Riflessione #3. L’eterna lotta tra una platea e un posto al sole
Terza puntata sul tema Il teatro, i bambini, le comunità e la sfida del digitale in occasione di Lily e Adam, la webserie teatrale per bambini e webcam di Karakorum Teatro
Fuori dalla mia finestra c’è il sole. Io sono seduto al tavolo e devo scrivere un articolo, questo articolo, quello che sto rimandando da un paio di settimane. Ho deciso di scriverlo a partire da questa domanda: la cultura è necessaria? Necessaria come… cosa?
La mora senza spine che ho sul balcone, quella che credevo definitivamente morta e che ho tranciato di netto alla base, stamattina mi ha sorpreso con quattro nuovi germogli verdi. Promettono bene, così bene che io, oggi, avrei solo voglia di stare sul balcone e di monitorare tutto il giorno la “situazione mora”.
Non ho voglia di scrivere, tantomeno ho voglia di andare in teatro.
(Maledetta mora senza spine, è tutta colpa tua.)
Il direttore del teatro della mia città, Varese, qualche settimane fa ha detto che “dopo tante sofferenze, la gente ha solo bisogno di divertirsi” e ha annullato la stagione di prosa, tutta, in tronco. Se fai questo mestiere, criticare questa posizione è fin troppo scontato: pensare che la prosa faccia parte del calderone delle sofferenze e che i musical o il cabaret siano invece l’apoteosi del piacere, è la cosa più ingenua che si possa dire sul teatro (e il fatto che a dirlo sia un operatore del settore aggiunge solo un pizzico di tristezza).
Eppure, io, oggi, non ho voglia di andare a teatro e mi sento una brutta persona.
Che abbia ragione il direttore di quel teatro?
(Maledetta mora senza spine, ma cosa mi fai dire?)
Ripenso a qualche mese fa, all’elenco delle “attività necessarie” aperte nei mesi della pandemia, a quelle che hanno potuto riaprire subito dopo le settimane di lock down. Il teatro non era in quelle liste, stava piuttosto in cima all’elenco dei vizi, delle perdizioni di un élite, vezzo borghese delle nuove Sodoma e Gomorra.
Sono stordito.
Il passaggio da vezzo borghese a pratica di sofferenza autoinflitta è stato decisamente troppo breve. La mia domanda, allora, non è così ingenua come sembrava a un primo sguardo: la cultura è necessaria o no? Il teatro è necessario o no? Ma soprattutto, è così e basta o bisogna deciderlo? In caso, chi lo decide? E come fa?
Come si fa a valutare questa necessità in un sistema complesso fatto di economie da investire, responsabilità da prendere, equilibri difficili tra senso e sostenibilità?
Non ho una risposta razionale, ho solo una sensazione che mi dice che i numeri non possono venire in nostro aiuto, non questa volta.
I numeri non sono attendibili dopo due anni di attività a singhiozzo, questo lo sappiamo (ed è una bella scusa per tirare avanti ancora un po’, senza porsi troppe domande, con qualche aiuto governativo in più). Eppure, la vocina nella mia testa, la stessa che mi suggerisce di non starmene qui al tavolo a scrivere (a proposito, chissà come sta la mia mora senza spine?), mi dice che i parametri delle quantità non possono più essere la guida: che ci piaccia o meno, la transizione ecologica e l’intero programma imposto dall’Agenda 2030 riguardano anche noi. Non basta misurare il quanto, è necessario valutare il come, il dove e il quando facciamo il nostro mestiere.
Il progetto di webserie teatrale per bambini, Lily e Adam, che ho portato avanti con Karakorum Teatro, è giunto quasi al termine. Gli otto episodi di questa terza stagione sono già stati trasmessi, in verità, ma ci manca ancora un’azione importante, il pezzo forte (di cui vi racconterò nell’ultimo capitolo di questa rubrica).
Chi ha potuto leggere le mie riflessioni precedenti (le potete trovare qui) già sa che il progetto ha dato vita a un’avventura seriale in ambiente digitale, dedicata ai bambini dai 4 agli 8 anni. Il progetto ha avuto alti numeri? Non è questo il punto, o almeno non deve più esserlo.
E allora, cosa rimane? In primis un’enorme stanchezza.
