Mittelfest 1991-2001: ritratto di festival da giovane
I miei dieci anni a Cividale
Trent’anni fa nel 1991
Nel 1991 ho contribuito alla nascita di Mittelfest, con cui poi ho lavorato fino al 2001. È stata un’esperienza molto importante, coinvolgente e creativa, da cui ho imparato moltissimo.
Come Emmecinque-servizi per lo spettacolo srl, di cui ero amministratore unico, fummo interpellati da Giorgio Pressburger, regista, scrittore e direttore artistico del futuro festival (o più precisamente – allora – coordinatore della direzione artistica).
Emmecinque arrivava da esperienze internazionali e di festival per molti versi affini: avevamo contribuito alla ripartenza del festival di Chieri (1987 e 1988), curato e promosso mostre e rassegne nel quadro di festival e istituzioni (a Asti, Taormina, Fiesole ma anche Bruxelles, Stoccolma, Tampere, Londra..). Soprattutto, avevamo organizzato un progetto Italia-Unione Sovietica, con la prima rassegna di teatro russo in Italia (a Torino, con il Teatro Stabile), e italiano a Mosca e Pietroburgo (con l’ETI e l’Unione degli artisti dell’URSS): l’esperienza russa era iniziata nel 1989 e ed è proseguita fino al gennaio del 1991, il periodo della Perestroika.
Pressburger venne a trovarci a Milano e ci intendemmo subito. Era molto tardi – fine marzo, mi sembra – il festival era programmato a luglio, c’era il programma (nella sostanza), ma non la programmazione, molte promesse e neppure un contratto. L’impianto organizzativo era tutto da fare, gli spazi in gran parte da definire.
Ma c’era un’idea forte di festival e una potenziale “città festival”: una sfida imperdibile.
Nel corso di dieci anni, grazie all’intesa sulla linea generale e sul progetto culturale, i ruoli distinti di direzione artistica e organizzativa si sono integrati sempre di più. Con Pressburger per dieci anni ho molto discusso, ma penso a lui con particolare affetto e gratitudine: penso che senza di me lui non avrebbe fatto quel festival e alcune dei suoi spettacoli migliori (credo che lo ammetterebbe), ma io senza di lui, non avrei fatto niente di quello che sto per ricordare.
La Pentagonale, la Regione Friuli Venezia Giulia e Cividale
Il punto di forza di Mittelfest era la visione culturale, artistica e politica da cui partiva. L’idea era stata di Cesare Tomasetig, intellettuale, poeta (negli anni avrebbe seguito la sessione poesia del festival) e politico, rappresentante italiano nel club di paesi europei che da poco aveva preso il nome di “Iniziativa Pentagonale” (la futura “Iniziativa Centro Europea”): Austria, Cecoslovacchia, Italia, Yugoslavia, Ungheria.
Nella fase di avvio, il festival ha goduto dell’impulso e dell’essenziale supporto diretto del Ministero degli Esteri, che con il ministro Gianni De Michelis aveva intrapreso un’iniziativa diplomatica speciale di apertura dell’Italia ai rapporti con alcuni dei paesi vicini, appena usciti dall’area di influenza sovietica. In questo contesto serviva un chiaro e credibile messaggio “culturale”: coinvolgere la regione di confine come punto d’incontro tra i paesi coinvolti, significava sottolineare la vicinanza e le condizioni naturali che favorivano una crescita della cooperazione. Da qui nacque un forte impegno politico anche a livello regionale: Tomasetig riuscì a sensibilizzare la Regione Friuli Venezia Giulia sulla funzione che avrebbe potuto avere un (grande) festival culturale multidisciplinare internazionale.
Poi c’era Cividale, una piccola, bellissima città che ha visto passare la Storia e ce lo ricordava a ogni passo: a Giulio Cesare è dedicato il “foro” (dove avremmo impiantato l’ufficio informazione), allo storico longobardo Paolo Diacono la piazza che è il cuore della città (e del festival). I longobardi si incontrano anche in un monumento prezioso e unico, il Tempietto, e ai longobardi era stata dedicata una grande mostra nel 1990.
Città italiana, e friulana, Cividale è anche un po’ slovena: il confine è a pochi chilometri, nelle valli del Natisone si sarebbe poi fatto il festival delle marionette (collegato a Mittelfest, ma anche indipendente). Quelli valli evocano anche la rotta di Caporetto (Kobarit ora è in Slovenia), e nel 1998 avremmo programmato uno spettacolo nelle trincee del Monte Kolovrat (poi spostato al chiuso causa maltempo e fango).
