si tratta: la scena diventa interessante sono quando gli effetti fisici sul corpo diventano udibili e visibili, quando il performer comincia ad avere le vertigini e la vista si affievolisce e deve raccogliere tutte le sue forze per continuare a correre. Solo quando diventa difficile per il performer si può scoprire qualcosa. (…) I performer fanno di tutto per spingersi l’un l’altro oltre i propri limiti.
(pp. 175-176)
Non sono solo il dolore e la fatica. A volte si tratta di superare la soglia del disgusto o del pudore. Pulire minuziosamente il pavimento con tutte le parti del proprio corpo. Andare oltre i propri limiti porta alla perdita di controllo, fino all’incontinenza:
La vergogna che ne deriva è fin troppo umana. Ma il performer supera questa vergogna. Osa mostrare la propria vulnerabilità. Non eme di essere ridicolo. Né ha paura di comportarsi come un folle. Il buffone che è in lui è sempre pronto a mostrare il sedere.
(p. 63)
Perdere il controllo consente di “dar forma all’ignoto, arrendersi a qualcosa che non si è (ancora) cristallizzato nella forma” per “dar vita a nuove creazioni” (p. 62). Anche se ai performer si chiede di “collegare costantemente le tre ‘i’, ovvero intelligenza, intuizione e istinto”, sintonizzando “i tre organi centrali (cervello, cuore, genitali)” (p. 37).
Il lavoro sul corpo risveglia la sessualità, porta in zone pericolose.
La sessualità e la creatività sono partner nel crimine, quindi è naturale usare l’immaginazione.
Non solo in Striptease, “un esercizio di seduzione” dove “il performer seduce il pubblico” in un gioco di illusioni, “cercando di avvicinarsi all’essenza della verità” (p. 152).
Nell’esercizio Dal profano al sacro, si “scopa un partner immaginario, o si viene scopati da un partner immaginario”. Si tratta di trascendere il proprio corpo, per una “trasformazione che interviene a tutti i livelli del corpo, toccando le cellule, i nervi, le ghiandole, i muscoli, i liquidi, gli organi, le fibre…”
La scopata intensa, la scopata nient’altro che la scopata, la scopata oltre i confini della fatica, della ragione, della decenza, la scopata come un oggetto-cosa-bestia-uomo-dio-diavolo, come il diventare terra, luce, come dolore dal piacere, piacere dal dolore.
(p. 195)
Una delle improvvisazioni contenute nella terza parte de volume, “Omaggio a Monty Python”, è una Olimpiade orgiastica, “incentrata sul numero di picchi orgasmici che un atleta può raggiungere, incoraggiato e allenato dal suo personal trainer” (p. 23). E’ tuttavia vietata ogni contatto fisico tra il sex coach e il suo atleta.
Il performer è un cannibale
Ai suoi interpreti il regista Fabre richiede presenza scenica (e questo vuol dire anche superare di slancio il senso del pudore), energia e precisione. Sono competenze che si attivano attraverso un allenamento che ricorda quello degli atleti o dei militari, secondo una precisa metodologia. Al Laboratorium ci sono anche corsi di yoga, kendo, danza classica. Il preludio agli esercizi di Fabre è una precisa modalità di respirazione e una postura altrettanto precisa che parte dagli angel feet, i “piedi degli angeli”.
Nel lavoro del performer c’è molta disciplina e altrettanta dismisura:
Il performer sbrana tutto ciò che riesce a mettere sotto i denti, come un cannibale. Ciò che gli altri troverebbero disgustoso è ciò che lui cerca. (…) A intervalli regolari divora tutto, spudoratamente bulimico. Tutti questi tipi di materiali diventano corpo, vengono incorporati. E poi buttati di nuovo fuori come piscio, vomito o sudore.
(p. 62)
E’ quello che capita in alcuni dei lavori di Fabre, dove i liquidi organici diventano protagonisti.
