Stelle fisse | Sylvano Bussotti

La geniale immediatezza

Pubblicato il 19/10/2021 / di / ateatro n. 180

Sylvano Bussotti

È trascorso troppo tempo, più di mezzo secolo: doveva essere la fine del 1968 quando ho incontrato Sylvano Bussotti. In quel periodo mi accadeva spesso di avere colloqui con giovani e anche anziani e affermati compositori, allo scopo di combinare, con il loro consenso e a volte la loro collaborazione, una presenza sulle pagine di una pubblicazione a grande tiratura destinata alla musica moderna. E c’era di mezzo anche una registrazione discografica, molto spesso da realizzare appositamente, data la scarsità di quel genere di musica nei cataloghi delle case discografiche. La reazione degli interessati era sempre, almeno per me, del tutto imprevedibile. Qualche accenno di soddisfazione, una volta o due addirittura entusiasmo… molto più spesso un marcato disinteresse, che tuttavia non si è risolto mai in un rifiuto a collaborare.

Sylvano Bussotti , The Rara Requiem (1969)

Con Bussotti, forse per l’istintiva coscienza di essere coetanei – siamo nati a distanza di pochi mesi – non abbiamo avuto alcuna difficoltà a intenderci. A lui è sembrato del tutto normale entrare in quella pubblicazione a dispense che ad altri suoi colleghi pareva addirittura diabolica, e non ha imposto un suo uomo di fiducia a cui affidare il saggio: gli ho proposto Claudio Annibaldi, e lo ha tranquillamente accettato. E così, un primo gradino era superato; ma ora doveva seguire il secondo, ben più delicato: scegliere la composizione da affidare al disco, tanto più che Bussotti non sarebbe stato solo, avrebbe dovuto condividere i trenta minuti a disposizione con la musica di un altro autore, György Ligeti, e questo poteva generare, nel migliore dei casi, qualche diffidenza.

Sylvano Bussotti, Solo da La Passion selon Sade (1968)

Era, come ho scritto, la fine del 1968, e soltanto un paio di anni prima era andata in scena a Palermo, e poco dopo a Stoccolma, La Passion selon Sade, il “mistero da camera” in cui gesto e suono sono strettamente uniti da un legame di ambiguità, uno sfasamento che diventa elemento costitutivo dell’azione scenica. Sul disco, a parte il fatto che ne avremmo dovuto utilizzare solo un frammento, non avrebbe funzionato, non è musica che può fare a meno della vista degli interpreti, del loro corpo, della loro posizione sul palcoscenico. Mi ero preparato ad affrontare il problema con tutta una serie di argomentazioni che ritenevo abbastanza solide.

Sylvano Bussotti, Siciliano (1962)

Ma no, non esisteva alcun problema, e di comune accordo scegliemmo Phrase à trois del 1960, che presentava anche il vantaggio di utilizzare soltanto tre strumenti ad arco (violino viola violoncello): uno dei miei compiti era anche quello di proteggere la cassa dell’editore. E poi, a Phrase à trois ero molto interessato, anche per un motivo assolutamente banale. Erano gli anni in cui imperavano titoli indecifrabili, quasi sempre in lingue straniere, titoli che difficilmente suggerivano un rapporto diretto ed esplicito con la musica a cui venivano collegati, un’abitudine che, devo dirlo, aveva poco contagiato Bussotti, ma che imbarazzava la mia natura tassonomica e incasellatrice.

Quel titolo, Phrase à trois – sì, è francese, ma Frase a tre, lo ammetto, non suona in modo altrettanto invitante – è esattamente lo specchio della musica a cui fa da titolo: tre strumenti, e una frase, una sola frase, che si ripete senza soluzione di continuità, arricchita, esornata, ampliata, resa voluttuosamente sensuale, e senza interruzioni, senza quelle lunghe pause tanto di moda in quegli anni, e così fastidiose nell’ascolto registrato che è privo della vista, ma non del rumore della puntina che scorre sui solchi del disco. Questioni che hanno poco a che fare con un giudizio estetico, ma che dovevo tenere ben presenti se volevo essere all’altezza del ruolo che mi era stato affidato – ossia lavorare per il “meglio”, ma tenere sempre in giusta considerazione il pubblico a cui mi rivolgevo. Questioni che, oltre tutto, e anche se non esplicitate, mi sembrano molto legate al personaggio Bussotti: particolarmente aperto a una sperimentazione senza remore, del tutto fedele a quella “totale libertà” che si legge in testa a un foglio di musica datato 2 febbraio 2008. E non solo quella libertà lasciata agli interpreti che tanto esasperava Bruno Canino alle prese con un doppio lavoro, ma libertà di fare: di fare molte cose, anche il pittore e il poeta, anche lo scenografo e il regista.

Sylvano Bussotti, MS 5270 (1969)

Voglio aggiungere anche un altro particolare per meglio definire i contorni del nostro colloquio, tornando su La Passion selon Sade. Era nata da pochissimo tempo, come ho detto, e se ne era molto parlato, e discusso, e certamente aveva messo il suo creatore particolarmente in vista, anche grazie alla presenza di un interprete come Cathy Berberian, che sicuramente non poteva passare inosservata. Con alle spalle un “evento” di tale portata, avevo temuto un interlocutore difficile, pensando alle reazioni di altri autori pur del tutto privo della medesima visibilità. Ma Bussotti, me ne rendevo conto, era di un’altra pasta, e mi sarebbe bastato analizzare con attenzione la sua capacità di mutare aspetto e figura e abito, per rendermene conto. Ma allora, nel 1968, il personaggio non era ancora del tutto afferrabile

Sylvano Bussotti, Fragmentations for harpist (2006)

Molti anni dopo, all’inizio del 1983, ho capito qualcosa di più, seguendo con molta attenzione la nascita del Trittico pucciniano alla Scala, quando collaboravo con Carlo Mezzadri, dell’Ufficio stampa del teatro, nella realizzazione dei programmi di sala. Bussotti, che era allora anche direttore artistico del festival pucciniano di Torre del Lago, era impegnato nella regia del Trittico e, per Gianni Schicchi, anche delle scene.

Cathy Berberian e Sylvano Bussotti

Mi è tornato in mente il mio lontano incontro con lui. Tutto, allora, si era svolto in un clima di grande franchezza, vorrei dire di lucidità. Si era reso conto del carattere dell’impresa che dirigevo, e vi si era adeguato con geniale immediatezza. Affrontando Puccini, il suo atteggiamento era del tutto analogo: una grande attenzione allo spirito delle didascalie dei libretti, un assoluto rispetto dell’azione dei personaggi in scena e, nel Gianni Schicchi, una quasi maniacale volontà di ricostruire lo spirito di una beffa trecentesca in una Firenze che lui, fiorentino, conosceva molto bene. E non posso fare a meno di pensare, con uno stato d’animo che assomiglia alla malinconia, come tutto questo sarà destinato a essere cancellato dal tempo, troppo legato alla sua figura, al suo aspetto fisico, al suo essere una sorta di sfaccettato Cherubino – secondo la definizione di Cathy Berberian – che suscita sogni e immagini che vivono soprattutto della sua inafferrabile presenza.




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InformazioniEduardo Rescigno

Eduardo Rescigno (Milano, 1931) è un musicologo, scrittore e commediografo italiano. Altri post