Leone d’Oro | Un teatro a misura di essere umano
Uno sguardo sul teatro di Krzysztof Warlikowski
Sabato 3 luglio, Krzysztof Warlikowski riceverà il Leone d’Oro alla Carriera nell’ambito della Biennale Teatro. Queste le motivazioni del riconoscimento:
“Da più di vent’anni Krzysztof Warlikowski è fautore di un profondo rinnovamento del linguaggio teatrale europeo. Utilizzando anche riferimenti cinematografici, un uso originale del video e inventando nuove forme di spettacolo atte a ristabilire il legame tra l’opera teatrale e il pubblico, Warlikowski sprona quest’ultimo a strappare il fondale di carta della propria vita e scoprire cosa nasconde realmente”.
Abbiamo chiesto a Katarzyna Woźniak un ritratto del regista polacco.
Il mondo guardato con gli occhi di (nato nel 1962) è un mondo all’indomani del crepuscolo degli dèi, in cui l’uomo è misura di tutte le cose, e questo fatto è allo stesso tempo la sua benedizione e maledizione. Sin dal suo esordio al Teatro Nazionale Stary Teatr di Cracovia nel 1993 (Markiza O. secondo Heinrich von Kleist), il regista polacco si rivela un attento osservatore del mondo contemporaneo e scrutatore dell’animo umano. Il suo intuito infallibile riesce a percepire il dolore e la stanchezza nati dallo smarrimento, dalla disgregazione e dalla decadenza, senza però giudicare. Sul piano artistico, fa tesoro della lezione dei grandi maestri di regia del Novecento, di Shakespeare e dei tragici dell’antichità per diventare un visionario del teatro di prosa e d’opera europeo. Per la sua formazione e l’appartenenza generazionale, è forse l’ultimo del grandi registi polacchi del teatro drammatico del Novecento.
Genealogia
Nato nel 1962 a Stettino, Krzysztof Warlikowski ha studiato storia, filologia romanza e filosofia all’Università Jagellonica di Cracovia. Prima di entrare all’Accademia di Teatro di Cracovia, parte per la Francia dove si forma presso l’École Pratique des Hautes Études a La Sorbonne a Parigi. Nel 1989 rientra a Cracovia per dedicarsi allo studio della regia.
Esordisce in un momento particolare della storia della Polonia e del teatro polacco: nel 1989 finisce il comunismo. I giovani artisti si devono misurare con una nuova realtà, e con una libertà inebriante che al momento sembra illimitata e incondizionata. Il teatro polacco è segnato da una generazione di registi caratterizzati da un forte individualismo, che hanno esordito proprio a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, che riconosce il proprio maestro nel regista e pedagogo Krystian Lupa (nato nel 1943): tra loro, Grzegorz Jarzyna, Piotr Cieplak, Zbigniew Brzoza, Anna Augustynowicz e, last but not least, Krzysztof Warlikowski.
In diverse occasioni pubbliche Warlikowski ha reso omaggio al maestro, conosciuto all’Accademia di Teatro di Cracovia dove aveva seguito il suo corso di regia sin dal 1989: Lupa ha indirizzato il suo modo di pensare al teatro e influenzato la sua poetica. Altri riferimenti importanti del teatro drammatico polacco per Warlikowski sono registi sempre legati a Cracovia, dove a cavallo degli anni Settanta e Ottanta aveva studiato filologia romanza, storia e filosofia: Konrad Swiniarski, Jerzy Jarocki, Andrzej Wajda. Avrebbe poi detto che in Francia aveva trovato interessante solo il teatro d’opera e il balletto. All’estero partecipa ai laboratori di Ingmar Bergman, Giorgio Strehler, Peter Brook e molti altri registi di fama internazionale (Brook l’avrebbe poi invitato a collaborare alla messinscena di Impressions de Pelléas da Pelléas et Mélisande di Claude Debussy alle Bouffes du Nord a Parigi).
Anche se all’inizio degli anni Novanta i critici in Polonia hanno visto in lui poco più di un audace epigono del maestro Lupa, Warlikowski ben presto ha elaborato un originale linguaggio scenico, che insieme alla sua sensibilità artistica e alla propensione ai temi controversi della vita sociale e della storia della Polonia contemporanea ne hanno fatto un riformatore coraggioso del linguaggio teatrale.
Unioni di vita e d’arte
Nel 1999 Warlikowski inizia la collaborazione con il Teatr Rozmaitości di Varsavia per il quale allestirà, tra gli altri, Amleto e La tempesta di Shakespeare, Purificati di Sarah Kane, Le Baccanti di Euripide e Angels in America di Tony Kushner. Nel 2008 fonda sempre a Varsavia Teatr Nowy di cui tuttora è direttore artistico. (A)pollonia, lo spettacolo d’esordio della compagnia si rivela uno scandalo e allo stesso tempo un successo clamoroso dell’ormai affermato regista.
Warlikowski è autore di diverse decine di allestimenti per il teatro di prosa e d’opera in collaborazione con la scenografa Małgorzata Szczęśniak, conosciuta negli anni Ottanta a Cracovia e sposata alcuni anni dopo, che crea “strutture per la sensibilità” di Krzysztof [Warlikowski]” (da un intervista a “Rzeczpospolita”). Warlikowski non ha mai nascosto in pubblico di essere omossessuale, ma è altrettanto vero che la Szczęśniak in un intervista alla rivista “Wysokie Obcasy” alcuni anni fa rivendicava il loro diritto a fare scelte di vita non condizionate dai giudizi altrui.