Il guerriero della bellezza di Fabre, commenta Ven der Dries, “è simile al superuomo di Nietzsche: esplora i confini, non ha paura di ogni tipo di impulso che prolifera in lui, osa abbracciare i paradossi e soprattutto non è completo. E’ in cammino per diventare un essere umano più completo, un altro tipo di uomo, un uomo oltre l’uomo (p. 159). Tuttavia questo superuomo teatrale “genera e difende la fragilità, l’indefinibile, l’irrazionale, perciò crea una specie di eternità che si sottrae a qualsiasi ideologia”: solo così può recuperare l’aura cara a Walter Benjamin (p. 31), o forse quel surplus di energia che per l’Antropologia Teatrale di Eugenio Barba differenzia la presenza scenica dell’attore dalla nostra presenza quotidiana.
Nella pratica di Fabre il superamento del limite non può avere e non deve avere sempre successo, perché
La bellezza dell’esercizio sta nel fallimento.
(p. 171)
Il superuomo è tale proprio perché lavora sui limiti del proprio corpo. Ci sono esercizi sul “corpo malato”, e c’è l’impressionante Anziani, con un “movimento difficile ed estremamente faticoso”, con un corpo che “barcolla e trema”. Dopo una lentissima avanzata, venti minuti per pochi metri, questo fremito “evocato dall’interno” ha sul corpo l’impatto di una maratona.
C’è il limite supremo, quello della morte. Per Fabre il perfomer deve morire per rinascere: “Sei morto e sula scena torni alla vita… Come chi esce dal coma. Ogni piccolo dettaglio è una meraviglia, un’avventura, una scoperta”.
L’attore come macchina significante (la supermarionetta)
La formazione degli attori e delle attrici è un’ossessione del teatro moderno. Alamano Morelli fu docente nella seconda metà dell’Ottocento alla milanese Accademia dei Filodrammatici, nonché autore dello straordinario Prontuario delle pose sceniche. Per lui, e per il teatro ottocentesco del Grande Attore, l’attore è prima di tutto un produttore di segni: le emozione dei personaggi che interpreta si condensano in gesti precisi.
Rabbia, Furore – Braccia aperte inclinate al suolo, con mani chiuse a pugno rivolte al dinanzi.
Spavento – Arrestar il passo, retrocedere, rizzarsi, portar indietro un piede, alzar le braccia, allargar le mani e la bocca; occhi spalancati con fronte accigliata.
Timidezza, Imbarazzo – Grattarsi con l’indice dietro l’orecchio.
Sono solo alcuni esempi di uno straordinario alfabeto delle emozioni, un codice stenografico con decine di gesti-segni a cui attingere nel portare in scena il personaggio. L’interprete è una marionetta (o, per dirla con Edward Gordon Craig, una super-marionetta), che deve dare corpo, con la massima precisione possibile, a un linguaggio codificato (per alcuni a livello culturale, per altri a livello antropologico, ma questo è un altro problema). Un attore aveva il proprio repertorio di gesti-emozioni, che utilizzava quando il testo (o la situazione drammatica) lo richiedeva. La sua interiorità può e forse deve restare estranea a questo processo, come hanno provato a spiegare Diderot (con il paradosso dell’attore) e Brecht (con la teoria dello straniamento). L’attore è come un operaio che aziona una macchina. Solo che quella macchina è il suo corpo. E, come avrebbe detto Grotowski, erano dunque “disorganici”.
Dall’emozione all’azione e viceversa
Per Konstantin Stanislavskij tutto questo non funzionava. Per essere credibili, le emozioni dei personaggi non potevano essere comunicate solo da movimenti esteriori. Dovevano corrispondere a emozioni reali, e dunque dovevano scaturire dall’interiorità dell’interprete. La psicologia iniziava a colonizzare il teatro. Ogni attore doveva avere un bagaglio di emozioni personali da attivare quando necessario. Le emozioni si dovevano “rivivificare”, ovvero dovevano essere recuperate ed estratte dall’interiorità dell’attore, comprese le sue fragilità e il suo “lato oscuro”, anche perché gli spettatori amano i cattivi e le dark ladies, sulla scena e sullo schermo. In questa prospettiva (che sarà rilanciata a New York dall’Actors’ Studio di Lee Strasberg), l’attore deve mettere a disposizione del testo e del personaggio (o meglio del drammaturgo e del regista) il proprio vissuto, nelle sue pieghe più segrete. E deve spingersi fino al limite, perché l’arte ama (e forse deve) esplorare situazioni estreme, in un turbinare di sensazioni ed emozioni, anche quando rappresenta un’apparente normalità.
