Natura, vertigini e poesia civile nel Giardino delle Esperidi

Gli spettacoli di Michele Losi, Frosini Timpano, Gianluigi Gherzi

Pubblicato il 08/07/2022 / di / ateatro n. 184

Ruggero Dondi legge Cesare Pavese rispettando i ritmi dettati e narrati dallo scrittore: un’esperienza unica ed eccezionale

Il Giardino delle Esperidi Festival, diretto da Michele Losi, è andato in scena nel magnifico Colle di Brianza dal 23 giugno al 3 luglio. Giunto alla sua XVIII edizione, è una realtà da scoprire con il silenzio e la pazienza dei cammini collinari. Come l’Hansel e Gretel notturno, tremenda esperienza al buio, dentro al bosco di notte e cuffie da silent disco che guidano gli spettatori intrepidi mentre immagini fiabesche si susseguono delicate. Una maratona letteraria è dedicata a Cesare Pavese ed eseguita da Marco Gobetti con Anna Delfina Arcostanzo e il grande Ruggero Dondi. Un incontro condotto da Oliviero Ponte di Pino su Teatro e Poesia con Gianluigi Gherzi e Alberto Casiraghy, il mitico editore di pulcinoelefante.
Punk in maglia un po’ rock’n’roll e piroette da bisnonna argentina per l’esito del laboratorio di Francesca Sarteanesi. Boots pelosi rossi e maglione verde per una bellissima statua umana. Risata da una finestra che contagia donna con stoffa codata che si ferma a guardare l’orizzonte. Musica dal vivo la interrompe è un sax. Segue canzone a cappella sull’amore prima di un uomo poi di donna, molta ironia e intanto la statua installata poggia ferma in un angolo. Si recita dando le spalle al pubblico in un dialogo surreale fatto di luoghi comuni. Iterazione del “troppo facile” che comico s’insinua nelle “sfaccettature del tempo diverso”. Sfilata di maglioni ricamati sul brano Du Hast dei Rammstein.

(ph. Alvise Crovato)

L’Amleto di Michele Losi è una festa funebre ed è una passeggiata nel bosco con cuffie silent disco. Costumi di scena sono jeans, e giacche nere su anfibi rigorosamente black. Una gabbia sovrasta il palcoscenico con una cassa dentro e un microfono appeso, fiori di papavero da una parte, valzer di nozze, inchini, danze latino-americane per l’Amleto dal guanto nero. Istantanee, pose da matrimonio per le nozze di Elsinore. Una danza tribale e ubriaca – si brinda col fiore dell’oppio – intorno alla gabbia rende sacro l’altare della tragedia resa classica da questa evocazione dei personaggi di Shakespeare. Amleto fool guida le danze alla Bollywood. Ma il fantasma è sempre in agguato ed è esemplificato da un ampio lenzuolo bianco che copre la scena e viene issato sul pubblico mentre al microfono la vendetta brama giustizia: balli epilettici intorno e sopra e dentro a gabbia. Prima di indossare le cuffie e spostarsi nel bosco un invito: “Andate a dubitare!”.

Amleto, regia di Michele Losi (ph. Alvise Crovato)

E “Amleto è come una crepa, è scheggiato, è tossico, indigesto”. Lungo il bosco incontriamo varie figure e la precisa collocazione di tre scene, un lungo abito azzurro e tre barchette di carta ognuna per ogni parte del dramma che viene raccontato come una favola da una performer su un lavatoio pubblico medievale. L’atto IV scena IV, con comicità metateatrale; l’atto VI, scena IV in versione documentario televisivo; la barca della saggezza narra dell’atto II, scena II: “Cara Ofelia…”. Nel percorso nel bosco una donna spande petali fucsia con i piedi nudi e un abito rosa, narrando una filastrocca per il padre assassinato è la parte femminile di Amleto? “La morte non è democratica” ci dice una voce in cuffia e intanto una donna velata e vestita di rosso canta ed entra in un cerchio magico di pietre, ha il cuore “slacciato” e accarezza il volto di due spettatori. Ritroviamo nel bosco anche i becchini e Amleto con una falce che si divincola e rotola per il campo urlando “Sono vivo! Da grande voglio fare lo zombie”.

Amleto, regia di Michele Losi (ph. Alvise Crovato)

Ombrelli come spade piantati al suolo delimitano il corteo funebre per Ofelia fantoccio vestito con abito da sposa. Petali sugli spettatori, un velo rosso sul cadavere al suono di un’armonica triste. Rumore d’acque in cuffia. Segni della presenza della tragedia sono disseminati nel bosco. Recitazione metateatrale e comica, con tanto di bidet in un parcheggio sotterraneo perché Amleto è uno di noi e si lava pure i denti. In cuffia: “datevi la vostra epifania” ci indica una voce. Siamo giunti all’epilogo e come in un film di Antonioni il corteo degli attori su un prato va a morire e noi spettatori in corteo schiviamo i morti accasciati al suolo. “Non c’è più livore” e la gabbia è stata aperta ed è spalancata verso lo spettatore e gli altri oggetti di scena sono anch’essi poggiati o meglio precipitati sul palcoscenico.

