Prima che una renna faccia pipì
A Bassano per Operaestate l’Atlante linguistico della Pangea di Sotterraneo
L’idea è curiosa: dare corpo sulla scena a un campionario di parole intraducibili provenienti dalle più disparate lingue del pianeta. Vocaboli che, pur esprimendo concetti complessi e universali, non esistono in altri idiomi. Inemuri, per fare un esempio, indica in giapponese “l’addormentarsi per breve tempo in un luogo pubblico”.
Nato nel pieno del lockdown, «mentre il teatro esplodeva dappertutto in forma di nevrosi collettiva», spiega un’attrice nel prologo, l’Atlante linguistico della Pangea è costruito, nello stile immaginifico cui ci ha abituato Sotterraneo, per frizioni e slittamenti di quadri scenici montati analogicamente, non con procedimento narrativo ma per concatenarsi di elementi visuali, sonori, performativi che si prestano a letture diverse. L’esito è anche questa volta ironico e colorato, ma senza la precisione esecutiva e la sorprendente stratificazione di sensi che si poteva apprezzare in Overload. Certo lì la scrittura scenica era cresciuta dal substrato fertilissimo dell’opera di David Foster Wallace. Ma anche le premesse di questo Atlante sembravano proseguire, da una prospettiva diversa, una riflessione sui processi comunicativi per una ecologia dell’attenzione: «Puoi davvero pensare una cosa se non hai le parole per dirla?» Su uno schermo appeso appaiono le parole intraducibili. Se ne trovano a centinaia in Internet, commentate e illustrate. Alcune evocative, altre inventate, altre ancora così forti da far pensare che Sotterraneo voglia persino – ipotesi dalla quale il gruppo fiorentino programmaticamente rifugge – trasmettere un messaggio: «Una persona è una persona solo attraverso gli altri» in bantu si dice ubuntu.
In effetti, alle difficoltà di comprendersi e relazionarsi proprio oggi che la pandemia di Covid 19 ha posto, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, un problema globale che richiede soluzioni globali.
Mentre la denuncia della progressiva scomparsa delle lingue minori, attraverso l’ascolto della voce incomprensibile dell’ultima testimone di un idioma già dichiarato tecnicamente estinto, apre (aprirebbe) squarci sui genocidi culturali in atto.
Bardati da campeggiatori del postmoderno, con zainetti sulle spalle e forniture improbabili che servono a costruire effimere strutture scenografiche, i performer tuttavia hanno altro da fare, scivolano via, e il loro lavoro rischia di essere illustrativo, doppiando (se va bene in anticipo) con le loro scenette la situazione linguistica proiettata sullo schermo.
Quello che si perde, in questi bozzetti di traduzione iconografica, è la complessità dei rapporti fra pensiero, realtà ed espressione linguistica. Le forme espressive adottate non sembrano all’altezza delle questioni filosofiche e antropologiche sollevate e, in questo senso, le parole proposte restano in realtà non tradotte nel linguaggio teatrale. E se tutto questo servisse a dichiarare l’inadeguatezza del teatro, a insinuarsi nelle faglie che si aprono tra le “parole” e le “cose”, tra il dire e il fare, lo spettacolo sarebbe forse meno frettoloso e compiaciuto.
Può essere divertente scoprire che Iktsuarpok nella lingua degli Inuit significa “il senso di aspettativa che ti spinge ad affacciarti ripetutamente alla porta per vedere se qualcuno sta arrivando”. Solo che se quattro attori mimano questa situazione avvicinandosi al proscenio e “guardando lontano” non è difficile attendersi l’arrivo di qualcuno. E infatti ecco che arriva dalla sala il quinto attore vestito da renna (ancora questi travestimenti con peluche!) e si mette a fare pipì mentre appare la parola finlandese che dice “la distanza che una renna può percorrere prima di fare pipì”. E poi tutti e cinque diventano renne danzanti sotto la parola tokka, che nella stessa lingua significa “branco di renne”.
O ancora: in giapponese tsundoku vuol dire “impilare un libro appena comprato insieme agli altri libri che prima o poi leggerai”, e vediamo una pila di libri formarsi alle spalle di un’attrice che elenca banalmente i titoli dei libri che ha comprato ma non ha mai letto. La pila di libri naturalmente rovina a terra quando lei ha terminato l’elenco. Più che analogico, insomma, uno spettacolo didascalico.
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