Per lo Stanislavskij di Il lavoro dell’attore sul personaggio, in estrema sintesi, il gesto doveva essere il frutto delle emozioni profonde dell’attore. Fu lo stesso Stanislavskij ad accorgersi che accadeva anche il contrario: le azioni fisiche hanno effetto sulle nostre emozioni. Se assumiamo una certa postura, se compiamo un determinato gesto, il nostro stato d’animo può cambiare.
L’atleta del cuore
Nel frattempo il migliore allievo di Stanislavskij, Vsevolod Mejerchol’d, dopo aver visto le straordinarie acrobazie degli attori dell’Opera di Pechino (e dopo aver riflettuto a lungo sulla Commedia dell’Arte), aveva impostato il suo teatro e la sua pedagogia su principi opposti. Il teatro non è psicologia, ma azione, gesto, movimento. Il corpo è una macchina sorprendente, e può compiere azioni mirabolanti. Servono forza, elasticità, agilità, consapevolezza, padronanza del corpo. E’ dunque necessario allenare attori e attrici come se fossero pugili, virtuosi delle arti marziali.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il teatro lottava per emanciparsi dall’ipoteca della letterarietà e si affrancava dal dominio della parola, la parola d’ordine era diventata training, allenamento. Generazioni di teatranti si sono formate eseguendo gli esercizi descritti nelle pagine di Per un teatro povero di Jerzy Grotowski. Ancora oggi è emozionante rivedere il filmato del 1972 in cui Cieslak, l’“attore santo” del regista polacco, trasmette magicamente il proprio sapere fisico a due giovani attori dell’Odin Teatret, Torgeir Wethal e Iben Nagel Rasmussen.
Anche il Living Theatre approfondisce le virtù del training, in maniera paradossale. The Brig è ambientato in una prigione per marines (molti decenni prima di NCIS). Per interpretare quei personaggi e risultare credibili, gli attori devono sottoporsi a una addestramento militare simile a quello descritto da Stanley Kubrick in Full Metal Jacket.
La pratica del training, e una lunga e faticosa formazione, caratterizzano da sempre diverse discipline dello spettacolo e dello sport: basti pensare alla danza classica in Occidente, agli attori-acrobati dell’Opera di Pechino in Cina, ma anche a discipline sportive come la ginnastica artistica o il nuoto sincronizzato, con storie di corpi costruiti (o deformati) millimetricamente giorno dopo giorno, anno dopo anno. Comprese le vicende di bambini e bambine brutalizzati da allenatori-insegnanti convinti delle virtù pedagogiche del terrore.
L’attore santo
Per Antonin Artaud l’attore non può affidarsi solo al mestiere e alla tecnica, ma deve impegnare tutto sé stesso.
L’attore è simile a un vero e proprio atleta fisico, ma con questo sorprendente correttivo: all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benché non operante sullo stesso piano. L’attore è un atleta del cuore (…) Tutti i mezzi della lotta, del pugilato, dei cento metri e del salto in alto trovano analogie organiche nell’esercizio delle passioni; hanno gli stessi punti fisici di sostegno.
(Antonin Artaud, “Un’atletica affettiva”, in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, p. 242)
Essere un atleta del cuore non è sufficiente.
Grotowski prefigurava un “attore santo”, che scopre sé stesso attraverso un atto di autopenetrazione, e poi offre al pubblico ciò che c’è di più intimo in lui, anche quello che vuole nascondere o gli causa dolore, restituendo anche i più piccoli impulsi psichici. Chi ha visto in scena Riszard Cieslak, inarrivabile protagonista di Apocalypsis cum Figuris, capisce che quella dell’“attore santo” non è una metafora. Per Grotowski, poeta dell’eccesso e della profanazione,
Se l’attore fa un gesto che gli insegno, a cui lo addestro, dal punto di vista del metodo lo definirò un cliché; mentre nel mio intimo dirò che è sterile perché non mi porta a nessuna apertura. Ma se attraverso la collaborazione reciproca otteniamo che il gesto liberato dalle resistenze quotidiane mi riveli l’attore in modo irripetibile, allora sul piano del lavoro riconosco che questa modalità di lavoro è efficace e nel mio intimo mi arricchisce, perché in questo solo gesto si rivela la sequenza delle esperienze umane e persino qualcosa di speciale che si potrebbe definire come il destino dell’uomo, la sua condizione.
