Pasolini e gli equivoci del teatro di parola

Debutta a Venezia Pa’ di Marco Tullio Giordana con Luigi Lo Cascio

Pubblicato il 02/12/2022 / di / ateatro n. 187

Un’autobiografia in versi. Così Marco Tullio Giordana definisce Pa’, di cui firma la regia per lo Stabile del Veneto. Interpretato da Luigi Lo Cascio, lo spettacolo ha debuttato nei giorni scorsi al Goldoni di Venezia ed è approdato all’Elfo Puccini di Milano. Un omaggio a Pasolini che ne ripercorre la vita attraverso le poesie, dai fervidi anni friulani al tragico epilogo romano. Lo Cascio è solo in scena, a parte i passaggi muti nei quali Sebastien Halnaut agita i fantasmi del poeta, apparendo nelle vesti del fratello Guido, partigiano ucciso da partigiani nell’eccidio Porzûs, o in quelle di uno di quei ragazzi di borgata con cui Pier Paolo giocava a pallone nei campetti della periferia romana. Costumi (Francesca Livia Sartori) e scenografia (Giovanni Carluccio) accompagnano la trasformazione del protagonista secondo la più riconoscibile iconografia pasoliniana: dal gessato anni Cinquanta ai jeans a zampa d’elefante, dal verde declivio di un prato friulano all’Alfa Romeo dello strazio all’idroscalo di Ostia, dalla purezza dell’infanzia (le lucciole della prima parte) alla contaminazione della mercificazione consumistica (i rifiuti che alla fine scendono dall’alto a formare una sorta di discarica sospesa).

Pa’ di Marco Tullio Giordana con Luigi Lo Cascio (ph. Serena Pea)

Giordana aderisce alla scelta pasoliniana per un teatro di poesia: convenzioni teatrali ridotte al minimo, declamazione ferma ma mai stentorea, idea del fatto teatrale quale condivisione di una ritrovata ritualità sociale attraverso la lingua. Il fatto è che il nuovo teatro di parola vagheggiato da Pasolini poneva due grandi temi all’Italia della fine degli anni Sessanta: la mai risolta questione della lingua a teatro e la possibilità di una «coincidenza pratica tra destinatari e spettacolo». Entrambi i temi si presentano oggi in modi sostanzialmente diversi. Tentativi di sociabilità della poesia attraverso le scene sono ancora praticati e praticabili, ma la poesia civile di Pasolini suona fuori tempo, sono altre le voci che oggi possono arrivare al pubblico, altro lo stile eventualmente in cerca di incarnazione e condivisione facendo i conti con la lingua viva, con un italiano sempre più semplificato e ibridato. La lingua di una poesia che sappia lasciar parlare le cose nella loro concretezza, come diceva Pasolini. Ma la concretezza delle cose di oggi. Paradossalmente, la prosa potente e il toccante lirismo dei versi delle Ceneri di Gramsci sono (lo sono sempre stati) più adatti alla lettura interiore. Quanto al pubblico, basterà ricordare che nel suo Manifesto per un nuovo teatro (1968) Pasolini individuava nella “borghesia avanzata” l’interlocutrice privilegiata di una proposta drammaturgica alternativa a quella che definiva l’accademia del gesto o dell’urlo: «Noi crediamo che ormai in Italia i gruppi culturali avanzati della borghesia possano formare anche numericamente un pubblico, producendo quindi praticamente un proprio teatro: il teatro di Parola».

Pa’ di Marco Tullio Giordana con Luigi Lo Cascio (ph. Serena Pea)

A quale pubblico può rivolgersi oggi una proposta simile? Al di là della bella prova di Lo Cascio, compenetrato e intenso nel non semplice ruolo, lo spettacolo sembra in realtà non porsi il problema. Forse non c’è (forse non c’è mai stato) questo pubblico. L’esperimento pasoliniano di un teatro di poesia rischia di ridursi a un teatro di parola canonizzata – nel centenario pasoliniano si dispensano santini – a un monologo di settanta minuti per una socialità fittizia. E mentre le opere drammaturgiche del poeta di Casarsa meriterebbero di confrontarsi con scritture sceniche all’altezza dei nostri tempi, l’attualità di Pasolini, quella che coinvolge, come sottolinea lo stesso Giordana, non solo l’intelligenza ma anche il corpo, la carne, il sangue dell’uomo e dell’intellettuale, emerge piuttosto dagli scritti disperati e corsari che denunciavano – con linguaggio chiarissimo e stile lancinante – l’omologazione pervasiva e il genocidio culturale dell’Italia. Un processo degenerativo rispetto al quale l’assassinio di Pasolini ha segnato simbolicamente il punto di non ritorno.




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