Stelle fisse | Giuseppe Ungaretti
La molestia dell'anziano poeta e l'impeccabile cameriera
All’inizio degli anni Sessanta, la RAI di Milano mandò in onda una serie di cinque trasmissioni televisive, nel tardo pomeriggio, sull’unica rete allora in funzione, che si chiamava Nazionale: Poeti nel tempo. Erano nate su iniziativa di Luciano Budigna, l’intraprendente responsabile della tv culturale. Quattro furono realizzate dal regista Gianni Serra e l’altra da Lyda C. Ripandelli, scritte da Luciano Erba, Roberto Sanesi e Raffaele Crovi. La musica era composta da me.
Per la puntata dedicata al poeta statunitense Carl Sandburg, avevo messo in musica i versi La notte è dura, creando un frammento di canzone jazz cantato da Nicola Arigliano. Scrissi la musica della Canzone canina del poeta russo Sergej Esenin, una filastrocca dal sapore popolare che venne registrata da Paolo Poli, ma alla quale abbiamo rinunciato, perché non soddisfaceva né l’autore né l’interprete. Gli altri poeti della serie furono lo spagnolo Manuel Machado, la cilena Gabriela Mistral realizzata dalla regista Lyda C. Ripandelli, e Giuseppe Ungaretti, l’unico poeta ancora vivente, che venne invitato a partecipare alla trasmissione.
Raffaele Crovi, l’autore del testo, aveva privilegiato l’Ungaretti del Carso. Avevo pensato di inventare frasi musicali da affidare a un contrabbasso. Mi sembrava che il suono di quello strumento potesse legarsi molto bene all’aspro linguaggio di quei testi e al timbro della voce del poeta, che avrebbe letto un paio delle sue poesie.
Ma non avevo calcolato bene i tempi. Per la registrazione avevo lo studio e i tecnici soltanto per due ore. Avevo consegnato i fogli di musica quattro giorni prima al contrabbassista, che forse non era adeguato al compito, o più semplicemente avevo inventato un testo troppo arduo, che avrebbe avuto bisogno di molte ore di studio. A registrazione ultimata, dovetti constatare che non solo l’esecuzione non era soddisfacente, ma il suono del contrabbasso era troppo invadente, troppo in primo piano, mentre ad abbassarne il volume perdeva consistenza. Insomma, non funzionava.
Bisognava risolvere il problema in fretta. Decisi di affidare quelle note, con qualche correzione, al registro grave del pianoforte, una specie di mano sinistra, che realizzai io stesso: funzionava. Io ero soddisfatto, e soddisfatto doveva essere anche Ungaretti, perché nei quattro giorni della sua presenza a Milano, dopo le ore di studio, lui, Sergio Miniussi, Gianni Serra e io andavamo a cenare in un piccolo ristorante di via Ciovasso. Lì, molto allegramente, facevamo tardi, parlando animatamente di letteratura, di poesia e di politica… ma anche di donne.
Non posso dire nulla sulla competenza, in quest’ultimo campo, dei miei due colleghi, ma certo la mia era molto modesta. Fra l’altro mi ero appena sposato e davanti ai miei occhi non avevo che un unico esemplare. Ma era lui, il poeta, a guidare la discussione, e si mostrava inesauribile di avventure, di particolari, di eventi. Ti fissava con gli occhi furbi e penetranti, e si piegava verso di te, come se dovesse farti una confessione molto intima e riservata, ma in realtà parlava ad alta voce, e gli altri avventori guardavano il nostro tavolo, non so se per la curiosità di ascoltare il corso di quelle avventure o per lo stupore di sentirle raccontare da una personalità che evidentemente riconoscevano, e non potevano pensare che parole così alate e fantasiose potessero essere destinate a un tema così lontano dallo stereotipo del grande poeta.
Ci serviva sempre la stessa cameriera, una ragazza molto giovane e davvero graziosa, attenta al suo lavoro e anche molto riservata. Non poteva non sentire quello che si diceva al nostro tavolo, ma non mostrava la più piccola partecipazione, un sorriso d’intesa o una smorfia di riprovazione. Insomma, era davvero professionale. Ungaretti, fin dal primo giorno, l’osservava con molta attenzione, e dentro di me temevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa. E infatti, l’ultimo giorno…
La ragazza ci aveva appena portato il dessert, quando Ungaretti le prese la mano e l’attirò a sé con cauta fermezza. “Ho settantacinque anni”, le disse quasi sottovoce e con una lieve sfumatura ironica. “Tu… verresti a letto con me?” Stava per accadere quel piccolo scandalo che ormai da tempo temevo.
Ma la cameriera sapeva stare al gioco: “Oh, ne sarei lusingata, ma… vede, non mi è possibile, non posso lasciare il lavoro”.
“Allora aspetterò la fine del tuo turno”.
“Bene, quando smetto, mi ripeterà la domanda”. E, sorridente, si allontanò dal nostro tavolo.
Ero preoccupato, e così lo erano, ne sono certo, anche i miei due colleghi. Ungaretti no. Sorrideva anche lui, ed era molto compiaciuto. “La ragazza è davvero intelligente, e sa come ci si deve comportare. Mi piace molto”.
I suoi occhi, attraverso le fessure delle palpebre, mi fissavano e sembravano volermi dire: “Tu che sei giovane, perché te ne stai lì, fermo? Muoviti, datti da fare… Ti pare logico lasciare a me l’iniziativa, a un vecchio… dai, così si deve fare…”
La cena si avviava alla conclusione e, dopo aver pagato, ci avviammo sempre chiacchierando verso l’uscita. Un attimo prima di varcare la soglia, Ungaretti si fermò e, avvicinatosi alla cameriera, le fece un inchino e le baciò la mano – in tutta serietà, senza neppure un briciolo di ironia. Poi, in silenzio, accompagnammo il poeta al suo albergo, e ci congedammo da lui. Non l’avrei più rivisto. Così come non ho più rivisto quel piccolo ristorante e la sua impeccabile cameriera.
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