Una tenebra gravida di attesa
Il debutto di Ante Lucem del Teatro del Lemming
C’è una luce prima della luce, una tenebra gravida di attesa, una luce a venire. Ante lucem si riunivano i primi cristiani a pregare. Prima dell’alba si lasciano gli amanti per custodire nel buio il loro segreto luminoso. L’amore, la rivelazione, l’anelito a una trasfigurazione del mondo sensibile. Le poesie giovanili di Aleksandr Blok, raccolte sotto il titolo di Ante Lucem, sono notturne ed evocative di splendori misteriosi. Nel suo letto d’ospedale, dov’è costretto da mesi per un infarto, Dmítrij Šostakóvič le rilegge e, appena può riprendere a scrivere, vi si ispira per comporre le Sette Romanze op. 127, un organico da camera (violino, violoncello, pianoforte) sulle cui combinazioni inconsuete risalta una voce di soprano. Siamo nel febbraio 1967. Nella sua ultima stagione (morirà nel 1975), il musicista russo si rivolgerà altre volte alla poesia (comporrà su testi di Michelangelo, Marina Cvetaeva, Dostoevskij) con toni intimistici e un forte potenziale teatrale con il quale Massimo Munaro ha deciso di misurarsi per la sua nuova creazione insieme al Teatro del Lemming. In apertura del festival OperaPrima di Rovigo, Ante Lucem ha riscosso caldi consensi e ha mostrato un versante di ricerca del gruppo rodigino insolito e promettente.
La partitura musicale viene doppiata in scena da quella coreografica: tre figure femminili incarnano gli strumenti, mentre la voce di soprano trova corrispondenza in un attore che recita i versi di Blok. Una sorta di angelo vestito di rosso, presenza silenziosa ed evanescente, domina ogni sequenza dalla profondità dello spazio scenico, dove trovano posto anche i musicisti (Cristina Beggio soprano, Giacomo Rizzato violino, Edoardo Francescon violoncello, Andrea Mariani pianoforte). Il tulle trasparente che separa il pubblico dalla scena allontana la visione in una dimensione rarefatta, nebulosa, sulla quale la geometria di luci incide, sagoma, rivela corpi e movimenti. Con una precisione che consente di giocare, letteralmente, sul filo di lama quando, nella penombra, un raggio profila la katana brandita da un’attrice.
Mentre la musica giunge alla Tempesta («In una notte come questa ho pena degli uomini che non hanno riparo»), sul tulle vengono proiettate immagini dell’eterno dolore: dall’assedio di Leningrado (inevitabile pensare per contrasto alla dolorosa epica patriottica della Settima sinfonia scritta ed eseguita sotto i bombardamenti della città) alla Grande guerra, dai barconi degli immigrati a un orso polare che muore di stenti. In modo diverso dai suoi spettacoli estremi rivolti a un solo spettatore, il Lemming continua insomma a interrogare colui che definiremmo piuttosto “il partecipante”, a chiamarlo in causa, e nello stesso tempo continua a interrogare il teatro, “la sua natura, la sua funzione, la sua attualità”, come Munaro scrive nel recente volume dedicato al suo lavoro (La tetralogia del Lemming. Il mito e lo spettatore, Il Ponte del Sale, 2021).
Le evoluzioni dei performer si conformano, senza mai diventare didascaliche, ai ritmi talvolta forzati, più spesso dilatati, alle melodie costruite per contrasti, per dissonanze. Nel Canto di Ofelia, per esempio, le attrici si rincorrono come violino e voce s’intrecciano per tutta la romanza. Ipnotica è l’atmosfera in Eravamo insieme, in coerenza con la linea fantasmatica della voce che, scrive Mauro Mariani, è quasi ipnotizzata e sembra seguire come un lontano riflesso il tremolante e inafferrabile canto del violino.
Naturalmente l’attesa di una nuova luce, la speranza di un’uscita dalla notte verso una nuova alba non possono non far pensare all’attraversamento delle tenebre della pandemia. E la pandemia offre una immediata chiave di lettura dell’opera, che diventa così un augurio, ma anche un appello, a «quelli che sono nati in tempi oscuri» direbbe Blok. Non sarà facile distribuire uno spettacolo così stratificato di segni e scenicamente complesso, ma al Lemming intanto il merito di aver interpretato con la sua particolare scrittura scenica una pagina straordinaria della musica novecentesca:
«Oh musica! Che cosa sono le tempeste della vita,
se le tue rose fioriscono e risplendono!»
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