Qui sta per Grotowski l'”essenza dell’attore”.
E’ come se in una sola reazione l’attore potesse aprire uno dopo l’altro i diversi strati della sua personalità: da quello biologico-istintivo, attraverso il pensiero e la consapevolezza, fino a un vertice difficilmente definibile dove tutto converge in uno; sta in questo l’atto totale di scoprirsi, di fare dono di sé, che nello stesso tempo confina con il superamento delle barriere quotidiane e con l’amore. Io lo definisco atto totale. Se l’attore fa questo, diventa per lo spettatore una sorta di sfida.
(Jerzy Grotowski, “La ricerca del metodo”, originariamente in Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970; ora, in una traduzione rivista, in Jerzy Grotowski, Testi 1954-1988. II. Il teatro povero, Firenze, La casa Usher, 2015, pp. 86-87)
La pedagogia teatrale
Bastano questi pochi accenni per capire che la pedagogia teatrale è una faccenda assai delicata. Non si tratta solo e tanto di trasmettere una tecnica, ma di manipolare il corpo e l’interiorità di attori e attrici. Proprio in questo sta la sua forza d’attrazione: perché il teatro diventa un viaggio alla scoperta di sé e dei propri limiti, fisici ed emotivi. Spinge al loro superamento, anche a prezzo di grandi sacrifici e profonde sofferenze. E’ un percorso così coinvolgente che per molti attori e attrici la soddisfazione narcisistica, l’esibizione, l’applauso del pubblico, diventano quasi fastidiosi, perché non riguardano il nucleo profondo, più autentico, di un percorso che è prima di tutto personale, a livello sia fisico sia spirituale.
Questa traiettorie portano fuori dalla comfort zone. Prevedono attraversamenti dolorosi e pericolosi. Non è detto che siano indispensabili, necessari. Se il teatro è uno spazio di libertà, di felicità, di comunità, queste frizioni, queste torture, sembrano contraddirne la natura. Sembrano all’opposto rispetto a una pratica di liberazione e di scoperta del corpo e dell’altro.
Si penetra nell’intimità degli attori e delle attrici, li si spinge oltre il limite, come se si dovesse “rompere” qualcosa. Anche un regista come Luca Ronconi, che basava tutto il proprio lavoro sulla parola e sulle possibili interpretazioni di un testo, rifiutando sia un approccio psicologico sia un approccio fisico, ha portato diversi attori oltre il “punto di rottura”. A leggere le testimonianze dei suoi attori, le crisi erano profonde, a volte devastanti. E in quel “teatro di parla” erano elevate anche le richieste “fisiche”, la fatica di spettacoli lugnhi e impegnativi.
Che cosa è un attore/un’attrice oggi
Una persona che scava dentro di sé per condividere le sue ferite più profonde. Un atleta che si sottopone ad allenamenti sfiancanti, oltre la soglia del dolore. Un santo che si immola sulla scena. Un esploratore ossessivo delle parole, che si perde nel labirinto del linguaggio. Un individuo che accetta di essere frantumato, disintegrato, per cercare una nuova organicità. Un essere umano che deve andare oltre il punto di rottura, per offrirsi senza pudore allo sguardo del pubblico.
Viene da chiedersi che cosa chiede – e che cosa può chiedere – un regista oggi a un attore o a un’attrice, visto che la tecnica non è sufficiente. Per restituire la “verità scenica” non basta più fingere: la presenza sulla scena deve essere sorretta da una verità del corpo (spinto oltre i propri limiti) o della psiche (attingendo al personale, e magari al proprio lato oscuro). La creatività degli attori nutre le improvvisazioni, che il regista potrà scegliere se o scartare o se usare, magari affidando quel prezioso materiale a un altro attore.
Viene da chiedersi che cosa sia un attore o un’attrice. A nessun professionista si chiede una disponibilità di questo genere, assoluta, impudica, estrema.
