Il potere di quello che accade in scena, ovvero la presenza reale dello spettacolo dal vivo
Moby Dick alla prova di Elio De Capitani al Teatro Elfo-Puccini di Milano
Arriva al pubblico con un anno di ritardo Moby Dick alla prova, uno spettacolo che Elio De Capitani desiderava fare da tempo e su cui ha investito molto: il romanzo intramontabile di Melville, il personaggio magnetico e dannato di Achab, il testo che ne ha ricavato Orson Welles, mai rappresentato in Italia, la sua interpretazione di Padre Mapple nel film di John Huston.
Sarebbe bastato uno solo di questi motivi, ma tutti insieme hanno costituito una calamita irresistibile per un’artista come De Capitani: colto, curioso, politicamente all’erta, generoso in scena, amante di un teatro che coltivi la ricerca senza rinunciare allo spettacolo, meglio se ‘grande’ e soprattutto capace di coinvolgere al massimo tutti gli artefici e di parlare a un pubblico ampio.
Il Covid ci si è messo di mezzo, creando molteplici ostacoli, che con tenacia e intelligenza sono stati in parte rovesciati in senso positivo: maggiore durata delle prove, concentrazione nello spazio chiuso del teatro, invenzione di maschere originali da sovrapporre a quelle sanitarie, a opera di Marco Bonadei, coinvolgimento generale nel corso che De Capitani tiene alla IULM di Milano e che quest’anno ha dedicato allo spettacolo in costruzione.
Avevo subito pensato di aggiungere un capitolo al mio saggio L’America di Elio De Capitani, in corso di traduzione in inglese: non poteva mancare il capitano della Pequod dopo Roy Cohn, Richard Nixon, il commesso viaggiatore Willy Loman, anzi prima di loro, come incarnazione all’ennesima potenza delle contraddizioni che rendono forti e lacerati gli Stati Uniti, della loro sfida al cielo e alla terra capace di affascinare come di portare all’odio o alla perdizione. Così ho seguito da remoto il corso, ho visto più volte il video a uso interno di una prova generale, sono stata di nuovo catturata dal romanzo e sono caduta nella rete del grande Orson Welles…
Il capitolo è restato in bozze, nell’attesa di vedere lo spettacolo, anche se l’incertezza procurata dalla quarta ondata pandemica mi stava quasi suggerendo di rinunciarvi. Potevo scriverne basandomi sui documenti, come per gli spettacoli del passato, comunicandolo a lettrici e lettori. Per fortuna invece ho visto e rivedrò Moby Dick alla prova.
La mia non è una recensione ma una testimonianza personale su ciò che la storica perde quando non è anche spettatrice. È risaputo (anche se non sempre praticato) che chi studia il teatro del passato deve avere un’ampia esperienza spettatoriale nel presente. E’ altrettanto evidente che si può scrivere di ciò che non si è visto ma si è accuratamente studiato. Mi interessa però rimarcare le perdite di quell’esperienza mancata, a conferma di come la natura effimera del teatro e la sua intraducibilità siano tratti ineliminabili della sua differenza e del suo fascino.
Alle 20.30, nella Sala Shakespeare del Teatro Elfo-Puccini, davanti a una platea piena e in fermento, lo spettacolo ha inizio. Dimentico tutto quello che ho letto e ho visto in video, e ci entro dentro con beata ignoranza: primo segno forte del potere di quello che accade sulla scena. Tutt’altra esperienza da quella fatta davanti al piccolo schermo del computer nella solitudine del mio studio. Ora la sostanza culturale e politica alla base di questo Moby Dick alla prova – accompagnato da un’installazione nel foyer, curata dal MUSE di Trento, sulla violenta distruzione del mondo naturale e animale prodotta dall’uomo ̶- si traduce in un sentire che porta a condividere il dramma prima di razionalizzarne i motivi.