In quel 1991 la Regione credeva fortemente al festival: era – e lo restò nel tempo – il principale finanziatore, e credo lo sia tuttora, nei primi due anni con risorse davvero importanti (e poi comunque consistenti) e – negli anni che ricordo – anche con l’impegno diretto e appassionato di dirigenti e impiegati nella preparazione e durante il festival.
Il Comune partecipava finanziariamente nei limiti delle proprie possibilità, ma il ruolo di supporto tecnico e logistico fu fondamentale e perfezionato nel tempo. Anche l’impegno della Provincia fu importante, soprattutto anni dopo, quando grazie al presidente Giovanni Pelizzo, mediatore e ‘collante’ tra forze locali, Mittelfest divenne un’associazione. Infine partecipava la Banca Popolare di Cividale, con convinzione, ma forse con un po’ di diffidenza rispetto ai programmi.
Nei primi anni la gestione amministrativa fu affidata all’ERT, Ente Regionale Teatrale, ovvero il circuito: una buona soluzione tecnica, anche per la gestione impeccabile del suo direttore, Rodolfo Castiglione, il nostro ragioniere.
Il Ministero degli Affari Esteri favorì i contatti istituzionali con i diversi paesi e determinò un’ufficialità che non aveva nessun festival in Italia (due presidenti della Repubblica all’inaugurazione! Cossiga e l’ungherese Árpád Göncz)
Questa ufficialità condizionò un po’ il primo programma, ma contribuì anche al prestigio internazionale del festival e molti contatti con istituti e ambasciate durarono nel tempo e furono negli anni un aiuto fondamentale per contributi ai viaggi, permessi e altro.
La missione e la direzione artistica
Il “coerente progetto culturale” di Mittelfest (per usare il gergo ministeriale e semplificando un po’) era un’area geografica. La missione era (ri)attivare relazioni e conoscenza, costruire un ponte fra est e ovest.
Il profilo del direttore Giorgio Pressburger era perfetto: ungherese e italiano, da anni a Trieste, vicino alla comunità slovena. Il suo cognome evocava la città di Bratislava. Era di cultura ebraica e parlava (almeno) 7 lingue. Ma la missione del festival aveva portato a immaginare per la direzione artistica una forma più complessa, che coinvolgeva cinque personalità di rilievo internazionale. Giorgio Pressburger era coordinatore e titolare della prima edizione, gli altri erano Tomás Ascher (ungherese: il più giovane ma già affermatissimo regista del Katona di Budapest), Jovan Ćirilov (per la Jugoslavia: critico e mitico direttore del BITEF di Belgrado), Jiři Menzel (in rappresentanza della Cecoslovacchia, affermatissimo regista della “Nuova Onda” e Premio Oscar) e George Tabori (autore teatrale e regista molto noto in area tedesca e non solo, rappresentava l’Austria, ma era a sua volta di origine ungherese). Per la musica era stato incaricato il maestro Carlo De Incontrera, grande esperto di quest’area, intellettuale raffinato: curò la programmazione musicale del festival fino al 2001 (non parlerò della musica in questi ricordi, perché Carlo è un organizzatore formidabile e totalmente autonomo e quel settore l’ho appena sfiorato). Con lui e con il suo staff tutto filava liscio: posso dire solo di aver imparato molte cose osservandolo.
I cinque direttori li ho visti assieme solo un paio di volte, erano tutti molto alla mano, ma non mi sfuggiva l’eccezionalità, il privilegio di lavorare con un gruppo simile. Tabori riuscì a dirigere la seconda edizione interamene dedicata a Kafka nel 1992, il terzo anno avrebbe dovuto toccare a Cirilov.
Fu subito chiaro che la missione richiedeva orizzonti temporali lunghi e operazioni complesse. Avrebbe comportato produzioni, coproduzioni e ospitalità. Si trattava di individuare e mettere a fuoco i temi, costruire relazioni, soprattutto osservare e studiare lo spettacolo in questi paesi, individuare le tendenze.
A Cividale passava la storia
Ma la storia non programma: mentre preparavamo il festival, Slovenia e Croazia rivendicarono l’indipendenza dalla Serbia (l’anniversario cadeva il 25 giugno).
