Per un teatro “antifa”

Note sparse su Giacomo del Teatro dei Borgia, Il terzo Reich e Bros. di Romeo Castellucci, Catarina o la beleza de matar fascistas di Thiago Rodriguez, Entre Chien et Loup di Christiane Jatahy, L'Etang di Gisèle Vienne, Mal di Marlene Monteiro Freitas e altri spettacoli

Pubblicato il 21/09/2022 / di / ateatro n. 186

“La migliore prevenzione della violenza domestica è che una donna si comporti in modo onorevole”.
Ricordi questa frase ripetuta in tutti i discorsi della campagna? Quante donne hanno sofferto a causa di questa frase?
(…)
Lui ha scritto: “L’omosessualità è anormale e non deve essere normalizzata”.
Quante persone hanno sofferto a causa di queste parole e della copertura che esse hanno dato a atti di discriminazione e violenza?

Thiago Rodriguez, Catarina o la beleza de matar fascistas (© Jaime Machado)

“Le minoranze devono rendersi conto a chi appartiene questo paese e, se stanno male, se ne andranno”.
(…)
Hanno vinto le elezioni. La gente ha votato per queste frasi. E ora abbiamo un governo fascista.
Possono chiamarli: “estrema destra”, “populisti”, “nazionalisti”, “destra radicale”.
Sono stanco di sentirli dire: “No, la ragazza non può dire fascisti perché il fascismo è un movimento storico e dobbiamo essere rigorosi”; o “Non sono fascisti perché credono nel libero mercato”; o anche “Chiamarli fascisti è radicalizzare il discorso e polarizzare inutilmente la società”.
Abbiamo sentito tutto ciò. Lo sentiamo da anni.
(Thiago Rodriguez, Catarina o la beleza de matar fascistas)

Da qualche tempo diversi intellettuali – e soprattutto molti teatranti – sono ossessionati dal fascismo. Ben prima che si profilasse all’orizzonte l’annunciato trionfo elettorale dei post-fascisti di Fratelli d’Italia, gli spettacoli di Massimo Popolizio, Ascanio Celestini e Fabrizio Gifuni hanno raccontato nel mesi scorsi il fascismo come “autobiografia della nazione” (nella definizione di Piero Gobetti), una malattia cronica che comporta il rischio di ricadute.

IL LINK
Oliviero Ponte di Pino, Il lato oscuro della storia d’Italia. Da Mussolini (e Matteotti) a Moro passando per Pasolini: gli spettacoli di Massimo Popolizio, Ascanio Celestini e Fabrizio Gifuni.

Il caso Matteotti

Al Mussolini insieme pusillanime e gigione, raccontato da Antonio Scurati nel primo tomo del bestseller M e portato in scena da Massimo Popolizio, sdoppiato nell’opportunista vigliacco incarnato da Tommaso Ragno e nel gigione interpretato dallo stesso Popolizio (lo spettacolo tornerà in scena al Teatro Strehler di Milano dal 28 settembre al 16 ottobre 2022), il Teatro dei Borgia contrappone una delle sue vittime più illustri, il socialista Giacomo Matteotti.

Teatro dei Borgia, Giacomo: Elena Cotugno

Il regista Giampiero Borgia ha ripreso due fondamentali, drammatici interventi del deputato socialista nel Parlamento italiano: quello del 31 gennaio 1921, quando nel paese imperversavano le squadracce fasciste, con la connivenza delle classi dirigenti e degli apparati dello Stato; e quello del 30 maggio 1924, dove contestava il risultato delle recenti elezioni, che avevano dato la maggioranza al Partito Fascista. Fu il suo ultimo discorso: poche ore dopo venne rapito e assassinato da sicari contigui al Duce.
Come per il Moro di Gifuni, anche Giacomo è un’impressionante seduta spiritica. Un morto senza giustizia si incarna in un attore-sciamano, che si lascia possedere dalle sue parole, dalla loro logica geometria: per il contesto politico in cui agiscono, sia Moro (prigioniero delle BR) sia Matteotti (che attacca frontalmente il fascismo e la borghesia che lo sostiene) sono due folli da abbandonare al loro destino, alla rovina inevitabile. Quello del Teatro dei Borgia non è cabaret, non sono le pagliacciate del goffo esibizionista romagnolo. E’ la sfida di un uomo solo contro un regime.
Nel caso di Moro-Gifuni e di Matteotti-Cotugno, è la violenza terrorista a distruggere chiunque si opponga alle sue logiche. E dopo decenni, la vittima sacrificale torna tra noi, per chiedere ancora verità. E’ un rito di purificazione, L’attore si immola. La scena diventa un altare laico. Gli spettatori testimoni della storia.