Dopo 9 settimane di scrittura, prove, montaggi video, adattamenti e sperimentazioni, dopo due mesi di camerini trasformati in set, uffici riconvertiti in regie, sale riunioni in depositi, nella pancia abbiamo il desiderio-bisogno di tornare a un lavoro “normale”.
I nostri spazi, le nostre prassi organizzative, il sistema nel suo complesso non è fatto per ospitare questo tipo di esperienze. Produrre esperienze di questo tipo richiede una riconversione totale, uno sforzo organizzativo, mentale e fisico, decisamente troppo alto per renderlo realmente sinergico al quotidianità del nostro lavoro.
Eppure, alla fine, nella griglia di Zoom, fedele compagna di questo lungo percorso, vediamo un giovanissimo spettatore alzare la mano. Gli viene data parola. Il microfono si accende e, con la sincerità tipica di una persona di cinque anni, spiega che la storia non deve finire, non può.
Propone bizzarri finali alternativi, immagina nuovi conflitti da risolvere, nuovi personaggi da inserire. Altri bambini, intanto, sotto la copertina, abbracciano mamma e papà. Piangono perché si rendono conto che i loro nuovi amici non saranno più con loro il mercoledì sera. Che questa cosa, che è entrata nelle loro case, nella loro vita, nelle loro abitudini sta per finire.
Ecco cosa rimane: un grande vuoto. Un enorme vuoto da riempire ancora, e ancora, qualcosa che permetta a questi bambini di volare in alto, qualcosa che sappia realmente impattare sulle loro inedite quotidianità, che sappia entrare a far parte delle loro vite, che li faccia sentire parte di qualcosa. Rimane la Cultura, un sentimento di far parte di “qualcosa”.
Lily e Adam, nel suo piccolo, ha intercettato questo bisogno, ma farlo ci è costato una “riconversione totale”. È un fatto che mi interroga, mi stordisce, e la domanda sulla necessità della cultura torna ad essere una domanda ingenua. ù
Comincio a pensare che la digitalizzazione del teatro non sia solo una questione di forme e linguaggi scenici, bensì un processo necessario per rimanerci in contatto con quel “qualcosa” che sta cambiando. La digitalizzazione è una questione antropologica: ha cambiato i rapporti, le relazioni, il concetto stesso di comunità. L’innovazione tecnologica delle attività culturali non può limitarsi alla sperimentazione creativa di device elettronici, può e deve essere un’occasione per riflettere e riscoprire il senso del teatro nella società contemporanea, ripensare le prassi organizzative, gli indicatori di valutazione, i processi della produzione, le modalità di fruizione, le forme degli spazi, i contratti di lavoro.
Mentre si sta come d’autunno in attesa dei finanziamenti ministeriali, mentre si contano le matrici dei biglietti strappati, i c1 intestati, le giornate lavorate, mentre ansimiamo nella lotta per la conservazione di questa sotto-specie di umanità chiama “teatranti”, non possiamo dimenticare che cambiare non è solo una questione di senso, di identità, di prassi artistiche. Cambiare è un imperativo, per tutti, e l’Agenda 2030 ce lo ricorda. Alla fine del prossimo triennio ministeriale, avremo solo 6 anni di tempo per adeguare il sistema, qualcuno dice anche meno. E questo mi preoccupa, perché significa che tutto deve partire per prima cosa da noi (i dipendenti del ministero mi perdoneranno per questa mancanza di fiducia).
Il conflitto tra cambiamento e conservazione è il più antico di tutti, non possiamo affrontarlo solo a livello drammaturgico e, soprattutto, dobbiamo farlo adesso.
La cultura è necessaria? La domanda non ha senso.
La Cultura c’è, come il sole sul mio balcone, e il Teatro è il nostro posto al sole.
La Cultura ci chiama e, sempre più spesso, ci porta fuori dai teatri, dai cinema, dai musei, a volte ci trascina in luoghi senza nome, senza materia, senza piani di sicurezza, senza misure, senza numeri.
La domanda da porci diventa: chi troveremo là fuori quando ci faremo portare via?
Ora basta. Smetto di scrivere, devo bagnare la mia mora senza spine.
Promette bene.
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