Aiutare l’allievo a ritrovare un tessuto di verità
Un ricordo di Massimo Loreto
“Quest’anno vorrei far lavorare gli allievi sui Caratteri di Teofrasto” aveva annunciato in un incontro di programmazione a inizio d’anno accademico e si era adombrato, nella sua suscettibile mitezza, per uno stupito “Su chi?” che gli era suonato come un’offesa diretta all’autore e indiretta a lui, Massimo Loreto, innamorato conoscitore della grande letteratura classica in cui si era laureato cum laude.
Su Teofrasto, poi, gli allievi del corso di dizione dell’Accademia dei Filodrammatici (di cui Loreto era titolare dal 2005) avevano lavorato con soddisfazione e profitto così come con soddisfazione e profitto i loro compagni di altri corsi si erano confrontati con la poesia erotica italiana dal Quattrocento ai giorni nostri o con le pagine dei grandi romanzieri dell’Ottocento, con l’Eliot di Assassinio nella cattedrale o con gli oratori di Roma e di Atene, tanto per esemplificare in un elenco vastissimo e variegato. Perché una delle doti di Loreto era l’ampiezza e la profondità della cultura; era difficile trovare un testo teatrale, narrativo o poetico che non avesse letto, spesso in originale, data le sua conoscenza di più lingue. E come tutti gli appassionati amava comunicare la sua passione, soprattutto ai più digiuni e sprovveduti a cui, nel suo corso o nelle sedute di lettura che teneva con Franco Sangermano, sapeva schiudere con garbo accattivante orizzonti sconosciuti o addirittura paventati.
“Lei l’ha letto il Macbeth?” mi chiese una volta un allievo, figlio di contadini meridionali, venuto a Milano con grandi sacrifici a inseguire un’istintiva passione attorale, aggiungendo: “È bellissimo, e Loreto me lo fa leggere ad alta voce, perché è ancora più bello”.
Proprio dall’amore e dalla cura per il testo nasceva per Loreto l’amore e la cura per la dizione, come arte, per usare le sue parole “di leggere o recitare un testo in modo da farne percepire interamente, a chi ascolta, la bellezza poetica o l’efficacia persuasiva”. E aggiungeva l’obiettivo “di aiutare l’allievo a ritrovare un tessuto di verità attraverso l’esercizio di qualcosa che si suppone artificiale e dunque, in quanto tale, opposto alla verità o, quanto meno, a una verità del quotidiano”. E qui vorrei sottolineare l’espressione “aiutare l’allievo” perché era la chiave del suo modo di rapportarsi e di insegnare. Era lucidissimo e acuto nel cogliere pregi e difetti, disincantato e ironico nel delineare la personalità degli allievi, ma sempre con un rispetto pieno di affettuosa considerazione. Disponibile e attento a favorirne la crescita, non si sovrapponeva mai ai loro tempi e alle loro caratteristiche: rigoroso ma compagno in un percorso.
In una bellissima riduzione teatrale delle Notti bianche di Dostoevskij, in cui il regista Lorenzo Loris aveva colto il sottotitolo Diario di un sognatore come chiave di lettura, Massimo Loreto, nella parte del vecchio sognatore che fa memoria di una vicenda d’amore di gioventù, aveva come partner una sua giovanissima allieva appena diplomatasi. All’inizio pensar di lavorare con un suo insegnante era stato per lei motivo di sospensione e di ansia, ma la capacità di Loreto di coniugare la confidenza paritaria da collega con il sostegno di chi sa comunicare esperienza e sicurezza le avevano permesso di dare il meglio e sentirsi realizzata pienamente nello spettacolo. Non per niente gli allievi usavano per Massimo l’appellativo di ‘maestro’, togliendo al termine ogni traccia del sussiego di cui talvolta qualcuno lo carica e riportandolo al significato originario di chi, esperto in un’arte, guida il percorso dell’apprendista e trasmette, con sapienza e umanità, una conoscenza e un vissuto.
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