La strategia della scimmia

Il testo per il programma di sala di Zoo di Sergio Blanco al Piccolo Teatro Studio Mariangela Melato a Milano

Pubblicato il 26/03/2022 / di / ateatro n. 182

Zoo di Sergio Blanco (foto Masiar Pasquali)

Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, gli etologi iniziarono a studiare l’organizzazione sociale dei primati, gli animali più simili a noi. Osservarono le furibonde lotte per il potere (e per le femmine da fecondare) degli aspiranti “maschi alfa”, ma anche le alleanze e le strategie di leader e comprimari. Scoprirono che anche nel brando degli scimpanzé si faceva politica. Questi scontri feroci e spesso mortali avevano l’obiettivo di spodestare il leader. Di fronte a queste esplosioni di violenza – il nucleo germinale di ogni fascismo – un etologo più acuto degli altri iniziò a farsi una domanda. Va bene lo scontro, il conflitto. L’abbiamo visto. Ma se questa lotta andasse avanti all’infinito, porterebbe all’autodistruzione del branco. Dunque ci dev’essere anche un modo in cui i nostri scimmieschi cugini, dopo essersi sfidati e affrontati, si dicono “Basta!”, trovano un accordo e tornano alla convivenza pacifica.
Ad attrarre l’attenzione di Frans de Waal fu una specie di primati particolarmente schivi e dunque poco studiati, ma geneticamente i più vicini all’Homo Sapiens. I bonobo utilizzano diverse tattiche per abbassare l’aggressività reciproca: gesti, atteggiamenti, segnali… Ma soprattutto per fare pace praticano il sesso, in tutte le combinazioni e posizioni possibili.
Noi umani abbiamo diverse modalità di gestione delle divergenze. La prima, la più stupida, è la violenza fisica, l’aggressione, la guerra, lo stupro. Lo vediamo tragicamente anche oggi: ci eravamo illusi di aver superato la barbarie e rischiamo che un demente schiacci un pulsante rosso per distruggere dell’umanità intera.

Zoo di Sergio Blanco (foto Masiar Pasquali)

La seconda modalità sono i confini, le soglie, i limiti. Abbiamo imparato a tracciare frontiere, alzare muri, costruire gabbie per separarci dal nemico, dall’Altro, dal diverso. Ci siamo inventati le prigioni, i ghetti, i manicomi, i campi di concentramento, gli SPRAR (ovvero i centri del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Anche le scuole e i conventi possono servire a isolare. Le città. E le “mura domestiche”, dalle quali le donne non dovevano uscire, se non erano “passeggiatrici”. Infine gli zoo, per rendere inoffensivi gli animali, soprattutto quelli più pericolosi, grandi, feroci, così da osservarli senza alcun rischio. Dopo averli rinchiusi, a volte li trasformavamo in spettacolo. Pagavamo un biglietto anche per visitare i manicomi o per inorridire davanti ai “mostri” nei padiglioni dei circhi e dei luna park: la donna barbuta, l’uomo elefante, la sirena… Ora la fiera delle atrocità la esponiamo nei mass media e su internet, tra un’inserzione e l’altra.
La terza modalità è quella adottata dai bonobo. Non facciamoci sempre la guerra, ci suggeriscono i nostri simpatici cugini e cuginette erotomani. Meglio se facciamo l’amore. Più in generale, cerchiamo di fare qualcosa insieme, volendoci bene, con un obiettivo comune. Magari – come fanno gli esseri umani – fondiamo un partito e iniziamo a dialogare con gli altri frammenti della nostra società.
C’è una quarta modalità, che non risolve i conflitti ma può aiutare a vederli. Una pratica importante, perché i conflitti che attraversano le nostre società sono spesso invisibili. Le vittime non hanno possibilità di parola, perché l’ordine del discorso esclude la loro voce e il loro punto di vista. Questo modo per affrontare i conflitti, per riuscire a vederli e iniziare a discuterne, si chiama teatro. Si basa su un paradosso: far vedere la differenza costruendo una differenza, una parete invisibile, tra chi sale in scena e chi resta il platea. Tra chi guarda e chi si mostra. Tra l’attore che agisce e lo spettatore che sceglie la passività, l’impotenza del guardone. Anche se poi, come insegnano gli antropologi, lo sguardo è sempre reciproco: noi bianchi europei andavamo a vedere i “matti” esibiti nei manicomi o i “selvaggi” nei pittoreschi villaggi ricostruiti per le Esposizioni Universali, ma anche loro – i “selvaggi” – guardavano noi. Attraverso la grata, incrociamo lo sguardo iroso o malinconico della bestia prigioniera. Senza dimenticare che la presenza dello spettatore non è mai passiva: è sempre un lavoro, una partecipazione che si appropria dei segni per costruire la propria interpretazione.