Teatro dei Borgia, Giacomo: Elena Cotugno

La trappola della bellezza

Le parole di Moro e Matteotti, nella loro disperata lucidità, sembrano promettere una possibilità di riscatto e di emancipazione. I due spettacoli cercano di avvicinarsi a una verità insieme umana e storica, partendo dalle loro stesse parole, pronunciate alla vigilia del martirio.
Nel Terzo Reich (visto alla Triennale Teatro), Romeo Castellucci denuncia invece il potere di manipolazione della parola. Il linguaggio è una macchina implacabile che crea il mondo (fittizio) di cui siamo prigionieri, che può essere asservita alla propaganda. Ancora una volta a ipnotizzare è la bellezza dell’orrore, davanti a un implacabile e minimale dispositivo teatrale, sorretto dalle sonorità di Scott Gibbons.

Romeo Castellucci, Bros- (ph. Stephan Glagla)

Se a schiavizzarci non bastano le parole, ecco il cameratismo dei poliziotti (muti) di Bros. (sempre alla Triennale Teatro). Il branco cameratesco ed eterodiretto (così come eterodiretti da un preciso algoritmo spaziotemporale sono gli attori in scena) è sempre pronto a torturare la prossima vittima: chiunque può diventare vittime dei suoi commilitoni, in un mondo dominato dalla violenza machista.
Nei due spettacoli, l’orrore – che genera un fastidio quasi fisico – prende una forma rigorosa, quasi ipnotica, e si ribalta così in una perversa bellezza, che intrappola e seduce.

Romeo Castellucci, Bros. (ph. Stephan Glagla)

La tirannia dei buffoni

Il saggio di Madeleine Albright, Fascismo. Un avvertimento, è pubblicato in Italia da Chiarelettere.

Ma il fascismo non è solo un problema italiano. La crisi della democrazia e le derive populiste e sovraniste stanno suscitando preoccupazione e angoscia (o speranze) in tutto il mondo. L’impatto della globalizzazione, con le ricorrenti crisi economiche e le ondate di profughi e migranti, la minaccia di impoverimento del ceto medio, il vuoto progettuale e culturale dell’Occidente bianco e ricco, l’incertezza davanti al fututo, la rabbia e la frustrazione, generano ansie e inducono a sognare un impossibile ritorno al passato.
Il monito di Madeleine Albright, Segretario di Stato USA dal 1997 al 2001, fuggita bambina da Praga nel 1939, dopo che la Cecoslovacchia era stata invasa da Hitler, è molto esplicito.

“Il fascismo è a tutti gli effetti un concetto di moda, che si fa strada nel dibattito sociale e politico come una pianta infestante. (…) Nel 2016 la parola ‘fascismo’ è stata la più ricercata sul sito del dizionario Merriam-Webster, seconda solo a ‘surreale’, che ha conosciuto un picco improvviso dopo le elezioni presidenziali del mese di novembre dello stesso anno”.
(Madeleine Albright, Fascismo. Un avvertimento, Chiarelettere, 2019, p. 12)

Il presidente Joe Biden punta il dito contro il “semi-fascismo” di Donad Trump (26 agosto 2022).