Viene da chiedersi se questo processo così doloroso è l’unico modo per ottenere certi risultati, se fa davvero parte dell’essenza profonda del teatro (e in generale del rapporto pedagogico).
E se lo è, viene da chiedersi se è giusto, se il risultato vale questo prezzo, questi rischi, questo pericolo.
In questa nostra epoca, ora che gli automi e i bot, che non provano emozioni, sostituiscono sempre più spesso gli esseri umani, a cosa serve un attore? A che cosa serve un essere che soffre per imparare a fingere, ovvero per fare una delle poche cose che i robot non sanno ancora fare?
Sia per chi segue una prospettiva stanislavskiana, che parte dalla psicologia per costruire un personaggio credibile, sia per chi si muove in un’ottica performativa, attraverso un lavoro prima di tutto fisico, la richiesta del teatro del XXI secolo è davvero molto alta. Per alcuni questi tipi di teatro sono diventati troppo esigenti.
Les Callisto e l’arte della gioia
Certamente nel mondo dello spettacolo – come in tutti gli ambienti di lavoro – dominano maschilismo e paternalismo, nonostante le apparenze liberali e liberate. Certamente, come ha insegnato #MeToo, ci sono molestie e violenze che vanno cancellae e abolite. Ma il problema non è sono quello. E’ ancora più ampio.
Nel 2020 in Francia un collettivo di giovani attori e attrici ha fondato Les Callisto, un’associazione che vuole sensibilizzare sulla violenza e sul sessismo nell’ambiente teatrale, con le parole d’ordine “denunciare, educare, proteggere”.
Calisto ha diffuso un documento contro i metodi pedagogici “violenti” e a “una pedagogia basata sulla pericolosa idea che, per diventare un buon attore, bisogna venire spezzati”. L’8 febbraio 2023 “Le Monde” ha rilanciato il documento di Calisto con un’ampia inchiesta sul disagio degli allievi/allieve ed ex allievi/allieve dei Conservatoires e di altre scuole di recitazione francesi (Vedi Alice Raybaud, Les jeunes acteurs ne veulent plus souffrir sur scène).
Una giovane attrice ha spiegato: “Mi sono accorta che non voglio recitare in quel modo, anche perché non è necessario”. Aggiunge Richard Dumy: “Io, come tanti giovani attori, sono convinto che non serve più subire la violenza per recitarla e farla vedere in scena. Anche se è difficile dirlo a un futuro datore di lavoro e nell’ambito di una cultura profondamente radicata, ma sono convinto che la pedagogia stia cambiando, anche se lentamente”. E’ una svolta pedagogica: Calisto chiede agli insegnanti di sottoscrivere un documento dove si precisa che “la loro libertà pedagogica deve avere un limite nell’integrità fisica e psichica degli allievi”. Per Aurélie Van Der Daele, nominata di recente direttrice della scuola di teatro di Limoges, “è un’intera generazione di artisti che vuole fare teatro in maniera diversa. Ho visto molti colleghi che si sono appannati. Ma il teatro deve restare un’arte della gioia, anche quando si affronta una realtà complessa”.
Les Amandiers
Il disagio dei giovani attori non è una novità. Di recente il film di Valeria Bruni Tedeschi Les Amandiers, racconta le speranze, la felicità ma anche le sofferenze degli allievi della scuola di teatro diretta da Patrice Chéreau a Parigi di cui lei stessa è stata allieva (è un altro dei film teatrali in cui, non a caso, si cerca di portare in scena il teatro di Anton Cechov, in questo caso Platonov).
Sia Patrice Chéreau sia il suo assistente Pierre Romans, spiega Valeria Bruni Tedeschi,
non erano maestri, erano registi, e non avevano una scuola convenzionale. Per questo volevo raccontarla e parlare dell’esperienza che hanno fatto insieme a noi e che è stata molto diversa, per esempio, da ciò che normalmente succede frequentando il Conservatoire. La nostra era una scuola in cui ci insegnavano il piacere di cancellare la frontiera tra la vita e la scena e la capacità di deambulare dalla vita alla scena e dalla scena alla vita con estrema libertà, in modo da trasmettere ai personaggi le nostre verità, imparando quindi non a recitare ma a essere.
