La persistenza simbolica degli Spettri
Rimas Tuminas regista di Ibsen per lo Stabile del Veneto
Più degli scandalosi temi che al suo apparire nel 1881, e per oltre un secolo, hanno avvinto il pubblico occidentale – eutanasia, desiderio incestuoso, relativismo morale – quel che colpisce oggi del “dramma domestico in tre atti” di Ibsen è la persistenza simbolica di quegli spettri che, come promanando dal titolo stesso, sembrano attraversare ogni pagina, ogni scena. I fantasmi del drammaturgo norvegese, infatti, possono essere letti non solo come una critica radicale alle convenzioni sociali ma più profondamente come una indagine intorno all’universalità delle immagini attraverso le quali il mondo è conosciuto e il soggetto agisce (o è agito). Sembra alludere a questa più potente interpretazione la regia del capolavoro ibseniano che Rimas Tuminas ha firmato per il Teatro Stabile del Veneto. Nell’adattamento di Fausto Paravidino, lo spettacolo ha debuttato al Goldoni di Venezia.
La regia del maestro lituano è improntata alla lettura dei movimenti reconditi di quelle figurazioni immaginali che muovono i personaggi di Ibsen a loro insaputa – e il dramma si palesa appunto con lo svelamento di tali meccanismi. Il falegname Engstrand (Giancarlo Previati) si muove con gestualità meccanica, la gamba malforme ne fa un pezzo di legno falsamente dimesso. Gli accenni di danza di Osvald e Regine (Gianluca Merolli e Eleonora Panizzo) da una parte esprimono la gioia di vivere (sempre illusoria: «La gioia di vivere! Può essere in questo la salvezza?»), dall’altra ne rivelano l’impossibilità se non nella distorsione grottesca delle loro immagini sempre sfuggenti allo specchio oscillante sul fondale. La recitazione convenzionale del pastore Manders (Fabio Sartor) tradisce l’ipocrisia del puritanesimo nordico che Ibsen scandaglia prima di Freud.
Ma è soprattutto la presenza straniata di Helene Arving a disegnare le fredde geometrie sentimentali di questo campo di nevrosi che è la famiglia borghese. Nei panni del personaggio che fu “scoperto” da Eleonora Duse, Andrea Jonasson lascia ruotare intorno a sé, nello spazio centrale del palco lasciato quasi sempre vuoto, nella zona grigia dell’incomunicabilità, le forme fittizie che gli esseri umani si affannano ancora a difendere senza neppure più crederci: il perbenismo e la ribellione, il conformismo nel condannare i sentimenti e l’arroganza di pretendere la felicità.
La stessa costruzione scenografica (ideata da Adomas Jacovskis) rinvia a qualcosa che riguarda non più solo la famiglia e la sua crisi, ma una civiltà intera – quella occidentale – e il suo crollo: la casa/gabbia/serra di tanti allestimenti diventa qui spazio imponente che sfrutta tutta l’altezza del palco con possenti colonne ai lati, sulle quali si addossano sedie e attori. Un fascio di luce scende in diagonale senza mai trovare presenze reali ma solo simulacri tra la nebbia onnipresente.
Se in Casa di bambola (1879) la figura di Nora si ri-anima capovolgendo quello stesso immaginario che paralizza la signora Alving, in Spettri (1881) le presenze fantasmatiche sono negative, e determinano la perdita dell’anima di tutti i personaggi. Osvald che inferma, il cervello ormai rammolito per la sifilide ereditata dal padre, non è che la rappresentazione eloquente – lo psicopatico correlativo oggettivo – della comune condizione umana: siamo tutti degli spettri, dice la signora Alving all’incredulo pastore Menders, perché in noi rivive non solo ciò che abbiamo ereditato dai genitori, comprese le colpe, ma tutto il complesso di idee morte, di credenze e superstizioni. Tutto un immaginario che è depositato in noi e del quale non possiamo liberarci.
Inutilmente vi si dimena Osvald, che una certa tradizione attorale (da Ermete Zacconi nel 1892 fino a Gabriele Lavia nel 1985) ha portato in scena come il protagonista del dramma. Del resto fu questa anche la scelta di August Lindberg, il primo ad allestire Spettri in Europa nel 1883 (dopo il debutto a Chicago l’anno precedente), preparando il personaggio sulla scorta di attente osservazioni dei figli di luetici ricoverati negli ospedali svedesi.
Allontanandosi da questo approccio, come da quello psicanalitico di Massimo Castri (2004), più interessato allo scontro maschile-femminile, Tuminas propende per la centralità di Helene e ne fa una donna coraggiosa e una madre generosa, «capace di sacrificare tutto in nome della verità», si legge nelle note di regia. Una centralità anche fisicamente dichiarata: sarà lei a occupare finalmente, dopo la strage delle illusioni, il cuore vuoto della scena, a ridarle cuore. Certo la Jonasson non è la Duse (e Merolli non è Memo Benassi), ma la scena conclusiva, con la signora Alving trasformata da un pesante velo in mater dolorosa di fronte alla passione del figlio, regredito ormai a un fanciullo («Mamma, dammi il sole…»), trova il tono della tragedia.
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