A pochi chilometri da Cividale, in Slovenia, nei giorni dell’inaugurazione si sparava: era l’inizio della guerra dei Balcani. Un anno dopo la Jugoslavia non c’era più, negli anni successivi Mittelfest avrebbe collaborato con la Slovenia, la Croazia anche durante la guerra (ricordo Dubrovnik bombardata), la Macedonia, più avanti (quando tutto era finito o quasi) la Bosnia Erzegovina e il Montenegro. Fino all’ultimo non riprese la collaborazione con la Serbia, colpita da embargo.
Anche la Cecoslovacchia si divise in due, fu un processo doloroso ma per fortuna pacifico: dal nostro punto di vista (quello dello spettacolo), già nel 1991 avevamo stabilito relazioni e colto differenze sostanziali fra le due comunità teatrali.
Anche Jovan Cirilov, jugoslavo serbo, finì sotto embargo, e cominciò così a sfaldarsi il gruppo di direzione: mi dispiace ancora, Jovan era senza dubbio il più informato e ho continuato a incontrarlo in vari festival, apprezzato da tutti.
Soprattutto mi era sembrato, in quel 1991 – una impressione confermata negli anni successivi – che il teatro jugoslavo fosse un sistema unitario, da cui emergevano personalità fortemente innovative, anche se si potevano cogliere differenze e vocazioni stilistiche precise nei territori della confederazione: più visivo il teatro sloveno, più orientato alla regia quello croato, più povero ma vivace quello macedone, mentre a Belgrado, dove era sempre arrivato con regolarità il grande teatro europeo, sembravano convivere e scontrarsi la dimensione creativa e produttiva istituzionale con quella indipendente, molto vivace anche in Bosnia che suo malgrado stava per esportare talenti in tutta Europa (in quel 1991 Mittelfest ospitò il Teatro Tatoo di Mladen Materic, che non tornò a casa per anni, e nel 1992 Josef Nadj – serbo ungherese – in una produzione targata Francia).
Ma dopo pochissimo tempo, testi e persone ripresero a circolare e si potevano incontrare registi di Lubiana a Skopje (dove il teatro più interessante era assieme di lingua albanese e macedone, e Kusturica trovava i suoi attori di riferimento), e già nel ’96 artisti sloveni e croati a Sarajevo (ma non serbi). E tutti si trovavano – e qualche volta litigavano – nei caffè di Cividale.
Sul fronte italiano la storia nel ’91 era il picconatore Cossiga. Il suo arrivo a Cividale fu gratificante per le nostre autorità locali, ma molto impegnativo per noi, e anche un po’ comico: l’Arma e la Polizia si disputavano la sicurezza, così un piano studiato nei minimi dettagli con il vicequestore fu stravolto all’ultimo momento da un anziano generale dei carabinieri… All’inaugurazione, al fianco di Cossiga – che non disse in quell’occasione niente di memorabile – c’era, sorridente e abbastanza informale, il presidente ungherese Árpád Göncz, autore teatrale molto apprezzato. la sua Medea ungherese era il pezzo forte del programma e avrebbe inaugurato anche un modo di produzione di Mittelfest: lo stesso testo era rappresentato da cinque compagnie in cinque lingue e con approcci molto diversi su altrettanti palchi in piazza Paolo Diacono.
Tutta questa ufficialità (con cui non mi trovavo troppo in confidenza, ma per fortuna degli aspetti più delicati si occupavano gli amici della Regione) non aveva impedito un “pensiero” progettuale, coerente e originale. Non solo con Medea, ma anche nell’arrangiamento per bande dei cinque inni nazionali, a opera del maestro Luca Francesconi: il festival voleva essere anche popolare, e grazie alle bande quella inaugurazione lo fu.
La storia ripassò altre volte da Mittelfest: nel 1992, con Falcone e Borsellino, quando la notizia della strage di via D’Amelio ci arrivò durante le prove di Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal, e soprattutto con la guerra dei Balcani, fino alla pace di Dayton. E la storia passò con tutte le vicende che portavano la rosa dei nostri partner ad allargarsi: Ucraina, Moldova, Albania…
Alla fine di questo percorso (alla fine dell’infanzia di Mittelfest), i fatti di Genova. Era il 20 luglio 2001, l’inaugurazione dell’edizione numero 10 del festival. Stavamo andando in scena con 1991-2001, Dieci anni in Europa: quei 20 micro-drammi parlavano della storia del presente e del futuro dell’Europa, mentre l’Italia sembrava sprofondare di nuovo nel fascismo.