(Carola Proto, Forever Young: incontro con Valeria Bruni Tedeschi, artista che resiste alla stupidità della vita, “Coming Soon”, 25 novembre 2022)
Per poi criticare con durezza i due registi per l’uso di droghe, perché “chi insegna deve avere un senso di responsabilità”.
Ma lei stessa, ai suoi attori, chiedeva: “Dovete quasi morire di gioia e di dolore” (Claudia Catalli, Valeria Bruni Tedeschi: “Ai miei attori dicevo: dovete quasi morire di gioia e di dolore”, “l’Espresso”, 5 dicembre 2022).
Intimacy Coordinator
Negli ultimi anni è periodicamene riaffiorata la polemica per la famigerata “scena del burro” di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (1972), con Marlon Brando e Maria Schneider.
Di recente anche gli interpreti dei due giovani innamorati di Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli (1968), Olivia Hussey e Leonard Whiting (che per la loro interpretazione vinsero due Golden Globes), hanno intentato una causa contro la Paramount Pictures per una scena di nudo non autorizzata, girata quando avevano rispettivamente 15 e 16 anni. Analoghe polemiche hanno riguardato Laguna Blu (1980), protagonisti i giovani Brooke Shields e Christopher Atkins.
Da alcuni anni a Hollywood (e successivamente su altri set e su alcuni palcoscenici) sono attivi gli intimacy coordinators, con il compito di evitare ad attori e attrici traumi indesiderati, soprattutto nelle scene intime. Secondo gli “Standards and Protocols for the Use of Intimacy Coordinators” stilati dal potente sindacato degli attori statunitense, la Screen Actors Guild-AFTRA, l’intimacy coordinator svolge diverse funzioni:
# tiene i rapporti tra gli attori e la produzione;
# verifica che gli interpreti e tutto il personale sul set seguano i protocolli di sicurezza;
# aiuta il regista a realizzare la sua visione;
# coordina i movimenti per rendere le scene più credibili;
# si impegna a costruire un ambiente sicuro, e questo significa delineare con chiarezza quello che ci si aspetta dagli interpreti nelle scene “iper-esposte”, assicurandosi che attori e attrici diano “un consenso informato e costante”.
Claire Warden, una intimacy coordinator, spiega:
Sono la persona che deve prevedere tutto quello che va preso in considerazione quando si gira una scena di questo tipo. Il regista ha già moltissime cose a cui pensare e di cui occuparsi, dunque sono convinta che sul set si possano perdere l’attenzione per i dettagli e l’armonizzazione delle idee e delle visioni del regista con la loro realizzazione. Avere sul set qualcuno che capisce questo tipo di espressione artistica, che può aiutare a chiarire la visione artistica e realizzarla, entro i limiti definiti dagli attori, è una grande opportunità.
(How to Become an Intimacy Coordinator, “Backstage”, 13 febbraio 2023)
Di recente il dibattito si è riacceso. Per Ian McKellen i coordinatori stanno rovinando la “purezza” del set. Secondo Emma Thompson, si tratta invece di una figura necessaria per un’attrice
che deve recitare in un set popolato in gran parte da uomini, con una troupe composta al 90% da uomini, e non ci sono altre donne con te. E’ una posizione molto scomoda per una giovane donna che sa iniziando la carriera. E’ fondamentale che si sia qualcuno in grado di proteggerla. Davvero fondamentale. Ho lavorato con giovani attrici che sono state profondamente traumatizzate dalle loro esperienze sul set.
(Ellie Harrison, ‘Truly traumatised’: Emma Thompson explains why intimacy coordinators are ‘absolutely essential’, “The Independent”, 10 febbraio 2023)
E’ un processo analogo a quello che ha portato alla nascita di una figura come il sensitivity reader nelle case editrici, o che sta portando all’esclusione da molti corsi della lettura e dello studio di testi anche classici che possono offendere la sensibilità dei giovani lettori e delle giovani lettrici, perché possono riportare alla luce e “rivivificare” traumi personali o collettivi.
