Un melodramma gender in una Calabria atavica e feroce
F-Aìda di Salvatore Arena e Massimo Barilla per Manachuma Teatro
«Celeste Aida, forma divina,
Mistico serto di luce e fior;
Del mio pensiero tu sei regina,
Tu di mia vita sei lo splendor.
Il tuo bel cielo vorrei ridarti,
Le dolci brezze del patrio suol,
Un regal serto sul crin posarti,
Ergerti un trono vicino al sol.»
Non c’è niente di più lontano da uno scannatoio di un giradischi che intoni opere liriche, eppure in F-Aìda di Salvatore Arena e Massimo Barilla questi due elementi, questi due spazi – di visione e concreta emozione – vibrano all’unisono con dovizia di cura e particolareggiata attenzione per la provocazione. A determinare la tragedia è il coro monologante e protagonista allo stesso tempo del dramma, incarnato da un notevole Salvatore Arena nelle vesti di Rocco-Aida e del coro e dei vari personaggi che animano questa tragedia. Il testo dello spettacolo è ricco di poesia e turpiloquio elegante e di romantico stupore. Poco conta la trama in questa sapiente ricostruzione di un melodramma familiare che trae ispirazione da fatti di cronaca e si emancipa in accorta narrazione di una intimità lacerante.
Sono presenti tutti gli elementi della tragedia e una tematica apparentemente gender che invece tocca l’archetipo del femminile, esibendo una madre-madonna statua che lacrima sangue. La protagonista è una donna nel corpo di un uomo, è una creatura fiabesca e mitica che vive per molti anni senza vedere la luce del sole, trattata al pari di una bestia, isolata con i porci, solo per avere esibito un bacio omosessuale, in una Calabria atavica e feroce che non perdona la diversità. Ma il fulcro della pièce non è solo questo: è anzitutto una riscrittura contemporanea della tragedia classica. Di essa si compone attraversando tutti i momenti strutturali, con un compendio di luci che evocano i morti ammazzati e una scenografia imponente che viene abitata e indossata da Arena, senza mai tralasciare alcuna parte di essa. Diviene infatti essa funzione del corpo dell’attore e funzionale al testo.
La figura maschile è solo un fantoccio su un tavolaccio, è minimalista presenza senza volto, è padre crudele. È zozza sembianza da lavare, da purificare per avere sporcato con la vendetta e il sangue e sterminato una intera famiglia di uomini-fratelli. È contagiosa tuttavia nella sua organicità negata e rende colpevole di delitto anche Aida che stringe troppo forte tra le sue braccia matrigne il nipote, unico erede maschile rimasto a perpetrare una stirpe malefica, che per questo non ha scampo. Perché la morte è l’unica possibilità di salvezza in una chiara e vigile denuncia alla delinquenza.
Echeggia l’Aida di Verdi ma anche quella di Rino Gaetano in questo debutto nazionale del 25 aprile a Reggio Calabria, capoluogo martoriato dalla ‘ndrangheta e da un esercizio malato del potere. Si staglia con fermezza e intelligenza quest’opera ben ideata e composta per incriminare il silenzio intorno ai fatti del racconto: una prosodia mai accattivante ma decisa e violenta promessa di giustizia.
«Lei sfogliava i suoi ricordi
le sue istantanee
i suoi tabù
le sue madonne i suoi rosari
e mille mari
e alalà
i suoi vestiti di lino e seta
le calze a rete
Marlene e Charlot
e dopo giugno il gran conflitto
e poi l’Egitto
un’altra età.»
F-Aìda
testo e regia di Salvatore Arena e Massimo Barilla
musiche originali e sound design di Luigi Polimeni
scene di Aldo Zucco
disegno luci di Luigi Biondi
regista assistente Mariano Nieddu
produzione di Manachuma Teatro
Spettacolo finalista al Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti
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