La nostra storia locale travolse Mittelfest subito dopo l’edizione dedicata a Kafka, curata da Tabori del 1992, determinando un anno di interruzione. Era scoppiata e passata la bufera tangentopoli. Le persone erano cambiate, a Roma, a Trieste, a Udine. L’atmosfera era diversa, non ricordo se la guerra nei Balcani facesse apparire il festival inopportuno o se il problema fosse soprattutto il costo della manifestazione. Non ricordo se ci fu un ragionamento profondo sulla sua funzione in quel momento, o se la Regione si fosse semplicemente disamorata del progetto. Comunque fu faticoso recuperarlo nel 1994. Nel frattempo nella primavera del 1992 ero stata nominata direttore del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia a Trieste: diedi il mio contribuito a quella ripartenza anche consolidando la collaborazione fra il Festival e lo Stabile.
Mittelfest non solo era possibile con budget ridotto a un terzo (più meno, mi sembra), ma poteva decollare, sviluppando con coerenza la sua visione, Negli anni successivi i titoli furono Guerra e Pace, Identità, Transizioni e infine Partire e tornare: la via dell’Ambra, la via della sera, la via del sale a cavallo del secolo (la pace sembrava consolidata, si tornava a viaggiare).
Gli spazi e le produzioni
Per quanto partito in fretta, l’impianto del festival era stato meditato e si era rivelato solido. Nei primi due anni, un po’ per caso, un po’ consapevolmente, si erano sperimentate modalità che sarebbero state messe a punto negli anni successivi.
Uno degli spettacoli di punta del ’91 fu la non stop della Divina Commedia dei Magazzini: fu nei sopralluoghi con Federico Tiezzi per la scelta degli spazi che maturò l’idea di un Purgatorio itinerante (cos’è del resto il Purgatorio se non passaggio?). Si scoprirono i luoghi che avremmo utilizzato negli anni successivi e soprattutto si scopri che la città di Cividale si valorizzava – acquistava un particolare significato – attraversandola. Il festival non poteva essere (solo) l’accostamento di spettacoli in luoghi deputati.
I festival sono un po’invasivi, ma i cividalesi apprezzarono da subito la formula, poi sempre reinventata, che chiamavamo “gli itineranti”: aprivano le case, prestavano i balconi, si sentivano ed erano protagonisti, con la loro città.
La produzione più impegnativa secondo questo formato fu “Danubio” di Claudio Magris, nel 1997: la città era il fiume, e lo spettacolo la percorreva. Ma prima, oltre alla Divina Commedia, c’era stata “America” di Kafka di Barberio Corsetti (nel ’92) e poi ci sarebbe stata “Praga Magica”, e infine “Dieci anni in Europa”.
Collocare un progetto in un percorso, in una serie di spazi che il pubblico attraversava, fu anche una formula felice per costruire coproduzioni, inventare progetti a episodi, coordinati ma che nascevano in tempi relativamente brevi con gruppi/registi diversi, italiani e dei nostri paesi (che nel frattempo continuavano ad aumentare, fino a diventare 17 nel 2001), e si ritrovavano a lavorare in diversi luoghi della città nei giorni precedenti il festival, giorni frenetici in cui davvero fondamentali erano gli assistenti e lo staff che seguiva le produzioni. Giorni spesso piovosi per la verità: la data del festival – l’ultima decade di luglio – era stata scelta con molto buon senso (statisticamente sarebbe la meno piovosa dell’anno), ma nella settimana precedente… pioveva sempre.
La scelta degli spazi principali (piazza Duomo, piazza Diacono, il Teatro Ristori, San Francesco…) era stata meditata e gli spazi abbastanza ben attrezzati. Gli spazi “minori” e i percorsi richiedevano invece soluzioni tecniche flessibili e ponevano non pochi problemi di gestione (dello spettacolo e del pubblico).
Ripensandoci ora, le nostre scelte trovavano un inquadramento perfetto nell’analisi dell’urbanistica della città romana – con tanto di cardo e decumano – e poi medioevale, su cui l’architetto Boris Poderacca (cividalese a Vienna) aveva suggerito di meditare. Podrecca aveva disegnato nel 1991 un sistema di porte, gazebo e pennoni che non vennero realizzati, ma i nostri spettacoli itineranti facevano proprio questo: riscoprivano l’impianto – e un po’ anche il senso – della città.