Nell’era del “politicamente corretto” e del #MeToo, si ritiene sempre più spesso che soggetti fragili, che dunque non sono in grado di far rispettare appieno i propri diritti e “difendersi da soli”, debbano essere tutelati da norme specifiche (che però possono avere impatti e conseguenze di carattere generale), ed eventualmente affiancati da adeguate figure professionali.
Pier Paolo Pasolini e Maria Callas: “Spezzare e frantumare”
All’inizio delle riprese di Medea, Maria Callas ebbe un momento di “angoscia leggera leggera”, che secondo il regista del film, Pier Paolo Pasolini, era dovuto al
sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà, di essere stata “adoperata” (…) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch’io, come te. E’ terribile essere adoperati, ma anche adoperare.
Con la sua sensibilità, Pasolini coglie il punto di rottura nel rapporto tra regista e attore. E’ un autodidatta della regia, ma soprattutto è un intellettuale sempre animato da una autentica vocazione pedagogica, e dunque attentissimo al rapporto maestro-allievo. Il cinema, spiega a Maria Callas,
è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora.
Nel cinema il processo è più evidente, estremo. Per Pasolini, il rapporto è (metaforicamente) violentissimo:
Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita in un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. E’ appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno non si è più sé stessi, ma una piccola scheggia di sé stessi: e questo umilia, lo so.
(Pier Paolo Pasolini, Le lettere, nuova edizione a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini, Garzanti, Milano, 2021, pp. 1383-1384)
Il “corpo senza organi” immaginato da Artaud e teorizzato da Deleuze e Guattari, libero da ogni forma di oppressione e condizionamento sociale, purificato, può essere raggiunto solo attraverso la sofferenza, dopo una angosciosa discesa agli inferi, in un devastante processo di destrutturazione e disgregazione.
Una pedagogia del dolore
Come spiega Jan Fabre, in questo percorso pedagogico il dolore viene
utilizzato per spostare i miei confini fisici e mentali. La distruzione diventa allora un modo per raggiungere uno stato d’essere in cui posso fare a meno della rete di sicurezza dell’esperienza e della conoscenza, in modo che non sento più alcun dolore fisico ed entro in una sorta di intossicazione mentale.
(Corpus Jan Fabre, p. 324)
Per i giovani corpi che sono tornati ad Anversa, la “pedagogia del dolore” di Jan Fabre è stata senz’altro un’esperienza positiva: perché, come raccontano Isabella e Giorgio, li ha fatti stare bene, perché la ritengono un’ottima forma di allenamento “dove non mi annoio”, per confrontare le mie reazioni rispetto a quelle del ciclo precedente (in un percorso di autoconsapevolezza), e forse anche perché sperano di lavorare con il regista belga (anche se non lo dicono esplicitamente).
Oggi si sottolineano sempre più spesso i legami tra la cultura e il benessere personale e collettivo. Si esplorano le possibilità del welfare culturale.
Tuttavia c’è un aspetto che continua a contraddire questa prospettiva ed è l’ombra che accompagna ogni progetto pedagogico che vada al di là della trasmissione di tecniche e nozioni, che si spinga oltre i tutorial e wikipedia. Se ci si spinge oltre l’edutainment, la relazione pedagogica rischia un’ineluttabile ambiguità.
Il complesso “maestro-discepolo” non si limita affatto all’ambito della religione, della filosofia o della letteratura. (…) E’ un fatto della vita tra generazioni. E’ inerente a qualsiasi educazione o trasmissione, nelle arti, nella musica, nell’artigianato, nelle scienze, nello sport o nella pratica militare. Gli impulsi a una fedeltà amorosa, alla fiducia, alla seduzione e al tradimento, sono parti integranti del processo dell’insegnamento e dell’apprendimento. L’eros del processo di apprendimento, di imitazione e successivamente di affrancamento, è suscettibile di crisi e rotture come il sesso. Le tensioni che si addensano e si dissolvono in una conversazione platonica, intorno al tavolo di un seminario, si riproducono nell’atelier, nel conservatorio, nel laboratorio. Nel workshop come nel corso più avanzato operano modalità identiche di rivalità, di gelosia, di competizione; identiche sono pure le tattiche del tradimento.
