Focus AdoleScen[z]a | “Sapere che muori e farlo lo stesso, questo sì è coraggio!”: lo spettacolo Bunker sull’autolesionismo degli adolescenti
Un'intervista al regista Michele Comite e alla psicoterapeuta Giovanna Bronzini, ideatori del Progetto Psychaché
Il Progetto Psychaché. Il valore della parola è nato nell’autunno 2019, per sensibilizzare la comunità rispetto al tema dell’autolesionismo e della rinuncia alla vita da parte degli adolescenti. Un tragico fenomeno, sempre più presente anche nel territorio del Trentino-Alto Adige.
Il progetto, ideato dal regista Michele Comite e dalla psicoterapeuta Giovanna Bronzini, ha coinvolto gli istituti superiori di Rovereto. Ha portato alla realizzaizone dello spettacolo Bunker. Un’ombra su cui porre luce, diretto dal regista Michele Comite del Collettivo Clochart, con la coreografia di Hillary Anghileri, le scenografie di Anna Ucosich e Gigi Giovanazzi, interpretato dai giovani Martina Scrinzi, Anna Ucosich, Alice Ucosich, Andrea Ucosich, Sergio Sartori, Alisia Aurora Calzà, Paolo Ruscazio, Giuliano Tonolli, Maddalena Zucchelli, Andrej Beregoi e Sofia Girardelli.
Coma sono nati il Progetto Psychaché. Il valore della parola e lo spettacolo Bunker. Un’ombra su cui porre luce?
Giovanna Bronzini: In un giorno qualsiasi la comunità di Rovereto si è ritrovata protagonista di una terribile tragedia: 17 anni, un salto da un ponte. La notizia giustamente non è apparsa sui giornali, per rispetto al dolore della famiglia e per evitare emulazioni. Dopo qualche giorno, mi sono trovata casualmente accanto a un gruppo di ragazzi che discutono dell’evento. Commentano il fatto come un atto eroico e di temeraria sfida alla vita: «Che coraggio!» «Bisogna essere determinati per fare una cosa del genere!»
Nel sentire queste parole mi congelo. Ho tentato di interagire con i ragazzi, spiegando loro che il coraggio si esprime affrontando la vita e le sue difficoltà, e non rinunciando a essa. La risposta che mi è stata data all’unisono è stata «No! Sapere che muori e farlo lo stesso, questo sì è coraggio!» Questa risposta mi ha raggelata. Inizio a pensare alla necessità di creare uno spazio che dia voce al tema. Mi sono confrontata con Michele Comite, fondatore e regista del Collettivo Clochart, con il quale avevo già lavorato in passato, e ci siamo chiesti se fosse possibile creare un progetto partendo dai ragazzi. Per poter dare parole a ciò che comunemente si tende a nascondere. Dopo un confronto abbiamo individuato l’ipotesi di coinvolgere le scuole e di creare un laboratorio teatrale in cui i ragazzi potessero esprimere liberamente i loro pensieri, le loro angosce, le loro paure, lavoro che si è realizzato nello spettacolo Bunker. Un’ombra su cui porre luce.
Il progetto è partito nell’autunno del 2019 e i protagonisti principali sono stati i ragazzi, in particolare quelli guidati dalla professoressa Maria Frapporti del Liceo Rosmini, che non ha avuto paura, come insegnante, di affrontare l’argomento sicuramente complesso. Purtroppo, a causa della pandemia, il lavoro ha rischiato di arenarsi, ma non ci siamo persi d’animo e abbiamo portato avanti il progetto creando due filoni: uno per i ragazzi, con il laboratorio teatrale gestito da Michele e supervisionato da me, e l’altro per gli adulti. Abbiamo organizzato alcuni incontri pubblici in cui si è parlato dell’argomento che hanno registrato un’alta partecipazione del pubblico. Il programma prevedeva anche un Convegno Scientifico che, vista l’impossibilità di realizzarlo in presenza causa pandemia, è stato trasformato in webinar online con 400 partecipanti, grazie alla collaborazione di IPRASE che ha messo a disposizione la sua piattaforma e-learning. Il progetto è andato avanti fino alla creazione dello spettacolo Bunker. Un’ombra su cui porre luce, diretto dal regista Michele Comite del Collettivo Clochart. Lo spettacolo ha debuttato nello Spazio Sacro della Campana a Rovereto registrando il tutto esaurito.
Quale metodo di lavoro è stato scelto in termini di scrittura del testo e tipologia di materiali utilizzati?
Michele Comite: Il primo “strumento” è stato l’ascolto empatico. Ci siamo messi in contatto con i ragazzi, permettendo loro di raccontare i propri vissuti, i propri pensieri, senza mai dare un giudizio, facendoli sentire legittimati nell’esprimersi liberamente. Il teatro, infatti, non deve essere il luogo del giudizio, bensì il luogo della connessione, e quando c’è connessione, c’è ascolto. Siamo partiti dall’ascoltare e accogliere i loro disagi, tenendo ben presenti le potenzialità che può avere il laboratorio teatrale, che si rivela un mezzo utile per raccontare ed esporre queste fragilità.
Dopo questa prima fase di ascolto reciproco, abbiamo iniziato a raccogliere le testimonianze sul fenomeno, grazie a racconti e lettere. Da qui siamo passati a trascrivere questi pensieri. I ragazzi hanno condiviso il proprio bagaglio e, attraverso l’improvvisazione teatrale, abbiamo creato il testo e la performance.
Ci sono state delle difficoltà nella fase di realizzazione del progetto e com’è stato accolto?