Danubio fu un progetto condiviso – di Pressburger e mio – con la regia di Giorgio. Fu il risultato forse più alto tra i progetti originali del festival. Il fiume attraversava la città, dalle incerte sorgenti al Cortile del Collegio, attraverso il ponte e il centro fino alla Stazione, dove si gettava “nel mar grando” sotto forma di treno, illuminato come il Rex di Fellini in un finale indimenticabile. Fu anche la nostra operazione più complessa, per la quantità dei collaboratori coinvolti (più di 100 tra attori, musicisti e tecnici), i registi e le compagnie associate, e per la durata: finì alle 2 e mezza di notte (con grappa offerta dalla signora Nonino), nonostante un taglio di almeno un’ora fatto dopo la generale (che per la verità non ci fu, causa maltempo). Fu un grande successo. Nessuno si accorse che avevamo saltato la Pannonia: forse solo Magris, ma lo ricordo commosso alla fine sul binari della piccola stazione.
Danubio fu particolarmente attrattivo e fu il picco della massima popolarità nazionale di Mittelfest, con attori bravi e generosi. Anche la Regione recuperò la sua piena adesione al festival.
Restando al formato itinerante, resta memorabile di Praga magica da Angelo Maria Ripellino (1999) l’attraversamento del ponte con un funambolo (il Ponte del Diavolo era il Ponte Carlo nel cuore di Praga).
Alla ripartenza del 1994, L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro di Peter Handke aveva per protagonista assoluta la piazza (paolo Diacono naturalmente).
Nasceva dal desiderio del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e del Teatro Stabile di lingua slovena, i due teatri pubblici della città di Trieste e della Regione, di realizzare per la prima volta uno spettacolo assieme, ma in spirito Mittelfest (le logiche di un teatro sono diverse da quelle di un festival e farle incontrare può essere molto stimolante). Peter Handke in questo testo senza parole (un’occasione unica) è solare e mediterraneo. Si dice che lo abbia scritto nella piazza di Muggia. Da un angolo di una piazza si osservano passare le ore del giorno, le persone di tutti i giorni, e poi la storia, e perfino il mito. Avevo visto la messinscena di di Claus Peymann al Burgtheater di Vienna per capire cosa non avremmo potuto e dovuto fare, e così costruimmo la nostra produzione: agli attori italiani e dello stabile sloveno si unirono allievi di sette accademie d’arte drammatica dei nostri paesi, che ricordo entusiasti a Cividale e Trieste. Fu un grande spettacolo corale, giovane, coinvolgente, le azioni erano accompagnate dal testo, letto come una lunga didascalia. Era molto più bello dell’edizione viennese.
La grande migrazione di Hans Magnus Enzesberger (1996) è un saggio breve e folgorante. Inizialmente avrebbe dovuto essere una lettura in seconda serata, poi Giorgio ebbe una delle sue intuizioni un po’ folli: divenne una complessa azione coreografica, che coinvolse partecipanti da tutte le nazionalità citate nel saggio (trenta persone coinvolte, che questa volta cercammo in zona) a fianco di voci recitanti prestigiose. Quell’anno il titolo del festival era Identità, e ricordo in prima fila la presidente leghista della Regione, Alessandra Guerra, per niente imbarazzata – almeno così mi sembrò – dalla nostra chiave di lettura del tema (mi sembra che i tempi siano cambiati).
I venti microdrammi di 1991-2001, Dieci anni in Europa segnarono il punto massimo di espansione geografica e produttiva: venti tappe in altrettanti luoghi della città, con venti autori e quattro registi. Già nella prima edizione si erano commissionati brevi testi, la proposta questa volta era di riflettere e scrivere molto liberamente un testo originale della durata massima di sette minuti. Il lavoro preparatorio fu un po’ affannato (eravamo in ritardo, come sempre), ma anche entusiasmante: coinvolgemmo alcuni autori giovani e alcuni molto noti, già amici di Mittelfest – come Tabori, Eszterhàzy e Magris – e perfino Vclav Havel, per un singolare adattamento cantato dei suoi discorsi. Ricordo con grande soddisfazione di aver convinto a scrivere anche Ismail Kadaré (al quale avevamo già dedicato attenzione in un precedente “progetto Abania” e che non aveva mai scritto per il teatro). Furono voci discordanti, anche scettiche e critiche: i processi in corso nei diversi paesi non erano omogenei, l’Europa non rappresentava valori acquisiti (e le notizie da Genova ce lo ricordavano). Ricordo in particolare due testi: quello della macedone Zanina Mircevska, sul paradosso dei confini, e quello di Biljana Srbljanovic con Marx che scende dal cielo a discutere con un attivista contemporaneo. Riuscimmo poi a pubblicarli, nelle lingue originali, in italiano e inglese, grazie al contributo dell’Istituto Austriaco di Cultura di Milano, che ci amava molto. Alcuni di quei testi furono poi riproposti in Polonia, e sarebbero ancora molto attuali.
