Scrittore o lo sei o non lo sei, non lo impari
Una conversazione con Mimmo Borrelli, direttore della Bellini Factory di Napoli
Mimmo Borrelli è poeta, attore e regista pluripremiato e riconosciuto per la sua lingua unica e identificativa, che porta in scena con convinta passione.Di recente è stato nominato direttore della Bellini Teatro Factory.
Come è arrivata la richiesta di direzione della Bellini Factory di Napoli?
Nel maggio del 2021 Gabriele Russo mi invita a partecipare alle attività del Bellini e io accetto con la promessa di avviare un progetto insieme. Sono consulente e direttore della Factory.
Lavoro da anni con i giovani e tra tutti i ragazzi che hanno lavorato con me dal 2011 in poi il 90% sono entrati in accademie nazionali, lavorano e sono diventati nomi noti della scena teatrale contemporanea e della tv e del cinema. Quindi forse era arrivato il momento di misurarmi anche con un’istituzione. Abbiamo pianificato tutto in modo scritto. Abbiamo preso un impegno rischioso in piena pandemia, sia sul piano della programmazione perché rifaremo La cupa, Opera pezzentella , ovviamente con gli allievi, sia per questa direzione di cui sono molto onorato, ma anche molto impaurito per via della responsabilità.
Non a caso nella Factory io potrò scegliere 12 allievi e possibilmente tre drammaturghi e registi da “formare”. Questa è la cosa che mi fa più paura, perché scrittore lo sei o non lo sei, non lo impari. Però se si prendono degli scrittori che hanno già un talento e si misurano con la materia teatrale da attori, è importante. Bisogna conoscere la materia da attori.
Io ho qualche bravura, perché sono un poeta, ma quella è la parte letteraria. La parte più importante è l’attore che scrive. Altrimenti non avrebbe senso. Anzi, l’attore ha la necessità di scrivere una parola che debba essere oralizzata e poi animata dagli stati di coscienza, dagli stati emotivi e via dicendo.
La Factory stava già lavorando su questa strada, producendo anche discreti risultati. Quindi ùnon ho apportato grandi modifiche, anche se chiaramente ho chiamato qualcuno dei miei attori per i ruoli di docenza, i più abili nella pedagogia, come Gennaro Di Colandrea e Maurizio Azzurro. Adesso stiamo pianificando le audizioni di giugno, il propedeutico di tre settimane.
Quale sarà la tua missione?
Noi non dobbiamo regalare dei sogni ai ragazzi, perché la prima cosa da dire è che non è detto che uscirai da qui e lavorerai, anzi. Io spero invece di poter dare loro un percorso tecnico, materico ma anche un percorso sull’essere umano.
Questo mestiere ormai o lo fai perché ci credi veramente e hai una dannazione da dover animare, oppure è meglio non farlo. Un tempo esistevano le compagnie di giro e quindi potevi farlo anche per mestiere. Ora non ne hai la possibilità.
Il teatro deve essere amorale, ma in scena io combatto per un teatro etico e morale. Per esempio, non faccio provini a pagamento, e faccio solo seminari e incontri. Cerco di trasferire delle cose e di acquisirne delle altre. Combattete per avere più giorni di prove, come ho fatto io, combattete per avere un miglioramento.
Nel teatro la cosa più importante sono le prove, non le repliche. Questo continuo fare repliche a cui siamo sottomessi, questo continuo creare spettacoli, non va bene.
Quindi tu dai maggiore importanza al processo che allo spettacolo?
Sì, ma è importante anche il risultato, sul quale sono anche abbastanza ossessivo. Però non puoi provare uno spettacolo in 25 giorni. Chiunque lo fa, farà sicuramente un prodotto scadente. Lavorando 30-40 giorni, forse puoi fare un monologo.
Almeno nelle prove, visto che sono fondi pubblici destinati alla bellezza, a produrre bellezza e a produrre cultura, non si vede perché io debba provare in pochissimo tempo, quando poi non c’è alcun interesse a vendere.