Zoo di Sergio Blanco (foto Masiar Pasquali)

Perché il teatro non è solo riproduzione del reale. Porta sulla scena il dramma, ovvero i conflitti che attraversano e dividono la società. Ma anche e soprattutto i conflitti che attraversano ciascuno di noi. Le barriere contro l’Altro, le alziamo prima di tutto dentro di noi, senza che ce ne accorgiamo. Sono barriere mentali, i termini e le definizioni inscritte nel nostro linguaggio, una grammatica che costruisce il mondo così come lo vediamo e lo viviamo.
Parliamo una lingua maschile. E usiamo categorie che crediamo definitive. Noi e i “barbari”. Noi e i “selvaggi”. Noi e gli “invasori”. Noi e gli “animali”, le “bestie”, le “belve”. Noi e le macchine, i robot. Noi e i mezzi di comunicazione. Ma anche le grandi dicotomie: il corpo e l’anima, il maschio e la femmina (come “Dio li creò”), l’uomo e l’animale (i filosofi hanno posizionato a lungo la donna a mezza strada tra l’uno e l’altro). Il libero arbitrio e il destino. Sono barriere che usiamo per difendere la nostra identità, bussole che servono a orientarci nel mondo, boe a cui aggrapparci nel flusso del divenire.
Ma possono anche diventare trappole. Perché questa dualità, questa molteplicità è dentro di noi. Se ci irrigidiamo nelle definizioni, senza vedere la vita, ci chiudiamo nelle gabbie del pensiero.
Quello che ci turba, quello che ci fa paura, non è l’ignoto. Conosciamo tanto bene quell’ombra nera che l’abbiamo affondata nelle nebbie dell’inconscio, per dimenticarla. E quando riemerge, come accade nelle vere opere d’arte, ci inquieta, agita i nostri incubi, ci toglie il sonno. Ci sbatte in faccia il perturbante.
Il teatro è anche questa vertigine. E ama giocare con un paradosso. Chi dice “io” quando sale in scena? L’attore o il personaggio? Lo sciamano, mentre compie il rito, è ancora lui o è l’animale che lo possiede, oppure è l’antenato che parla con la sua voce?
In questa eterna contraddizione, il teatro ci insegna che chi dice “io” mente sempre, inevitabilmente, a propria insaputa. Come se fosse lo spettatore di sé stesso, è sempre al lavoro per costruire il proprio racconto. “Autofinzione”, per chi ama la teoria della letteratura. Perché il nostro “io” è una maschera, una finzione. Ma al tempo stesso il nostro “io” è tragicamente e comicamente vero: nelle fratture dolorose che apre dentro di noi, nelle lacerazioni che possono portarci alla follia e morte, ma anche nel gioco beffardo e liberatorio del comico (un’altra dicotomia, tanto per capirci).

Zoo di Sergio Blanco (foto Masiar Pasquali)

In questo momento molte delle gabbie che abbiamo usato per secoli (e forse per millenni) hanno perso la loro efficacia. Alcune dicotomie non funzionano più, per esempio quella tra il corpo e la mente. Di recente un’équipe di ricercatori, molti attivi a Milano, avrebbe scoperto che un unico difetto genetico è responsabile di una malattia neurologica (il corpo) e di una patologia psichiatrica (la mente, o se preferite l’anima). E forse abbiamo capito male anche quel “maschio e femmina Dio li creò”: forse vuol dire che ciascuno di noi è insieme maschio e femmina.
Tra tutte queste contrapposizioni, quella tra l’uomo e l’animale è tra le più profondamente radicate, ma sta vivendo una crisi profonda, così come la finta alternativa tra natura e cultura.
Sappiamo di essere animali, ma ci consideriamo razionali, ovvero diversi da tutti gli altri animali. Ma Charles Darwin ci ha dimostrato che siamo molto più vicini all’animale di quanto pensassimo. Franz Kafka ne ha tratto le conseguenze: se una scimmia può diventare uomo (Una relazione all’Accademia), allora anche un uomo può diventare animale (La metamorfosi), ridursi a un “sottouomo” ripugnante, profeticamente destinato allo sterminio. Kafka regala due straordinari esercizi per l’attore che vuole “diventare animale”, per riprendere la formula rilanciata da Deleuze e Guattari: farsi piccolo e ritrovare l’inconsapevolezza, l’innocenza.
Anticamente, alle divinità era concesso il privilegio di “diventare animale”: Era una delle pratiche preferite da Zeus, che per stuprare le fanciulle di cui si invaghiva poteva prendere la forma di un toro o di un cigno. Poteva pure trasformare la sua amante in vacca (Io) o in orsa (Calliope). Se a innamorarsi di un animale era invece una creatura umana, le conseguenze non erano piacevoli. Il Minotauro era il mostruoso frutto dell’amplesso di Pasifae con un toro che il dio Posidone aveva donato a suo marito Minosse. Per tener buona la creatura, intrappolata nel Labirinto, era necessario darle in pasto ogni anno sette giovani e sette fanciulle ateniesi.
Negli ultimi decenni, il mondo dello spettacolo sta vivendo un curioso chiasmo. Tradizionalmente sulla scena teatrale non comparivano animali vivi. All’occorrenza, venivano impersonati da attori e attrici più o meno travestiti, o da pupazzi e burattini. Gli animali erano invece protagonisti di forme di spettacolo considerate minori, “popolari”, come il circo o il café chantant.
Negli ultimi decenni, la sensibilità è radicalmente cambiata. Qualche decennio fa, la corrida veniva osteggiata perché il torero rischiava la morte sull’arena. Oggi a preoccuparci sono le sofferenze e l’agonia del toro. Così la presenza degli animali nei circhi viene scoraggiata (anche con provvedimenti di legge e amministrativi), tanto che il nouveau cirque li ha in genere esclusi dalla scena (o dalla pista).