Il 26 agosto 2022, per definire la prassi politica di Donald Trump, il presidente Joe Biden ha parlato di “semi-fascismo”. Trump ha fatto finta di offendersi, e subito dopo ha elogiato Xi Jin Ping e Vladimir Putin.

Dopo la proiezione del suo Marighella alla Biennale Cinema, il regista cinematografico brasiliano Wagner Moura protesta contro il regime di Bolsonaro.

E c’è chi parla esplicitamente della “tirannia dei buffoni”, come il politologo francese Christian Salmon nel suo recente La Tyrannie des Bouffons (Les Liens Qui Libèrent, 2020). Nella sua galleria di figure grottesche che stanno avvelenando la democrazia, accanto a Trump e Boris Johnson, rientrano il brasiliano Bolsonaro, il filippino Duterte, l’ungherese Orban e l’indiano Modi, nonché l’italiano Matteo Salvini (e di striscio Beppe Grillo, il prototipo del “comicopolitico”). (…) Per gli studenti ai quali era stato mostrato un video con le sue affermazioni più controverse, Bolsonaro appare “cool, perché è un mito, perché fa ridere, perché dice quello che pensa” (p. 63).
Nell’elenco Salmon aveva inserito anche Volodimir Zelensky, “Un comico che si presenta come ‘clown'” (p. 11). Dopo lo scoppio della guerra, ha commentato:

La metamorfosi di Volodimir Zelensky, protagonista della serie televisiva Servitore del popolo, in eroe che emerge dalle rovine di Kiev per incarnare la resistenza del popolo ucraino, riflette il cambiamento epocale della politica e il nuovo regime di visibilità. La guerra della Russia contro l’Ucraina non contrappone solo due eserciti: si fronteggiano due regimi semiotici e scenografici.

Il tavolo di Putin al Cremlino.

Putin rientra nella teatralità classica del potere verticale, solitario e distante (il suo lunghissimo tavolo).

I coniugi Zelensky fotografati da Annie Leibovitz su “Vogue”, luglio 2022.

Zelensky a quello dell’orizzontalità, della condivisione sui social e della prossimità dello smartphone. E’ un maestro nel giocare insieme sulla derisione e sulla drammatizzazione. Il primo agisce nella dissuazione, l’altro nella simulazione.
(Christian Salmon, La guerre en Ukraine vue de France, ou le grand remplacement des peurs, “Slate”, 23 marzo 2022)

La bellezza di ammazzare i fascisti

Fin dal titolo del suo spettacolo, Catarina o la beleza de matar fascistas (al Teatro Storchi di Modena), Thiago Rodriguez invita provocatoriamente a riflettere sul nesso tra morte, bellezza e fascismo.
Ma dove è la bellezza? Per quali occhi la morte dei fascisti deve essere bella? Per chi uccide il fascista? Per chi muore? Per chi assiste? E qual è il rapporto tra questa bellezza e la giustizia?

Thiago Rodriguez, Catarina o la beleza de matar fascistas (© Jaime Machado)

