Stelle fisse | Giovanni Fabbri
Ovvero come produrre e vendere a dispense 10.347 pagine e 732 dischi in dieci anni
Era il 1962. A fine agosto, dopo qualche settimana di ansie e ripensamenti, ho rinunciato al mio impiego come assistente musicale alla Rai di Milano, resistendo con apparente impassibilità – ma dentro ero lacerato dai dubbi – alle parole di Emilio Castellani che mi disegnavano un tragico destino: “Se lasci la Rai, farai la fame!”.
Nella sua limitata visione di funzionario, aveva quasi ragione: per venti mesi, fino all’aprile 1964, sono rimasto nella condizione di disoccupato. Che non vuol dire “non occupato”. Anzi, ero occupatissimo, ma erano lavori che non mi facevano guadagnare nulla. Al contrario.
Con l’amico Ettore Proserpio, un geniale discografico, avevamo avuto l’idea – allora abbastanza originale – di vendere dischi per corrispondenza. Ma non dischi qualsiasi, quelli – molto pochi allora – che si trovavano normalmente nei negozi di dischi. Superando – non so come, quello era il campo di Proserpio – problemi di importazione, di dazi, di esclusive, li facevamo venire dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia. Avevamo anche creato una piccola rivista, “Le Voci”, per pubblicizzare e vendere i nostri dischi. Funzionava; e se avessimo insistito, avremmo potuto cominciare a guadagnare qualcosa, dopo aver consumato il piccolo capitale messo a disposizione.
Ma un giorno dell’aprile 1964, mentre stavamo preparando l’ottavo numero della rivista “Le Voci”, dedicato alla discografia di James Joyce, ricevemmo una telefonata. Una voce che si dichiarava essere della Fratelli Fabbri Editori ci convocava, separatamente, per un colloquio con il dottor Giovanni Fabbri.
Sapevo molto poco dell’attività di quell’editore e non mi era mai venuta la voglia di prendere in mano uno dei fascicoli a dispense intitolati Conoscere (1958) o Capire (1962), e in tutta fretta mi sono informato, anche se non era facile in quell’inizio di anni Sessanta. Ho scoperto che la casa editrice era nata nel 1948 con un importante libro del professor Rodolfo Margaria, Fisiologia, primo volume di una collana dedicata alle Scienze Mediche. E se poi erano nettamente prevalsi libri di testo per le scuole dell’obbligo e molta letteratura dedicata all’infanzia e all’adolescenza con grande spazio alle fiabe, il punto di forza della Fabbri era diventata la produzione delle dispense da vendere in edicola, iniziata in sordina nel 1959 con L’enciclopedia della fanciulla, poi arricchita nel 1961 con Capolavori nei secoli e nel 1963 con il monumentale I maestri del colore, diretti da Franco Russoli e Alberto Martini. Un’attività non proprio trascurabile, che tuttavia non mi interessava. Con questa idea, frutto di una superficiale informazione, mi sono presentato all’appuntamento con il dottor Giovanni, convinto che difficilmente ne sarebbe scaturito un rapporto di lavoro.
Quando mi sono trovato di fronte a lui, nel piccolo ufficio milanese di via delle Abbadesse, mi sono accorto che dovevo fare una rapida revisione di tutti i miei preconcetti. Il dottor Giovanni non era un anziano capitano d’industria molto indaffarato, seduto dietro una imponente scrivania, continuamente disturbato dall’ingresso di segretarie e con due o tre telefoni pronti a squillare contemporaneamente. Aveva soltanto undici anni più di me, mi ha accolto con un sorriso, e abbiamo cominciato a parlare seduti su due poltroncine poste davanti alla scrivania. Il telefono non ha mai squillato, e non siamo mai stati disturbati dall’ingresso di una segretaria.
Il dottor Giovanni – un poco troppo impeccabile nel suo doppiopetto gessato blu scuro, i capelli un poco troppo impomatati – mi fissava in uno strano modo: sembrava volesse impossessarsi di me, penetrando nei miei pensieri, ma nello stesso tempo mostrava di voler trasformare il nostro incontro in un semplice dialogo fra amici. Mi fece subito capire di essere molto contento di trovarsi di fronte a un professionista della musica, confessandomi che aveva studiato violino – e ancor prima del violon d’Ingres mi venne in mente Mussolini, e a fatica riuscii a mascherare un sorriso. La musica ci univa, e voleva subito approfittarne per farmi delle domande che da anni lo assillavano: era tutto vero quello che si diceva di Paganini? e come suonava Tartini? Quando mi chiese quale fosse il mio violinista preferito, non ricordo cosa gli ho risposto, mentre il “suo” violinista preferito era Aldo Ferraresi; e quando seppe che io lo conoscevo e avrei potuto presentarglielo portandolo lì, in via Abbadesse, mi parve – credo proprio di poterlo scrivere – mi parve in preda a un’emozione profonda. Lo avevo conquistato.
In realtà era lui che stava conquistando me. Dopo molti anni, ho maturato la convinzione che il dottor Giovanni ignorasse l’esistenza del violinista Ferraresi, ma si era informato e, scoperto che era mio amico, aveva messo in moto il meccanismo che sarebbe sfociato nella sua emozione, forse addirittura in una lacrima. Non ne ho le prove, ma sono sicuro che è andata proprio così. Una strategia: costruire un collaboratore devoto significa trasformarlo in un collaboratore fedele, e a questo punto lo si può pagare meno.