(George Steiner, La lezione dei maestri, Garzanti, Milano, 2004, p. 126)
L’incisione
L’ultimo esercizio della giornata del workshop è una variazione da una scena di Je suis sang (2001), dove il sangue è “uno degli elementi costitutivi del corpo (…) è un alimento e fornisce vitalità”. La scena è occupata dalle dieci coppie di performer, che eseguono insieme l’esercizio.
Gli uomini stanno il fila contro la parete di fondo, le donne sono distribuite nello spazio (con le spalle rivolte verso gli uomini. (…) Gli uomini (…) tengono in mano una spada o un coltello reale o immaginario. (…) Esprimono una determinata forza (…) ma non sono presenti per sé stessi, bensì per le spose esposte davanti a loro. Sono spettatori che aspettano pazientemente l’iniziativa delle donne.
Le donne sviluppano lentamente il desiderio del coltello/spada degli uomini. E’ quello che vogliono, che bramano, che anelano, è ciò che desiderano. E’ la vergine che vuole essere squarciata per sanguinare. Per farlo invita l’uomo che sta dietro di lei, tira su una manica e mette a nudo l’interno di un braccio, o libera una spalla e gliela offre, o una coscia, lì la carne è più morbida, o il morbido ventre. E’ fondamentalmente un sacrificio. Le vergini sacrificano il loro sangue come negli antichi riti di fertilità. (…) Le vergini desiderano l’estasi di questo sacrificio, il momento estatico di essere squarciate, di spargere sangue.
Le vergini preparano il punto dell’incisione: mettono a nudo una parte del corpo e battono leggermente le arterie per attivare il flusso del sangue. In questo modo indicano al cavaliere/servitore dove vogliono essere tagliate. Il cavaliere completamente calmo e sereno come un maestro di cerimonie, si fa avanti. Esaudisce l’invito della vergine-sposa: con un coltello reale o immaginario fa un’incisione immaginaria sul punto preparato da lei. La taglia, dolcemente, senza un accenno di violenza, come un atto d’amore, per servilismo, come un omicidio per compassione e pietà. (…) In seguito, il cavaliere aiuterà la vergine a far uscire uo il suo sangue dalle ferite aperte nel suo corpo. (…)
La vergine è inconsapevole delle conseguenze fisiche del suo svuotamento: sente come il suo sangue esce dall’incisione del suo corpo e man mano che il processo prosegue di indebolirà sempre di più. Comincerà a remare e sussultare, di tanto in tanto sverrà e alla fine si irrigidirà. Il cavaliere-servitore successivamente porterà il corpo della fanciulla quattro passi indietro, (…) lui la stende sul palcoscenico, dopodiché aspetta (…) la purissima vergine a cui offrire la sua abilità di taglio.
(pp. 185-187)
La descrizione è minuziosa, attenta ai dettagli e alle intenzioni. L’orrore viene raggelato in un rituale dalla bellezza e dal nitore neoclassici. Le ragazze si rialzano, il sacrificio si ripete.
Nella sua evidente simbologia sessuale, la sequenza è una fantasia di stupro maschile e la denuncia del masochismo femminile. La moltiplicazione delle coppie e la ripetizione ossessiva oggettivano la dinamica dell’identificazione e obbligano lo spettatore alla riflessione, mettendo a nudo gli stereotipi del rapporto tra maschile e femminile. Ne rivelano l’insensatezza e la violenza, e al etmpo stesso ne denunciano l’ineluttabilità, nella coazione a ripetere degli uni e delle altre. E’ un gioco o una condanna?
Il performer utilizza l’esaurimento reale e il suo effetto sul corpo come input per la recitazione.
(p. 98)
Man mano che l’esercizio si ripete, due, cinque, dieci volte, i cavalieri sono sempre più stanchi, la precisione del gesto si appanna, mentre le principesse sembrano prendere forza, energia, splendore.
Amore e morte, l’archetipo, o il cliché romantico. La frammentazione feticistica del corpo. “La depravazione dell’amore”, commenta Fabre. Ma forse quel rito è anche una metafora del rapporto crudele e vampiresco che lega il regista/cavaliere al performer/fanciulla con la catena di una bellezza guerriera che può ferire nel profondo. Ricordando sempre che il performer si costruisce nella resistenza che oppone al regista.
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