Le ospitalità
Per quanto riguarda le ospitalità – penso soprattutto agli anni dal 1994 al 2001, quando contribuii a sceglierle – ci guidarono alcune linee precise: innanzitutto l’area geografica, possibilmente con attenzione a tutti i paesi (sempre più numerosi), non tanto gli spettacoli più “belli”, ma quelli che ci sembrava rappresentassero meglio quel momento e quel paese, dal punto di vista sia dei temi sia dei linguaggi: non era facile intercettarli, qualche volta era inevitabile fermarsi alle indicazioni ufficiali, ma ci provavamo. Senza essere tropo rigidi, seguivamo poi i temi/titoli del festival, scelti anno per anno.
Un altro punto fermo era non discriminare, nonostante le difficoltà linguistiche, il teatro “di parola”, con attenzione anche alle minoranze linguistiche (che sono numerosissime nell’area). Fra le minoranze, ma di certo non minoranza a Cividale e nell’udinese, c’era il friulano, cui si dedicò sempre molta attenzione, ma forse non abbastanza, almeno per alcuni ambienti locali
Rispetto al problema della traduzione, si optò per la simultanea in cuffia, anche grazie alla presenza a Tieste di buoni traduttori dalle nostre lingue: oggi si preferisce il display, ma sono ancora convinta di questa scelta, soprattutto per gli spettacoli all’aperto. Ma il problema si affrontò anche affiancando ad alcune ospitalità straniere letture e mise en éspace in italiano (fra l’altro Bernhard, Havel, Pasolini, di cui sostenemmo la prima messa in scena in croato).
Arrivarono così sia teatri nazionali sia compagnie indipendenti, che spesso uscivano dal loro paese per la prima volta.
Raramente invitavamo spettacoli che non avevamo visto di persona, ma ascoltavamo le indicazioni di festival e critici amici, e qualche volta ci orientavano le cassette VHS (non c’era ancora il web! o meglio non era ancora diffuso).
A Zagabria e Lubiana eravamo abbastanza di casa, ma ricordo anche viaggi a Varsavia, Cracovia, Praga, Bratislava, Nitra (molti suggerimenti ci arrivarono da questo festival slovacco), Skopje, Sarajevo (per fortuna, dal 1996), e poi Bucarest, Sofia, Tirana, Podgorica, Kiev, Chisinau. Alla fine tornammo anche Belgrado. Per dieci anni la maggior parte delle mie letture e i miei viaggi sono stati nell’Est europeo, e le vacanze in Istria e Dalmazia (tranne l’anno in cui mi sembrò inevitabile punire la bellicosa Croazia).
Nel 2002 tornai a Mittelfest da spettatore (per la prima e unica volta) a vedere Rwanda 94 con la regia del belga Jacques Delcuvellerie era imperdibile e si poteva vedere solo lì.
Ma cosa c’entravano il Belgio e il Ruanda con Mittelfest? Capii che il festival era cambiato, le direzioni non sarebbero più state probabilmente “al servizio” della sua missione, ma forse era vero il contrario (o forse le direzioni sarebbero semplicemente state più libere). Da conferenze stampa e dichiarazioni negli anni successivi, mi resi anche conto che tutto quello che avevamo fatto, i nuovi direttori probabilmente non erano interessati a conoscerlo. Spesso i direttori artistici non sono diligenti (lasciano se mai ai collaboratori e ai quadri organizzativi il compito di studiare), ma a mio parere, sempre, e in un festival soprattutto, non dovrebbero considerarsi “autori” ma “interpreti” di un identità e di una missione che – se c’è – li trascende.