La felice unione di vita e d’arte porta agli spettacoli di Warlikowski il riconoscimento mondiale: è ospite di festival come il Fesitval d’Avignon, lo Edinburgh International Festival, le Wiener Festwochen, il Next Wave Festival BAM a New York e il Festival di Salisburgo (l’ultima volta nel 2020 per mettere in scena Elettra di Richard Strauss).
Un teatro a misura di essere umano
Due sono i grandi amori di Warlikowski: la tragedia antica e Shakespeare, anche se non gli si più negare un certo intuito negli allestimenti degli autori contemporanei (Tony Kushner, Sarah Kane e molti altri).
Razionale, calcolato, freddo nel mettere in scena l’antica tragedia, il regista non schiavizza gli attori con le convenzioni. I critici hanno indicato i tratti innovativi del linguaggio scenico di Warlikowski nel tono freddo, intellettuale e raffinato delle sue rappresentazioni. Invece le scenografie e i costumi moderni permettono al regista di attualizzare la tragedia, ma in un modo non banale e semplicista. Warlikowski non sposta semplicemente gli eventi del passato in una ambientazione contemporanea: nei suoi spettacoli, il tragico non è più il destino dei re ma della gente comune che è in chiara contraddizione con i presupposti dell’antica tragedia.
A sua volta, guardando i suoi allestimenti shakespeariani, lo spettatore deve misurarsi con il male irrazionale e onnipresente. Warlikowski rinuncia alla messa in scena delle emozioni per offrire visioni dei mondi in cui vivono i vari Hamlet e Prospero, smascherarne i meccanismi, l’imprevedibilità e il male che si annida ovunque. Ma lo fa sempre proiettando gli eventi della storia universale sulle vite individuali. PerchPé i protagonisti degli spettacoli di Warlikowski sono prima di tutto esseri umani. I loro ruoli biologici e sociali vengono solo dopo. E questo rende il suo teatro universale.
Tanti sono gli spettacoli memorabili: soprattutto Purificati (2001) e (A)pollonia (2008).
Purificati, tratto dai drammi di Sarah Kane (Purificati e Fame) è il frutto più maturo della poetica del primo Warlikowski. E’ ambientato in una specie di palestra-ospedalee si apre con un monologo di Renate Jett, in netto contrasto con gli avvenimenti macabri del testo. Renate Jett tornerà più volte nel corso dello spettacolo come una specie di coro solitario, a cantare contro la crudeltà di cui è permeato lo spettacolo. Il critico teatrale Janusz Majcherek ha collocato Purificati di Warlikowski tra il Cantico dei cantici, l’Inno all’amore e il libro di Giobbe (“Teatr” 2002, n. 1-2). Ha sottolineato più volte come Warlikowski fosse riuscito a individuare in Srah Kane la poetessa del dolore e su questa scia avesse rinunciato alla puntualità del gesto scenico. Servendosi della metafora e lasciando all’immaginazione dello spettatore il lavoro di interpretazione, ha proposto una visione scenica precisa e priva di emozioni, con gesti simbolici ma molto suggestivi. Gli attori, simulando perdita di arti o il gesto dell’impiccagione, non fanno finta di immedesimarsi nei personaggi. Con precisione e lucidità, Warlikowski racconta un mondo crudele e questa quasi impossibilità o incapacità di empatia si rivela crudelecome i drammi della Kane.
(A)pollonia, il primo allestimento di Teatr Nowy fondato da Warlikowski, ha debuttato nel 2008 con il sostegno di una co-produzione internazionale. Lo spettacolo è basato su testi, tra gli altri, di Eschilo, Euripide, Hanna Kral e John Maxwell Coetzee. Ci troviamo in una vecchia fabbrica di vodka: l’allestimento di Małgorzata Szczęniak fa pensare a un macello. Le protagoniste sono tre donne: Ifigenia, Alkestis, Apolonia, vittime del destino e di guerra. La visione di Warlikowski ribalta il pensiero occidentale sulla vittima sacrificale, come se volesse dire allo spettatore che le vittime non servono perché invece della redenzione portano altre vittime. Come se il mondo fosse una specie di un circolo vizioso di violenza. Ma non solo: è un mondo senza dei, per cui il sacrificio vale tanto quanto l’uomo riesce a farlo valere. Non vi è un’istanza suprema a cui fare appello. In questo mondo Ifigenia, Alcesti e Apolonia sono vittime volontarie o forzate della lotta per la sopravvivenza e per il potere. La prima è vittima di un padre convinto del valore dei sacrifici agli dei, la seconda è vittima dell’amore inteso come l’estrema rinuncia a sé stessi. L’ultima, Apolonia, una donna polacca vissuta realmente nella prima metà del Novecento, è il più problematico. Durante la seconda guerra mondiale, la donna nascondeva una famiglia di ebrei. Costretta a fuggire con il padre e i propri figli quando i nazisti vennero a scoprire il suo segreto, fu fermata e imprigionata. L’occupante fece a suo padre una proposta: se avesse ammesso di essere stato lui ad aver nascosto gli ebrei, avrebbe subito lui la pena di morte al posto della figlia. L’uomo non rispose. Warlikowski chiude il suo racconto, anche questa volta lucido, calcolato, privo di emozioni, con una serie di domande senza risposte. Non si sostituisce al sovrano: per Warlikowski nel mondo contemporaneo non c’è, o almeno non si intromette negli affari degli esseri umani.
La domanda più importante sembra questa: davvero possiamo dire che il senso della vita è sempre il sopravvivere?
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