Oltre il coronavirus | Parlare del gelato facendo finta che non si sciolga ovvero Dove è finito il pubblico del teatro

Come faremo a riempire di nuovo le sale?

Pubblicato il 08/02/2021 / di / ateatro n. 174

Su Sanremo e la questione del pubblico si è scritto molto, quasi sempre a ragione e con spunti interessanti in ogni intervento. Ho la sensazione però che non si colga il punto, perché è come se si volesse parlare del gelato facendo finta che non si sciolga.
Lo spettacolo dal vivo (e Sanremo si basa su un’esibizione dal vivo a tutti gli effetti, indipendentemente se poi si trasmette o si adatta a logiche più o meno televisive) si chiama così perché è svolto con la contemporanea presenza di due soggetti diversi che instaurano in un determinato luogo e spazio un rapporto necessario e inscindibile di reciproca legittimazione che lo fa nascere e che gli dà appunto vita, legando in un rapporto esclusivo e irripetibile in quel dato momento chi performa e chi ascolta.
Se si toglie una delle due parti non è più spettacolo dal vivo ma è semplicemente altro, e il fatto che venga ripreso e canonizzato con altre logiche su altri mezzi, non toglie in nessun modo il nucleo centrale della performance che rimane in ogni caso dal vivo, fosse solo perché è davanti a quattro cameraman.
Il punto quindi non è capire o discettare se Sanremo è uno show televisivo o meno e neanche rinverdire inutili crociate contro un grande volano della dell’Industria musicale nostrana, ma è sfruttare e cogliere quello che questa polemica ci mostra nella sua banale evidenza.
Per Sanremo e per tutto il nostro settore il pubblico è importante, fondamentale, imprescindibile.
E sì, va rimesso al centro, senza toglierlo a Sanremo ma anzi, ridandolo a tutti.
Ora, più che mai, senza passare da escamotage inutili ma tipicamente italiani come quello delle comparse (dove ancora una volta vale il detto che “fatta la legge trovato l’inganno” o ancora peggio che chi ha i soldi per i tamponi va avanti e gli altri si attaccano e son costretti a rispettare le regole perché le economie non glielo consentono) questa situazione ci permette di spostare finalmente il focus con forza: dalla bulimia di produzione al destinatario fondamentale che alla fine legittima il lavoro di tutti, sia di chi fa arte sia di chi la vende: il pubblico.
Un po’ l’avevamo capito anche prima della pandemia e già ne stavamo parlando: un sistema basato su una continua offerta sempre uguale a sé stessa o fondato per la sua esistenza economica in gran parte su parametri fortemente quantitativi alla lunga non stava producendo nulla di buono.

Nel teatro soprattutto ma anche in alcuni circuiti della musica classica e leggera il sistema era ed è ancora continuamente concentrato sulla produzione mentre andrebbe progressivamente bilanciato a favore di una massiccia azione di potenziamento della fruizione basata sulla domanda inespressa o ancora potenziale.
La pandemia e questa situazione di stallo per certi versi rivelatrice perché mette sullo stesso piano – ahimè vuoto di ascoltatori – il grande show televisivo e il piccolo club o teatro di prosa, è l’occasione per riprendere con più forza e con visione più ampia il tema troppo spesso teorico dell’Audience Development e delle politiche di accesso del pubblico.
Esaurita più o meno bene la fase dei ristori e avendo non certo un problema di contenuti o produzioni mancanti (a differenza forse del cinema, ma quello è un altro mondo) perché tutti scalpitano a riaprire e hanno titoli pronti nei cassetti da mesi, il punto nodale che dobbiamo affrontare con grande lucidità è come riempiamo le sale.
Sia tecnicamente, con quali protocolli e soluzioni logistiche, ma soprattutto numericamente visto che arriviamo da mesi di abitudine televisiva fatta di divani e serie full optional che a parte i pochi maniaci degli addetti al settore hanno notevolmente impigrito corpi e teste della gran parte delle persone.
È una riflessione complessa da fare ma va affrontata subito e vanno trovati al più presto degli strumenti per togliere la gente dalle case e riabituarci tutti alla socialità e al confronto “dal vivo”, una cosa tra l’altro, che serve come l’aria in questo momento cosi delicato per il nostro paese.
Non solo quindi va messo il pubblico al centro delle modalità di fruizione ma bisogna legarlo profondamente alle modalità di concessione dei finanziamenti e a campagne di comunicazione dedicate.
Come Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, ad esempio, ci stiamo interrogando e concentrando proprio in questi giorni insieme agli operatori del territorio, non tanto sulla produzione ma su come incentivare la domanda e stimolare il consumo.
Oltre a spingere per una riapertura immediata, quale è il modo giusto per aiutare la ripresa dei nostri organismi di produzione, se non quello di mettersi a fianco a loro e sostenerli nella sfida più difficile che si presenta fuori dal palco? Qual è lo strumento per richiamare nelle sale chi si è abituato a pensare allo svago esclusivamente come una comoda scelta tra le immense possibilità dello streaming o, peggio ancora, chi non ne ha mai viste o conosciute altre di alternative?
In questo senso forse i 10 milioni di euro destinati a un’altra piattaforma streaming di cui francamente non si sentiva il bisogno avrebbero avuto più senso per finanziare un progetto specifico di agevolazioni o favorire politiche attive per lo sviluppo di nuovo pubblico.
Per fortuna altre idee non mancano e se si vuole affrontare il problema seriamente cose da fare ce ne sarebbero parecchie, perché quella di rimettere al centro il pubblico è una sfida interessante e con ampi margini di azione.
Magari è la volta buona che ci immaginiamo strumenti nuovi e davvero efficaci, che superiamo ad esempio le logiche delle riduzioni ormai vetuste dei giovani e degli anziani (uniche due categorie secondo me con forte motivazione, tempo e per ragioni diverse pure “high spending”) e ragioniamo su cross marketing tra generi e settori, su meccanismi e abbinamenti tra prodotti inediti, su defiscalizzazione massiccia e comunicazione spiazzante e coordinata al pari di altri comparti.
Lavorare alla proposta Melandri, collegare il ticketing culturale al “Cashback”, investire in campagne e azioni trasversali all’intero settore culturale con alleanze inedite potrebbero già essere alcune cose di facile realizzazione e anche divertenti da progettare.
Al di là della retorica della bellezza, delle corse a chi riapre per primo, e delle singole ed encomiabili iniziative di alcuni illuminati, dobbiamo dirci infatti con grande onestà che il ritorno alle sale piene sarà lungo e non scontato, soprattutto per i piccoli e medi soggetti dei nostri territori.

La vicenda dei musei di questi giorni, tra riaperture, dubbi e richiesta di strategia a lungo termine, ce lo insegna. Il punto è la fruizione, il pubblico. Il punto è accogliere la domanda, tenerla alta, stimolarla e sostenerla e farla addirittura diventare generativa di altra domanda.
La pandemia ha mischiato tutto e anche su questo fronte abbiamo un’occasione unica e necessaria da cogliere: recuperare il pubblico vecchio e conquistarne di nuovo.
Solo così, attraverso l’interazione tra persone che condividono un’esperienza dal vivo, si potrà riaffermare il principio della partecipazione culturale come elemento fondamentale del benessere e della salute nella società contemporanea.




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