Quindi alla fine destiniamo anche sei-sette settimane alle prove e a fare meno repliche. Il teatro non è democratico, non lo possono fare tutti, e allora diamo però più possibilità ai giovani bravi.
Ma oggi non si dà possibilità a nessuno. I vecchi registi si sono giustamente accasati nelle direzioni artistiche, nei sistemi di potere. Anche io sto diventando un soggetto istituzionale, però non farò cose nuove per i prossimi cinqaue o sei 6 anni. Mi sono rifiutato, cose nuove non ne voglio scrivere. Ho fatto talmente tante cose che non mi pesa.
Ho voglia di scrivere, naturalmente, ma non mi si possono chiedere i diecimila versi come se fossi un jukebox.
Cosa ti spinge a dirigere una scuola di teatro?
Il vero fuoco è la necessità di trasmettere un’eredità paterna che ho molto anticipato con i miei versi negli ultimi anni. Tutto questo svilimento delle certezze dei padri ha portato a una generazione che non si definisce, che è frutto dell’omologazione e invece ha bisogno di aiuto, perché altrimenti vivremo tra trent’anniun disastro.
Il vero fascismo si è chiuso adesso con i social che hanno dato una superficie a tutto. Quella superficie non ti fa specchiare nell’ego degli altri: è solo il tuo ego riflesso in uno schermo. È devastante perché non hai la possibilità di confrontarti. L’unico luogo in cui può accadere è il teatro. Io sono un poeta di cose, che dice tutto, anche l’indicibile. C’è una frase che mi sono appuntato quando avevo diciannove anni e stavo iniziando a scrivere ‘Nzularchia : “Cantare in versi dire ciò che mai nessuno vorrebbe udire”. Il teatro serve a questo. I greci facevano i giochi, il teatro nasce come competizione per risolvere questioni. Questa urgenza l’abbiamo persa. Il teatro non deve accomodare.
Noi dobbiamo creare delle persone che credano nella loro diversità, che non annullino le loro diversità: è un concetto politico che intendo portare all’interno della Factory. Non dobbiamo parlare in dizione. La dizione è un genere, poi ci sono tantissime altre caratteristiche, altre strade: c’è il teatro dei burattini, che io farò; c’è il teatro dei pupi napoletani, adatti alla sceneggiata. L’importante è non omologarci a un genere, a un generico, a un medio. Perché è necessario tirare fuori l’anima dal corpo e controllarla attraverso un teatro totale, perché nel mio teatro c’è la musica, c’è la sceneggiata, c’è anche il melodramma, ci sono le canzoni, però c’è anche la prosa, anche se sotto le parole c’è sempre un tappeto musicale, una sorta di jazz nella prosa.
Chi sono stati i tuoi maestri e come ti hanno influenzato nella tua poetica?
In realtà io ho rubato molto perché i maestri sono stati pochi.
Ho rubato tanto da Gino Maringola, uno degli attori preferiti di Eduardo, con cui ho fatto poche lezioni. Quando ci fu Natale in casa Cupiello , andava per la maggiore un attore, Pietro De Vico, che faceva Tomassino, ma si ammalò e per due o tre mesi e non c’era. Così Eduardo andò da Maringola e gli disse: “Mio figlio deve fare il personaggio in tre settimane”, e Maringola lo fece.
Antonio Ferrante è stato un altro mio maestro. Adesso lavora nella serie Gomorra ma anche lui lavorava con Eduardo. Mi ha insegnato a camminare in scena, perché ero un ex calciatore e quindi camminavo male.
Ovviamente ci sono maestri che ho incontrato dopo, come Mamadou Dioume, per qualche settimana; Bruce Myers, quando mi pagavo dei seminari di teatro facendo il bagnino d’estate.
Per un certo tipo di immaginario è stato utile l’incontro con Davide Iodice, non tanto per la prosa quanto per come stare in un mondo e cioè comprendere che il mondo dell’attore poteva anche sconfinare nell’habitat del personaggio, della storia.
