Le trasformazioni del teatro italiano: continuità e discontinuità
La prefazione a Francesca D'Ippolito, Produrre teatro in Italia. Pratiche, poetiche, politiche, Dino Audino, 2022
La vita del teatro italiano – non solo i processi creativi, la vita materiale intendo, quella di tutti i giorni – è sempre stata scandita da usi, comportamenti, modalità operative caratterizzati da una sostanziale continuità nel tempo, i cambiamenti ci sono stati, certo, ma in superficie, non nel profondo. Almeno così è stato fino a una quindicina di anni fa, poi lentamente e sempre più rapidamente queste modalità sono andati in crisi.
Oggi, le pratiche organizzative derivate dalla tradizione nella produzione di spettacoli teatrali devono misurarsi con una situazione profondamente mutata e con cambiamenti continui, in corso e di quelli che incidono nella sostanza.
Questo libro contribuisce allo studio di queste trasformazioni e offre a una nuova generazione di organizzatori indicazioni molto concrete per orientarsi fra i modi tradizionali, raccontati con convinzione – e anche con un po’ di rimpianto – come rifermenti che si “dovrebbero” o “vorrebbero” seguire e che quindi bisogna conoscere, e quelli più recenti, che bisogna studiare e valutare nel bene e nel male, per fronteggiarli e perché (forse) si può (ancora) contribuire a orientarli, potenziarli, valorizzarli e magari anche ad inventarne di nuovi.
Pensiamo ai modi di produzione della tradizione: le prove a tavolino (come nelle belle foto d’epoca, tutti intorno a un tavolo con Strehler o Visconti), tempi adeguati, spazi attrezzati, poi il debutto ideale (in termini di spazio e tempo)… Francesca li ricapitola collegandoli alle dinamiche creative tipiche di un gruppo teatrale, ma ci dice anche che sono condizioni che i gruppi giovani molto di rado possono permettersi. Come il rispetto sostanziale dei contratti di lavoro del resto, troppo spesso riferimenti astratti. Ma corrispondono a pratiche consolidate ed efficaci (almeno in rapporto a un modo di intendere la produzione teatrale, in fondo tuttora prevalente), a un saper fare “etico” che ne fa ancora oggi un obiettivo da perseguire, un modello di correttezza nei confronti del lavoro e dei processi artistici.
Bisogna quindi conoscerli, ma per avvicinarsi a quelle condizioni oggi – ci dice il libro – un organizzatore deve conoscere anche le modalità di lavoro che si sono affermate in crescendo nel corso degli ultimi vent’anni. La coproduzione innanzitutto: una pratica certo non nuova ma che si è diffusa sempre più capillarmente in tutte le aree del sistema, assumendo declinazioni nuove (una cosa è co-produrre fra simili – due o più Teatri Stabili per esempio – un’altra fra soggetti diversi, finanziati e non, di generi e tipologie diversi) ed è diventata un passaggio quasi obbligato, e professionalmente complesso.
E le residenze, che sono una delle principali forme di sostegno per la creazione contemporanea, un’opportunità per i gruppi giovani, con propri usi e regole (nazionali e locali).
E’ importante anche sapersi rapportare con le trasformazioni recenti di soggetti radicati da più tempo nel sistema, soprattutto i festival.
Sono pratiche e organizzazioni cui Francesca dedica un’attenzione particolare, arricchita da molti suggerimenti operativi e qualche riflessione critica: l’evoluzione delle residenze per esempio, che avrebbe dovuto (ma ancora potrebbe) relazionarsi con più efficacia alle specificità territoriali.
Ma ci dice anche che quello tradizionale (se pure adattato a nuovi strumenti e opportunità) non è il solo modo per creare teatro, la produzione finale può non essere l’obiettivo primario e il pubblico può non essere destinatario passivo. Fra le nuove possibili modalità operative che il libro fa emergere, uno spazio particolarmente ampio è riservato ai processi di creazione “partecipata” con i contributi radicati nell’esperienza e allo stesso tempo visionari di Andrea Paolucci e Stefania Marrone. Non è l’unico modo alternativo possibile, ma è in grande crescita, e i due casi dimostrano che lavorare in modo diverso si può.
E pensiamo alla tournée, potremmo dire che è nei cromosomi degli attori italiani.