Giovanna Bronzini: L’ostacolo più grande è stata la paura degli adulti, e cioè degli insegnanti e dei genitori. Affrontare questo argomento non è facile, bisogna entrarci emotivamente e affrontare una realtà che può far sentire impotenti e disarmati. Paradossalmente i ragazzi hanno meno paura di affrontarla rispetto agli adulti, e l’abbiamo sperimentato in prima persona. Abbiamo lavorato con una classe del liceo e una mamma mi ha comunicato che la figlia si era sentita obbligata a partecipare e che il suicidio non è un argomento a cui far avvicinare i ragazzi. Ci tengo a precisare che i ragazzi erano estremamente liberi di prendere parte al progetto e di abbandonarlo quando lo desideravano. A conferma di quanto detto, riporto questo aneddoto: dopo una replica dello spettacolo, in presenza di 400 ragazzi di un istituto superiore, invitati a esprimere i loro pensieri, hanno esordito così: “Meno male che in questo contesto se ne può parlare”.
Michele Comite: La pandemia è stata sicuramente un ostacolo per la realizzazione del progetto, anche se, con il senno di poi, possiamo affermare che in realtà ci ha concesso il tempo di entrare meglio nel tema, di sentirlo maggiormente, di dargli il respiro che necessitava, permettendoci di arrivare al momento dello spettacolo con più consapevolezza. Come ha detto Giovanna, l’ostacolo più grande è stata la protezione dei ragazzi da parte degli adulti, la loro tendenza a negare ed evitare, esito di una loro insita paura.
Giovanna Bronzini: La pandemia, come diceva Michele, ci ha permesso di maturare maggiormente. Io e Michele siamo partiti con un grandissimo entusiasmo e con molte idee. Queste idee però dovevano svilupparsi nel tempo. Avremmo dovuto concludere il progetto entro il 2020. Essere stati costretti a prolungare il suo sviluppo ci ha permesso di maturare in corso d’opera.
Il progetto è stato finanziato dai nove Club Service di Rovereto. Il Comune di Rovereto ha dato il suo patrocinio, insieme alla Comunità di Valle. La Fondazione Caritro avvalla il progetto all’interno dei bandi “Scuola-Territorio”, riconoscendone la valenza sociale.
La partecipazione allo spettacolo da parte della città è stata grande e i posti sono andati tutti esauriti, confermando l’urgenza e la necessità di dare voce anche a ciò che non si vorrebbe mai affrontare. Molte persone erano emozionate e avevano il groppo in gola. Bunker. Un’ombra su cui porre luce prende allo stomaco. “Questa cosa ci è passata nello stomaco perché sono parole nostre,” hanno detto alcuni dopo lo spettacolo. “Quando ci parlano gli adulti di questi argomenti, le cose ci passano sopra la testa. Qui abbiamo sentito le nostre parole”. Questo perché il copione è nato dalle riflessioni dei ragazzi, dalle loro osservazioni, dal confronto con i genitori e con i compagni, dalle letture di eventi, dai luoghi comuni e dalle banalizzazioni udite o lette sui social.
Come vi ha cambiati, a livello artistico e personale, il Progetto Psychaché. Il valore della parola?
Michele Comite: L’approccio che ho utilizzato in questo lavoro è stato molto preciso e curato. Mi appartiene da sempre, dal momento che è moltissimo tempo che lavoro con e per i ragazzi. Quello che è emerso è una maggiore consapevolezza che il linguaggio debba essere adatto e adattante. Quando si parla ai ragazzi, bisogna usare un linguaggio che permetta loro di entrare in sintonia con noi adulti, cucirsi addosso un nuovo modo di comunicare, alla portata degli adolescenti. Lo spettacolo è molto scarno, molto semplice, si è cercato di non enfatizzare la tematica attraverso l’elemento scenico. Abbiamo lavorato sulla semplicità del linguaggio e della scena per dare valore al messaggio.
Giovanna Bronzini: Per me è stata un’esperienza molto forte. Io sono una psicoterapeuta, sono una libera professionista, lavoro nel mio studio con i miei pazienti. Mi confronto ogni giorno con il dolore della vita, portato dalle persone che lo vogliono affrontare per farlo diventare risorsa. Il fatto di uscire dal mio studio e di lavorare con i ragazzi e con Michele, mi ha dato l’opportunità di poter pensare che il mio lavoro, che è un lavoro vis-à-vis con le persone, può andare oltre e può spargersi in un territorio sociale più ampio. Per me è stato importantissimo trovare il modo di fare sensibilizzazione e prevenzione sul tema del suicidio attraverso altre vie e altri strumenti, insieme a persone che fanno un altro mestiere. Questa è stata per me la forza di questa esperienza.
Quali sono le possibili evoluzioni del Progetto Psychaché. Il valore della parola?
Giovanna Bronzini: Stiamo lavorando affinché il progetto continui. Attualmente siamo in contatto con quattro scuole: una di Bolzano, una di Trento, una di Rovereto, una di Tione, con la speranza di poter portare da loro non solo lo spettacolo Bunker. Un’ombra su cui porre luce, ma anche i laboratori teatrali. L’obiettivo è di poterci ampliare, di rendere il progetto replicabile, di espanderci a macchia d’olio e raggiungere il maggior numero di persone. Questo perché il tema della rinuncia alla vita è oggigiorno sempre più presente, soprattutto in Trentino Alto Adige, dove il tasso di suicidi risulta statisticamente tra i più alti in Italia. Il suicidio è un fenomeno psicosociale che esiste e di cui si può e si deve parlare, perché “parlarne aiuta”.
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