Per quanto riguarda invece la prosa, ho sempre avuto le mie idee, nell’applicazione di suono e ritmo alle parole, nello stato di coscienza, nella quarta parete aperta o chiusa, tutte le regole del teatro che chiamiamo erroneamente “unità aristoteliche”: il tempo, il luogo, lo spazio. E poi la direzione, a chi stai parlando, lo spaziamento quasi maniacale nelle cose corali, il teatro che deriva dallo sport, la disciplina, il movimento connaturato a uno stato di coscienza.
Noi dobbiamo essere aggraziati o sgraziati a seconda del personaggio, questo deriva certamente dalla commedia dell’arte che è il finto vero. Io cerco di fare “il vero finto vero”, a partire dalla verità. Mettere in serie i suoni e renderli organici, come diceva Artaud, e come facevano Leo de Berardinis o Tadeusz Kantor. Ma per fare questo devi mettere insieme la realtà, farla diventare finta e poi riproporla vera.
Poi ho imparato molto dagli errori. Ho fatto il burattinaio per tre anni e dai burattinai ho imparato una cosa. Il burattinaio non ti spiega cosa fare, se sbagli ti dà uno schiaffo, devi imparare guardando. Ho lavorato a Castellamare di Stabia con Aldo De Martino e con lui ho avuto modo di lavorare con i pupi napoletani. E voglio mettere in scena i pupi con l’accademia, perché è un modo che dà tempo, ritmo, poi ti serve un guanto per non sprofondare troppo in te stesso. E’ importante.
Come ti fa sentire l’idea di essere tu un maestro o qualcuno che si mette in crisi con gli allievi?
Io ho una deformazione errata dello stare in teatro, perché sono molto legato all’attimo dello stare in scena. Io non mi pongo un problema intellettuale: faccio, agisco, però dopo analizzo. A Napoli prima fai, poi eventualmente chiedi scusa! Facendo l’azione, capisci l’errore e forse quell’errore sarà la soluzione.
Quindi in questo momento l’unica responsabilità che mi pongo è una domanda: sarò in grado di motivare in modo alto e profondo questi ragazzi, senza però prescindere dalla delusione inevitabile del sogno? Perché noi mettiamo al mondo 12 persone che devono fare un patto con una passione. Ci dev’essere una formazione umana, un percorso umano che poi deve venire a patti con il mondo del lavoro teatrale o cinematografico, che non ha nulla a che vedere con l’umano.
Il sistema è una contraddizione con la quale mi ritrovo da trent’anni, però l’ho abbracciata, l’ho messa sulle spalle, ho superato degli step. Se fai prosa, la cosa più importante paradossalmente è il corpo. Luca Ronconi questa cosa di me l’aveva capita, perché la voce e la lingua hanno un corpo, mentre l’italiano, diceva lui, ti dà una corporeità molto statica, fisica. Ronconi mi fece un esempio bellissimo: la tua lingua ha la facoltà di dare la postura giusta.
Ecco la responsabilità. Ecco Renata Molinari e il suo silenzio. E’ stata un vero maestro anche lei. Io non potevo più sbagliare, perché c’erano aspettative enormi dopo i premi e i riconoscimenti. Péer questo ho scritto La madre e gli altri testi, mi sono dato dei versi su cui confrontarmi. Questo mi ha aiutato ad arrivare alla Cupa.
Io faccio l’autore e il regista teatrale perché voglio tenere sotto controllo la materia dall’inizio alla fine, anche se è un’ossessione quasi velleitaria. Nel caso dell’insegnamento non hai sotto controllo il destino dei tuoi allievi e questo mi fa molta paura. È un processo anche paterno, ma di soli tre anni che prevede una fretta nel trasferimento. Posso definirmi maestro, ma vorrei che gli allievi incontrassero anche altri maestri, più grandi di me, come Valerio Binasco, Toni Servillo, Romeo Castellucci.
Alla fine del percorso i tre drammaturghi mi porteranno dei testi che io vorrei diventassero degli spettacoli importanti.
Vorrei fare una operazione di pesante responsabilità, anche se dovessero scontrarsi con la realtà.
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