Dopo queste lunghe divagazioni – che in realtà non erano affatto divagazioni, eravamo già entrati nel vivo del nostro futuro rapporto di lavoro – abbiamo affrontato il motivo per cui ero stato convocato. Voleva pubblicare una Storia della musica in 169 fascicoli settimanali di 16 pagine, con disco allegato. Al disco avrebbe pensato il mio amico Proserpio, i testi e la redazione sarebbero stati affidati a me. Minimizzo, se dico che ero sbalordito? La proposta era talmente al di là di ogni mia immaginazione che avrebbe dovuto provocarmi ilarità, piuttosto che stupore; ma la buona educazione mi impediva di esternare queste sensazioni. Tuttavia ero lusingato e anche commosso dall’offerta, e scelsi di dirgli semplicemente la verità: che non potevo accettare quella proposta, perché non avevo mai scritto niente del genere, e avevo la certezza di non essere capace di affrontare un impegno così gravoso e, comunque, al di sopra delle mie forze.
La sua risposta non potrò mai dimenticarla: “Non si deve preoccupare, io so che lei è in grado di svolgere questo lavoro”. Avrei dovuto ribattere: “Scusi, ma lei come fa a saperlo?”. Invece, senza rendermene conto, entrai nel vortice della dispensa, e accettai l’incarico.
Come rifiutare? E tuttavia era un’impresa al limite del possibile. Eravamo in aprile, e nelle intenzioni dell’editore l’opera sarebbe stata in edicola in settembre. Avevo una settimana per fare un piano dettagliato dei 169 fascicoli, e quando venne approvato il dottor Giovanni mi diede altri quindici giorni di tempo per scrivere il testo del primo fascicolo.
Avevo in casa molti libri da consultare, avevo molti fogli di carta bianca da riempire di musicali parole, avevo una macchina da scrivere Olivetti Lexikon 80 progettata da Marcello Nizzoli, una scrivania dove appoggiare tutti questi fondamentali strumenti di lavoro. Avevo tutto, tranne la convinzione di poter riuscire nell’impresa. E così, vissi una settimana in preda a totale smarrimento.
Al settimo giorno, sento squillare il telefono: era lui, il dottor Giovanni in persona (non la voce della telefonista con un asettico “Le passo il dottor Giovanni”), era lui che mi chiedeva, con voce suadente e nello stesso tempo ferma e tranquilla, a che punto fossi con il lavoro. “Va abbastanza bene”, ho mentito con voce titubante, “ho messo giù le prime righe…” “Vada avanti tranquillo”, aggiunse lui, “ho completa fiducia in lei”.
E così, finalmente, mi sono messo al lavoro, e a quel primo lavoro ne sono seguiti molti altri, e soltanto qualche anno fa ho scoperto che proprio nel 1964, l’anno in cui nasceva la Storia della musica, la Fratelli Fabbri Editori aveva raggiunto il massimo del successo, con un catalogo ricchissimo, e un fatturato al di sopra di ogni più ottimistica previsione. Da quel 1964, anno dopo anno, il fatturato è cominciato a calare, ma le nuove produzioni a dispense non accennavano a diminuire. Fino al 1973 ho diretto sette produzioni con disco allegato, per un totale di 10.347 pagine e 732 dischi. E fra queste sette raccolte mi piace ricordare soprattutto La musica moderna, prefata da Igor Stravinskij, a cui hanno collaborato decine di musicologi e dove sono state messe su disco molte composizioni di autori che per la prima volta si presentavano a un pubblico così numeroso.
Improvvisamente – improvvisamente per me, del tutto estraneo a faccende finanziare – intorno alla metà degli anni Settanta il dottor Giovanni, insieme ai suoi due fratelli, ha venduto la casa editrice, e non l’ho più visto: sono rimasto molto male, perché da lui avrei preteso un saluto, e non uno sgarbo.
Ma non è vero che non l’ho più visto. Nel 2005 mi ha chiamato e, come se ci fossimo lasciati il giorno prima, mi ha proposto un nuovo grandioso progetto: monografie musicali sempre da vendere in edicola, ma con allegato non solo un disco, ma un film di 40 minuti da realizzare appositamente. Una follia! Ma, devo confessarlo, ci ho creduto; malgrado tutto ero ancora vittima di quello sguardo che mi fissava con un’attenzione indagatrice e nello stesso tempo affettuosa, apparentemente. Ho preparato due monografie, su Vivaldi e Beethoven, e per Vivaldi ho anche scritto una sceneggiatura. Ne ho parlato con Lionello Cerri, il dinamico proprietario del Cinema Anteo, e con il regista Silvano Piccardi, e insieme abbiamo portato al dottor Giovanni un preventivo di spesa ben definito in tutti i particolari. Dopo qualche giorno, il nostro ipotetico datore di lavoro non ha più risposto al telefono, gli uffici nei pressi di piazzale Lotto sono risultati abbandonati e, come era già successo trent’anni prima, è scomparso senza degnarmi di una spiegazione, o almeno un saluto.
Giovanni Fabbri è morto nel 2018. La cerimonia funebre si è svolta in forma privata, ma comunque non ci sarei andato.
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