Ciò che come studiosa non avevo esperito era lo spazio, il protagonismo dello spazio, le sue dimensioni. Il palcoscenico è occupato solo da alcuni oggetti essenziali: tre alte scale su cui salgono i marinai per scrutare il mare, un’antica sedia di barbiere che evoca un trono, tavoli d’acciaio per ricordare che sulla nave si lavora l’olio prezioso e tutto quello che si può ricavare dal cadavere delle balene…
Penso a Mejerchol’d, anche se qui le tre dimensioni spaziali non sono pensate tanto in funzione dell’atletismo degli attori quanto per creare il contesto fisico in cui avviene l’inseguimento di Moby Dick e si prepara lo scontro frontale. La grande bocca del palcoscenico risuona di rumori, delle musiche dal vivo di Mario Arcari, dei canti marinari degli attori preparati da Francesca Breschi, in felice relazione con il testo di Orson Welles dal romanzo di Melville, con il blank verse che diventa poesia anche nella nostra lingua grazie alla traduzione di Cristina Viti.
Poesia che risuona nello spazio di cui la prevalente semioscurità accentua la dimensione abissale, mentre i costumi di Ferdinando Bruni – carichi di memoria teatrale e di sapienza sartoriale – fanno mondo a partire da un passato che non finisce, che procrastina la tragedia fino a noi da un Ottocento di segno shakespeariano. D’altro canto è nell’Ottocento che Shakespeare si è imposto in Italia, mentre fiorivano i Salgari e i Verne, mentre il colonialismo perpetrava i suoi crimini tracciando infinite linee d’ombra.
Lo spazio, e i nove attori e le due attrici che interpretano più personaggi. Nei momenti collettivi, sembra di assistere a un musical, in sintonia con quello che Orson Welles trasse dal Giro del mondo in ottanta giorni, uno degli spettacoli più belli che Brecht dice di aver visto negli Stati Uniti. In azione Elfi di tre generazioni: efficacia e precisione, una macchina a orologeria carica di umanità e di bravura.
E poi c’è lui, Achab, ombra e presenza gigantesche da cui tutto sembra emanare: un personaggio assolutamente nelle corde di De Capitani, dalla cui potenza scaturisce a tratti un’incrinatura, una poesia sottile, che tanto più colpisce. Lo Ishmael di Angelo Di Genio c’è anche quando non c’è: il giovanotto che si imbarca per vedere il mondo e finisce per vivere la più straordinaria delle avventure in pochi metri quadrati, diventando testimone di un orrore di cui è complice. Partecipe e insieme straniato, come Cristina Crippa che interpreta la direttrice di scena della compagnia che dovrebbe mettere in scena Lear e invece si cimenta con Melville: all’inizio del secondo atto è lei che recita un brano del romanzo (non usato da Welles) sulla comunità solidale delle balene, sul loro canto.
E poi il commovente, folle Pip di Giulia Viana; lo Starbuck di Marco Bonadei, che “vede” più di tutti ma nulla può contro la follia di Achab; il carpentiere di Vincenzo Zampa, un autentico proletario; e lo straccione folle di Alessandro Lussiana, e poi Enzo Curcurù, Michele Costabile, Massimo Somaglino…
Lo spettacolo dal vivo mi fa vedere le relazioni fra di loro e la loro relazione con lo spazio. Certi momenti che nel video risultavano sopratono mi sembra diventino efficaci, puliti. Ma non è questo che conta: ora vedo, anzi sento che le relazioni avvengono fra i corpi e con l’aria in cui sono immersi nella fatale baleniera. Anche gli oggetti prendono vita. Quando il telo di seta chiara striata che fa da fondale diventa immenso e si agita e si gonfia e si sgonfia, facendo sembrare piccole le persone, è una balena più vera del vero che appare, non solo animale ma aria inquinata, vento che travolge, acqua che inghiotte, invisibile che afferra.
Alla fine come all’inizio, un richiamo metateatrale: pure il sipario che si chiude sembra aver partecipato dell’immane tragedia che si è consumata. Sappiamo che l’attrazione per certe esibizioni circensi nasce dal fatto che l’artista sta veramente sfidando la morte. Il fascino profondo del teatro è che il tempo scorre e passa e si consuma, come la vita, e dunque ogni volta lo spettacolo muore. Resta la memoria, ma è un’altra cosa.
Bibliografia
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