Nella sua grammatica, il titolo scelto dal regista portoghese (dal 2023 direttore del Festival d’Avignon) non sembra prendere in esame la prospettiva della vittima. Tuttavia il fascista coltiva da sempre il mito della “bella morte”, la fine eroica che dà retrospettivamente senso alla vita. Nel Manifesto del futurismo pubblicato su “Le Figaro” nel 1909, Filippo Tommaso Marinetti, voleva abolire «i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie», esaltava «il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, […] lo schiaffo e il pugno», e naturalmente promuoveva «il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna», glorificando la guerra come «sola igiene del mondo».
L’aspirazione alla bella morte del fascista necrofilo e l’aspirazione alla giustizia dell’antifascista militante possono trovare una paradossale convergenza. Anche se poi la storia non ha sempre esaudito il loro desiderio. Marinetti è morto nel suo letto, indebolito dalla disastrosa Campagna di Russia in cui si era arruolato come anziano e patetico volontario. Mussolini fuggiasco è stato bloccato a Dongo, travestito da tedesco e frettolosamente fucilato, con il cadavere oltraggiato in piazzale Loreto, là dove erano stati esposti i cadaveri dei 15 partigiani trucidati dai nazifascisti. Adolf Hitler si è suicidato nel suo bunker mentre i carri sovietici avanzavano verso Berlino, dopo aver testato il veleno sul suo amatissimo cane Blondie. I gerarchi nazisti sono finiti impiccati dopo il processo di Norimberga. Il libico Mu’ammar Gheddafi è stato stuprato e linciato dalla milizia ribelle del CNT. L’iracheno Saddam Hussein è stato impiccato, poco dopo essere stato recuperato dalla buca in cui si era seppellito, e filmato da uno smartphone. Poco dignitose anche le interminabili agonie del vecchio Generalissimo Francisco Franco e del Maresciallo Tito in Jugoslavia. Sono miserabili finali di partita, che contrastano con l’inquietante bellezza delle visioni architettoniche di Albert Speer e Piacentini e dei film di Leni Riefensthal. La morte tende a essere sordida, schifosa, sporca, puzzolente. Brutta. Raramente eroica.
Allora in che senso la morte può essere bella, almeno per chi la infligge? Sul tema ha riflettuto Thomas de Quincey, nell’Ottocento, con il suo pamphlet L’omicidio come una delle belle arti. Ma quello di Rodriguez non è un problemna estetico.
Il piacere, per la famiglia protagonista di Catarina o la beleza de matar fascistas, arriva da altri motivi di godimento. Intanto l’occasione è una bella festa di famiglia, con gustose ricette della tradizione, per ricordare sia la “Rivoluzione dei Garofani”, che il 25 aprile 1974 portò la democrazia in Portogallo, sia nonna Caterina, che uccise il marito fascista (e colonialista) che aveva sparato a freddo a una sua amica che protestava in una manifestazione sindacale. Si celebrano la libertà riconquistata, la giustizia, e forse il piacere della vendetta. Perché la simpatica famigliola, per celebrare la ricorrenza, ogni anno rapisce un fascista – uno di quelli che circolano oggi, non un vecchio arnese del regime di Salazar – e lo giustizia. La prima parte dello spettacolo è una lunga discussione in famiglia sull’opportunità di proseguire la tradizione, un po’ perché durante l’azione è stato commesso un errore che rischia di farli scoprire, ma soprattutto perché ammazzare un fascista può anche essere bello, ma non è detto che sia giusto. Anche perché una delle giovani “Caterine” è vegana (anche Hitler era vegetariano, peraltro): un tema che offre lo spunto per uno straniante tormentone da cabaret.
Finché la drammaturgia di Rodriguez, dopo aver a lungo ragionato – con un florilegio di citazioni da Brecht – sulla legittimità della violenza, non compie uno scarto, una specie di salto mortale. Le Caterine vengono abbattute e finalmente il prigioniero ha diritto di parola. Il suo mondo è un astuto montaggio dei discorsi dei leader populisti di tutta Europa (c’è solo l’imbarazzo della scelta), che a partire da una rivendicazione di libertà scivola ben rpesto in una affabulazione identitaria, autoritaria,
I discorsi che si sentono in televisione, al bar, in parlamento.
E’ un comizio rivolto al pubblico, che reagisce come sente e crede, a volte con sonoro dissenso.
Siamo nella finzione, e la domanda non viene posta in maniera esplicita. Ma quel fascista, lo dovremmo davvero ammazzare? Non l’attore che incarna il ruolo, ma i politici fascisti (più o meno dichiarati) che sono i portavoce di quell’ideologia malata? In alternativa, come escludere quei discorsi dalla scena pubblica democratica, viso che i loro stessi portavoce la disprezzano e la usano per distruggerla?
La morte può essere bella oltre che per vittime e carnefici, anche per il pubblico. E’ il fascino del tragico, l’attrazione per il disastro. Quella che ha fatto definire a caldo, in una conferenza stampa il 16 settembre 2001, dal compositore Karlheinz Stockhausen l’attentato alle Due Torri dell’11 settembre 2001 “la più grande opera d’arte mai esistita”. (Risultato: quasi tutti i suoi concerti cancellati, e sua figlia dichiarò che non avrebbe più voluto aver a che fare con lui; vedi Francesco Bonami, Così tragica e così vera. Ecco una realtà che l’arte non riesce a raccontare, “La Stampa”, 11 settembre 2011). Ma è innegabile: la catastrofe, più è smisurata, più è spaventosa, più ci ipnotizza.