L’affermazione dei Teatri Stabili nel secondo dopoguerra e il processo di progressiva stabilizzazione, istituzionale o meno, dagli anni Settanta in poi, non ha scalfino la vocazione itinerante, almeno non nel desiderio e nell’immaginario dei lavoratori dello spettacolo.
Ma solo pochi anziani ricordano le tournée che duravano tutta la stagione e una esigua minoranza di giovani ha esperienza di tournée di due o tre mesi consecutivi.
Perfino un punto fermo secolare come la “stagione teatrale” (i “cartelloni”) non è più una certezza, neppure per gli spettatori: sempre più spesso segmentate in rassegne tematiche, festival, generi e sottogeneri… non sempre, per scelta culturale.
La maggior parte degli spettacoli ha vite spezzate e disarticolate nel tempo e nello spazio: distribuirli, organizzare una tournée oggi è molto diverso da trenta o anche quindici anni fa. In primo luogo la distribuzione è ormai solo un tassello del “mercato” del teatro di prosa (particolarmente articolato soprattutto per chi non si considera market oriented), in secondo luogo gli obiettivi temporali ed economici devono misurarsi con la realtà (teniture brevissime, periodi molto limitati o addirittura non prevedibili, per non parlare delle condizioni economiche). Distribuire uno spettacolo, insomma, è un’impresa quasi disperata, ma ci si può – e ci si deve – provare: il libro raccomanda una buona conoscenza “sul campo” del sistema e delle specificità del proprio settore (un’attenzione particolare – legata alle esperienze personali di Francesca – è riservata in tutti i passaggi del libro al teatro ragazzi), ma con un’attenzione particolare ai cambiamenti, a nuove opportunità e a (relativamente) nuovi metodi. Anche qui le coproduzioni e le residenze innanzitutto, che non sono solo il primo tassello per la creazione, ma anche per la diffusione di uno spettacolo e soprattutto la controversa modalità del “bando”: croce e delizia di gruppi giovani e giovani organizzatori.
I bandi – quello che sono diventati i bandi – sono un indicatore efficace della precarietà del settore, e del lavoro nel settore. Un dato di fatto – la precarietà – che i radar della pubblica amministrazione non avevano intercettato prima del marzo 2020, e di cui anche i lavoratori sono oggi più consapevoli, perché si è rivelata non più sostenibile e grazie anche alla rappresentanze esplose.
Nel libro il lavoro ha uno spazio significativo, a partire da una descrizione accurata del contratto collettivo relativo alla produzione, ma anche con il racconto delle condizioni “atipiche”, dell’autosfruttamento, delle misure di welfare (in atto e forse future).
Di fronte alla precarietà, un’importanza fondamentale rivestono le politiche, e fra le politiche il finanziamento pubblico. Francesca riserva una particolare attenzione a quello statale, informando il lettore a fondo sui meccanismi in vigore e anche sulle loro contraddizioni (il rapporto quantità/qualità in particolare), fondamentalmente fiduciosa (e speriamo abbia ragione) che lo Stato possa e debba essere un interlocutore dei suoi lettori. Senza escludere naturalmente le forme di sostegno regionali e locali, che sappiamo molto diverse da un territorio all’altro, ma anche più vicine e forse più praticabili.
Tutte le informazioni, i suggerimenti, le riflessioni del libro si rivolgono a un giovane organizzatore già attivo o che voglia intraprendere questa professione in prospettiva (o comunque a un giovane teatrante consapevole dell’importanza della funzione organizzativa). Un giovane programmato ma flessibile, realista ma in fondo anche ottimista, coinvolto nei processi artistici ma determinato a fare “impresa”. Un/a ragazzo/a di cui Francesca è appena di poco sorella maggiore che ha voglia di conoscere e soprattutto di confrontarsi.
L’appendice finale mette al primo posto fra le tecniche di sopravvivenza un’informazione precisa sulle reti e le rappresentanze e sembra dire: questo lavoro non si può fare chiusi nella propria stanza, se mai è stato possibile, non si cresce da soli.
Il lavoro organizzativo si alimenta nella curiosità e si costruisce nel confronto. La pratica associativa non è certo secondaria nell’esperienza di Francesca e probabilmente anche all’origine della necessità di scriverne: confrontarsi è un passaggio fondamentale per mettere a fuoco una materia in evoluzione, riuscire a comunicarla. E forse cambiarla.
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