Amleto, regia di Michele Losi (ph. Alvise Crovato)

“Àbito sono Olei e Caduto che vivono all’interno di una scultura, le pareti di casa loro.” Dominano il bianco e il nero con una sola concessione di rosso per un vestito danzante di Olei. I testi di Bocchi Scarrocchia sono mescolati ad azioni di danza e dichiarano sulla scena:Le nostre poltrone sono le montagne, i paesi sperduti e affranti, le rose che tra poco fioriranno. Nascere. Nascere è un naufragio e quello che succede dopo non ci asciuga mai. Dovremmo dircele queste cose, con dolcezza, stesi uno di fianco all’altro e invece restiamo in piedi, acuminati, in allarme […] ognuno è fabbro della sua solitudine e per stare in compagnia si è costretti a bere nelle crepe che si sono aperte tra una strada e l’altra.” Uno spettacolo prorompente che mette in scena le fragilità patologiche delle coppie con intelligenza e profondità, oltre che con grande capacità attoriale e fisica, nel dispiegarsi delle movenze e delle celebrazioni sacre e blasfeme.
“Liberamente tratto da diversi testi e manifesti di Filippo Tommaso Marinetti, Maria D’Arezzo, Enrica Piubellini, Volt, Depero, Emilio Settimelli, Giovanni Papini, Valentine De Saint-Point, Rosa Rosà, Adele Clelia Gloria, Irma Valeria, Libero Altomare, Benedetta Cappa Marinetti ed altri autori ed autrici del Futurismo italiano, Disprezzo della donna è una cantata dove non si canta perché non c’è più niente da cantare, tutt’al più si può stonare, nel tentativo di capire perché il Futurismo non aveva futuro.” La versione radio edition site specific per il Festival delle Esperidi di Elvira Frosini e Daniele Timpano di Disprezzo è fitta di giochi di parole e pastiche fonici. Due sedie una di fronte all’altra, nessuna luce se non alla fine per una favola amara che precipita ed eleva applausi scroscianti nello spazio del cortile del quattrocentesco Palazzo Gambassi. Tanti i temi toccati e qualcuno esplorato come quello del denaro, i soldi, i capitali, il centesimo; Marinetti e la caduta di Timpano sulla parola “madre”; la schiavitù intellettuale ed erotica della donna; l’animalizzazione della politica concedendo il diritto di voto alla donna per cui è preferibile la sproporzione. Le iterazioni delle parole e l’impegno bibliografico ironico e tagliente sono tratti riconoscibili nella poetica di Frosini Timpano.
La Vertigine della lista è uno studio sull’omonimo lavoro di Umberto Eco è teatro fisico diretto e coreografato da Giorgio Rossi con in scena: Francesca Albanese, Silvia Baldini, Laura Valli e il danzatore Lorenzo De Simone. Luoghi comuni e reiterate scene a disilluderne la importanza per scarnificare il gesto sono i tratti di questo lavoro in cui è pregnante la poetica del gruppo Qui e Ora.

Gianluigi Gherzi (ph. Alvise Crovato)

Il debutto nazionale di Mappa dei luoghi selvatici è una esperienza totale teatrale unica, fantastica, fiabesca, crudele, politica. La poesia raggiunge un linguaggio alto e basso, è un fare: “ricorda che hai le corna e non le ali”. Gianluigi Gherzi e Giuseppe Semeraro camminano insieme e proiettano il film del mondo in uno schermo “insanguinato”. Spiagge, strade, cimiteri, animali e uomini, alberi e donne in cammino, esiliati, ubriachi, migranti, profughi. Occorre “sbattere contro i muri per ricercare un dove rintanato nel buio”. È un dove invisibile nella geografia dell’umano, del bisogno sacro del toccarci con la poesia, nella provocazione del tempo presente: una drammaturgia della sensibilità del tocco. Si alternano visioni di sinestesie illuminanti, vivaci. La domanda è nella concezione poietica. Un piccolo fiore azzurro ride, i fiori e gli alberi ci guardano mentre il cielo esplode per il vecchio bambino del mondo. Albero-carta-foglio e danza di rami, ma la vita viene dal basso. Mandrie-sciami-stormi di adolescenti durante la pandemia sono la danza della vita, la prepotenza della vita che deflagra. Ma i figli hanno davanti un futuro che gli torna tutto indietro. “Alzare il dito per bagnarlo di cielo”. Mescolarsi con angeli dal naso rosso da clown, con una strega, con un folletto o con una fata che disordinano le vite, ingarbugliano le geometrie. “Un libro di note per i sussurri dell’alba”. Uno spiritello canta i nomi degli alberi su un tappeto vegetale. Ma nel mondo dove tutto è cominciato, tutto ha paura di noi. Il mondo non è solo degli uomini, è una lingua dei geroglifici del cielo. “Il mare madre è un lenzuolo di seta” nella dolcezza del dove. Nominare le cose porta le cose in vita, porta alla poesia nel “giardino degli abissi”. È una geografia raffinata e mancata dove “gli occhi si bevono l’ultimo azzurro e tutti i fiori diventano blu”; anche i fiori ladri, notturni, dell’insonnia che “sbocciano all’altare delle stelle”. C’è Antigone ed è una bimba zingara pop. Una sigaretta dopo la pioggia per fare l’amore con il cielo in un dove senza parole. Case ferite, popolo marcito, marchiato. Elementi organici e inorganici in questa narrazione politica e civile che inneggia alla crepa, che racconta di abusivismo edilizio, del veleno sotterrato. È nuda, è cruda, è vera, è concreta poesia e sentiamo un rinnovato Pasolini nelle città del Sud stuprate e rese carcasse. Un noi panico, una energia creaturale in danza di parole per una lettera alle 600 pecore ammazzate dalla diossina, prima bruciate come olocausto antico o solo incenerite come rifiuti tossici. “La colpa non è essere pecore ma essere gregge”.




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InformazioniVincenza Di Vita

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