IL LINK
Oliviero Ponte di Pino, Voler morire, voler uccidere: solo questo serve per fare teatro? Starring Angelica Liddell, Sergio Blanco, FC Bergman, Achille Lauro, Tiago Rodriguez, Uffe Isolotto

Fenomenologia della vita quotidiana

Il fascismo non è solo e tanto nella scena della politica. Il fascismo è nella violenza delle nostre vite quotidiane, nei comportamenti e nelle sopraffazioni che ci infliggiamo, nelle norme sociali che subiamo senza averne la consapevolezza.

Gisèle Vienne, L’Etang

Lo vediamo per esempio negli spettacoli di Gisèle Vienne. L’Etang (visto alla Triennale Teatro), tratto da un racconto di Robert Walser ma depurandolo della sua feroce leggerezza e innocenza per far emergere i microrapporti di dominio. A innescare la discesa all’inferno del giovane protagonista è da un lato il rapporto con gli adulti (a cominciare dalla madre), ma anche quello con i suoi compagni adolescenti, in una trappola di rapporti di silenziosa sopraffazione.

Christiane Jatahy, Entre Chien et Loup, (ph. Magali Dougados).

A scavare sotto la superficie dei rapporti personali è anche Christiane Jatahy in Entre Chien et Loup (nell’ambito del festival Presente Indicativo, al Teatro Strehler di Milano), remake teatrale di Dogville di Lars von Trier. Protagonista è una ragazza che sfugge a una dittatura sudamericana per approdare in una comunità di “gente per bene”. Se all’inizio l’accoglienza è amichevole e cordiale, ben presto la situazione degenera. Il film di Lars von Trier approda a un finale tragico, ma la regista basiliana, almeno nelle intenzioni, si ribella a questo destino obbligato, che è insieme politico (il rifiuto dell’Altro) e teatrale (il filo predeterminato della narrazione), anche se questa scelta è soprattutto un partito preso ideologico che fatica a farsi sostanza. Il fascismo ipocrita dei benpensanti genera mostri. Ma come uscire da questa trappola? Come ribellarsi? Sono solo condizionamenti sociali, o tutte queste meccaniche di sopraffazione sono profondamente inscritte nell’essere umano? E allora, come aprire la gabbia della narrazione? Come emanciparsi dalle regole ferree del Fato?

Marlene Monteiro Freitas, Mal. Embriaguez Divina

Anche Mal. Embriaguez Divina di Marlene Monteiro Freitas (sempre nell’ambito del festival Presente Indicativo al Teatro Strehler di Milano) si propone di portare in scena “il male in tutte le sue più ampie sfaccettature (…) incarnato da diverse voci e creature”. Quello ideato dalla regista e coreografa di Capo Verde è un grottesco carnevaledove sono messe alla berlina (anche) le autocrazie militari che dominano buona parte del mondo, sbeffeggiate a ritmo tribale. Ma spesso questo balletto infantile, giocoso e insieme crudele, si condensa immagini di rara potenza poetica.

Fascismo, morte, bellezza, teatro

Sono quattro parole, impegnate in un gioco senza fine. Il teatro è insieme lo specchio e l’eco delle altre tre, in maniera sempre diversa, con infinite sfumature e ambiguità. A volte, per nostra fortuna, può essere strumento di consapevolezza e dunque emancipazione. Ricordando che il teatro è incontro con l’Altro mentre il fascismo nasce e prospera nella paura dell’Altro e si cristallizza nell’identico.




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