Zoo di Sergio Blanco (foto Masiar Pasquali)

Sono invece numerosi gli artisti, i performer e i teatranti che hanno utilizzato gli animali in scena per mettere in discussione il rapporto tra finzione e realtà, ma anche quello tra l’uomo e l’animale, o perlomeno il nostro atteggiamento nei confronti della “naturalità”, con qualche scandalo. Tra gli altri, a partire dagli anni Sessanta, Hermann Nitsch (le carcasse sanguinanti di capre, lepri, pecore…), Jannis Kounellis (un pappagallo e 12 cavalli), Joseph Beuys (un coyote), Romeo Castellucci (un orso, un serpente, diversi cavalli e vari cani neri piuttosto minacciosi, tre babbuini…), Jan Fabre (coleotteri in grandi quantità), Rodrigo García (due teneri conigli, su cui minacciare sevizie sessuali, e un astice, che veniva cucinato in scena), Katherine Bell (che nuotava in una vasca piena di anguille vive), Damien Hirst (mucche, pecore, uccelli pesci in teche di vetro, spesso sezionati), Eduardo Kac (un coniglio transgenico fluorescente), Licia Lanera (un capitone), il Teatro delle Ariette (con i loro animali da cortile), la compagnia Animali Celesti di Alessandro Garzella (una teatroterapia che contempla la compresenza di attori, anche disabili, con pappagalli, dromedari, pecore, lama, avvoltoi, asini, capre, cavalli, maiali…), Maurizio Cattelan (le centinaia di uccelli impagliati nella recente mostra Breath Ghosts Blind al Pirelli Hangar Bicocca).
Oggi, come ci ammonisce un recente comunicato stampa del WWF,
• Il 70% della biomassa degli uccelli del pianeta è pollame da allevamento. Solo il 30% è costituito da specie selvatiche.
• Il 60% della biomassa dei mammiferi sul pianeta è costituito da bovini e suini da allevamento, il 36% da umani e appena il 4% da mammiferi selvatici.
• Allevamenti intensivi da soli responsabili del 14,5% delle emissioni totali di gas serra e il 40% dei terreni è coltivato per la produzione di mangimi.
• Il 75% delle malattie emergenti è di origine zoonotica.
Ce n’eravamo dimenticati. Siamo animali anche noi. Viviamo in simbiosi con la biosfera.

POST SCRIPTUM
Il Giardino Zoologico di Milano venne inaugurato nel 1922, nei Giardini di Porta Venezia, nell’angolo verso via Manin. Negli anni Sessanta, nelle sue gabbie erano rinchiusi, in spazi angusti, circa 500 animali. Era molto frequentato e non solo da bambini come me: in una foto del 1951, i poeti Alfonso Gatto e Vittorio Sereni e lo scrittore Oreste Del Buono assistono rapiti alla performance dell’elefantessa Bombay, che suonava l’organetto leggendo lo spartito con un grande paio di occhiali bianchi. Alla fine dell’esibizione, allungava la proboscide verso i bambini, per raccogliere le noccioline (che mangiava) e le monete (che girava all’istruttore).
Lo zoo di Milano venne chiuso definitivamente nel 1992, dopo le proteste di ambientalisti e animalisti. Qualche tempo dopo, alcuni senzatetto e immigrati trovarono rifugio nelle gabbie e nei padiglioni abbandonati, che a quel punto vennero demoliti. Ora nell’area si trova un gradevole bar-ristorante. L’elefantessa Bombay, morta nel 1988, perfettamente tassidermizzata, è ora l’attrazione di uno dei diorami del Civico del Museo di Storia Naturale di Milano, che ricostruisce l’ambiente naturale del parco Kaziranga, nell’India nord occidentale.

Bibliografia

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Un solo gene difettoso, due malattie opposte: scoperta fa cadere il ‘muro’ che separa neurologia e psichiatria, alla pagina, https://www.centrodinoferrari.com/un-solo-gene-difettoso-due-malattie-opposte-scoperta-fa-cadere-il-muro-che-separa-neurologia-e-psichiatria/

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ZOO
scritto e diretto da Sergio Blanco
traduzione Angelo Savelli
video Miguel Grompone
scene Monica Boromello
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
aiuto regia Teresa Vila
preparazione vocale a cura di Laura Raimondi
con Lino Guanciale, Sara Putignano, Lorenzo Grilli
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa




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