Il pubblico
A vedere i nostri spettacoli c’erano i cividalesi, alcuni assidui, altri curiosi, e anche gli indifferenti, in linea di massima tutti consapevoli dei benefici anche economici che la città ricavava al festival.
C’era un pubblico di frequentatori di spettacolo da tutta la Regione, Trieste e Udine soprattutto, in particolare per i nostri progetti originali (erano particolarmente assidui invece per la musica: credo che De Incontrera si fosse coltivato sul campo in diverse sedi regionali un drappello di spettatori che lo avrebbero seguito in capo al mondo). Nessuna chance di avere turisti dalla costa: ricordo spedizioni sconfortanti a Lignano (dove il turista volevano tenerselo lì, soprattutto la sera). Pochi – ma qualcuno c’era – dal resto d’Italia e dall’estero. Nel complesso – se ricordo bene – si oscillava fra i 15.000 e i 18.000 spettatori, che non era niente male.
Ma si poteva migliorare, e rispetto al pubblico e al rapporto del festival con la città commissionammo una ricerca a Fitzcarraldo, perché fosse un’organizzazione esterna a valutare l’andamento.
Ma un festival internazionale si rivolge anche agli operatori, si propone di informarli, favorire incontri e stimolare scambi. Fra gli ospiti internazionali questo successe: direttori di teatro e di festival erano sempre presenti, e con loro un piccolo drappello di critici (avevamo consolidato una buona rete di relazioni).
Anche la critica italiana fu abbastanza assidua, ma limitatamente agli spettacoli di apertura e alle ospitalità che presentavano fattori di notorietà già acquisita. La pari dignità degli spettacoli per un festival è un presupposto di correttezza, ma è difficile da difendere: ricordo con qualche amarezza la difficoltà a trattenere critici amici, e intelligenti, per spettacoli che eravamo orgogliosi di aver scovato e che ci sembravano particolarmente rappresentativi.
Per quanto riguarda gli operatori italiani, in quel periodo Centro Europa e Balcani sembravano interessare soprattutto per conflitti e guerre (ma giustamente i nostri amici da quell’area non volevano parlare solo di guerra).
Insomma, c’era da lavorare ancora molto in quel 2001 sul pubblico (spettatori e operatori). Sono convinta che si potesse fare restando fedeli alla missione, consolidando con la qualità e l’originalità delle proposte la reputazione di Mittelfest fra i festival italiani e europei (obiettivi che richiedono tempo).
Ma penso che amministratori e ambienti locali volessero da noi più pubblico, e più pubblico voleva dire per loro proposte più “facili”, “popolari”, italiane eccetera. È una storia che si ripete: ho visto altre volte il rigore, o anche solo scelte culturali aggiornate e coerenti, fatte passare per eccessivamente elitarie, o per snobismo.
Queste aspettative rispetto al pubblico – e ai programmi – contribuirono alla mancata riconferma di De Incontrera e mia nel 2002, e di Pressburger dal 2003. Ma bisogna dare atto che dieci anni di lavoro in un festival sono molti, e cambiare era legittimo. Mi dispiace solo che non si prese in considerazione il progetto che presentai alla Regione (e che da qualche parte ho ancora) per trasformare Mittelfest in un centro permanente per i rapporti culturali fra l’Italia e i paesi dell’Est europeo (ricerche, traduzioni, produzioni, scambi e il festival come momento centrale ma non unico). La prima giovinezza era finita, questa trasformazione poteva rappresentare la maturità.
Fare il festival
Progetti, coproduzioni, ospitalità, programmazione… Ma per me il bello di Mittelfest era fare il festival. Quello che ricordo con più piacere è il lavoro di impianto (la definizione e il funzionamento dei settori), e anche i problemi operativi che solo in parte si potevano pianificare: quando si presentavano, li affrontavamo e si risolvevano uno per uno.
In un festival “intensivo” la cosa più delicata sono le fasce orarie, le durate, i passaggi, le compatibilità, ma anche i tanti aspetti che legano un festival al suo territorio: la chiusura delle strade, l’illuminazione da spegnere, il campanile da far tacere, le fontane da chiudere, il mercato da spostare… Tutto questo significava riunioni con il sindaco, con i vigili, e la collaborazione con la protezione civile (formidabile). E poi c’era la gestione degli spazi, lo spostamento di sedie e transenne, la turnazione delle squadre tecniche. E c’era la logistica: non solo alloggi e spostamenti, ma verifiche doganali, visti, permessi di soggiorno e naturalmente l’accoglienza (la “cura”) delle compagnie, incluso l’interpretariato quando necessario.
Dopo il 1994 tutto questo andò a regime, ma nei primi anni mi coinvolse totalmente: fu una sequenza di scoperte, verifiche e piccole continue decisioni, e anche di errori (di solito piccoli).
Noi di Emmecinque arrivammo a Cividale in tre – con me c’erano Giancarla Frisina e Alessandra Grossi – e coordinavamo nella misura possibile i diversi comparti e staff.
Alla direzione tecnica, che è la struttura portante di un festival, c’era il primo anno Graziano Pugnetti (dal 1994 prese in mano tutto Peppe Pizzo). Alessandra e Graziano ci avrebbero lasciato poco dopo (lei per una malattia fulminante, lui per un incidente in bicicletta), e a loro voglio dedicare un pensiero speciale.
Non ricorderò gli altri, tutti fondamentali, ma voglio nominare almeno Anna Maria Richter, punto di riferimento per i rapporti con la Regione e per innumerevoli e spesso delicati aspetti; e Nadia Cijan, giovanissima nel 1991, ma già molto brava, l’unica rimasta nel tempo, che rappresenta la continuità del festival ed resta il punto di raccordo con la città.
E poi c’era la biglietteria, e i servizi al pubblico.
E naturalmente c’erano i contratti internazionali – contratti creativi: non sempre facili da spiegare – e l’ENPALS, le convenzioni internazionali da verificare, le certificazioni da raccogliere. Ma anche di questo dopo i primi anni mi occupai sempre meno, ormai l’ERT di Rodolfo Castiglione, con le sue collaboratrici, aveva in mano saldamente tutto: a me restavano le trattative e – assieme a Rodolfo – la predisposizione dei bilanci.
L’unica cosa di cui mi occupai solo marginalmente fu la comunicazione e l’ufficio stampa (fatta eccezion per le prime schede e la raccolta dei materiali dalle compagnie).
Intorno a tutto questo si formò un gruppo di lavoro numeroso e agguerrito, che ebbe una formidabile occasione di compattarsi nel 1992 con l’arrivo dei “tedeschi”. L’edizione dedicata a Kafka fu memorabile. Fu una grande idea: non avremmo mai detto che si sarebbe potuto costruire tutto il festival intorno a un autore – anche se si trattava di Kafka. Ma Tabori si era portato un collaboratore, e con lui una piccola agenzia di Monaco, che aveva di noi l’idea che spesso hanno i tedeschi degli italiani: cialtroni e improvvisatori. E noi di loro ci facemmo presto la convinzione che fossero lì a pretendere e scialare. Fu uno scontro costruttivo: noi fummo stimolati a migliorare, i tedeschi furono costretti a giustificare fino all’ultimo centesimo.
Di tutto quel lavoro, di tutti quegli anni, conservo ricordi molto positivi, ma ammetto che sono molto brava a cancellare quelli negativi. Sono certa che non tutti ricordino con piacere – per esempio – le nostre riunioni giornaliere, quando si verificava la giornata precedente, si ricapitolavano problemi, si faceva il piano degli eventuali ripieghi al chiuso in caso di maltempo (che sono la croce – e il piacere perverso – dei festival all’aperto con data secca). So che quelle riunioni per molti erano un incubo.
Sono certa che per tutti Mittefest fu importante. Ricordo molte facce giovani e non, organizzatori, tecnici, stagisti e volontari. Ci furono anche molti amori – di alcuni so, di altri ho intuito e chissà di quanti non ho mai saputo – e gli amori, anche quelli brevi (“so di un amore che è durato un’ora e vero amore fu”, come dice Saba), sono un ottimo indicatore del success di un progetto, purtroppo non facilmente misurabile: significa che le persone, anche stanche, magari anche arrabbiate, desiderano conoscersi. E far incontrare le persone è la cosa migliore che possiamo fare.
Dei drammaturghi dell’area balcanica, del festival di Nitra in Slovacchia e di quello Wroclaw in Polonia ho scritto su Hystrio e Ateatro negli anni successivi:
Tre voci dalla ex-Jugoslavia: Slobodan Snajder, Zanina Mircevska, Darko Lukic
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