Stelle fisse | Ruggero Ruggeri, Stelle Fisse
Un quindicenne, un carillon e il Grande Attore
Per qualche settimana mi sono sentito molto precoce: avevo appena compiuto quindici anni, e già lavoravo in un teatro. E non in un teatro qualsiasi: Era il Teatro Nuovo di Milano, quello guidato da Remigio Paone, dove già da qualche mese andavo, il sabato pomeriggio, ad ascoltare i concerti dei Pomeriggi Musicali appena inaugurati. Ma adesso, all’inizio del 1946, in quel teatro ci lavoravo, alla sera, per la stagione di prosa. Un piccolo lavoro, che è durato soltanto qualche settimana. Ma il semplice fatto di entrare dal corso del Littorio (facevo un po’ fatica a ricordare che ora sia chiamava corso Matteotti), di entrare dalla porta degli artisti, superando lo sguardo severo del portiere – ogni volta avevo l’impressione che mi avrebbe fermato come fossi un intruso, ma invece mi riconosceva e, con un gesto, mi dava il via libera – soltanto il fatto di servirmi di quell’entrata mi dava una bella soddisfazione. E non solo, a quella soddisfazione si aggiungeva il privilegio di una paga, forse modesta – non posso ricordarne l’entità – ma gratificante.
Il mio compito consisteva nel suonare, per ben due volte, una breve melodia da carillon su una celesta che si trovava fra le quinte, e nel fare esplodere, con la collaborazione di un attore della compagnia, quattro o cinque petardi che ci venivano forniti ogni sera dal direttore di scena. Il tutto fuori campo, s’intende, e in momenti molto precisi. Ricordo che, un paio di minuti prima dei miei tre interventi, si avvicinava il direttore di scena e mi faceva un cenno: voleva essere sicuro della mia attenzione, e forse temeva che, data la mia giovane età, potessi addormentarmi.
Un’impresa stuzzicante per un quindicenne, tanto che dopo settantacinque anni me la ricordo molto bene. Ma c’erano ben altri motivi per rendermela preziosa. La commedia era La luna è tramontata di John Steinbeck, ambientata durante l’ultima guerra in una piccola città di uno stato del nord Europa (diciamo la Norvegia?) durante l’occupazione di un nemico (diciamo i nazisti?), dove un anziano sindaco, apparentemente incapace di grandi gesti eroici, si fa portavoce del disagio e poi della rivolta dei cittadini che l’hanno eletto, e affronta la morte con la spavalda tranquillità dell’uomo giusto. Il protagonista – il Sindaco Orden – nonché capocomico, era Ruggero Ruggeri, allora settantacinquenne. Il regista Vito Pandolfi aveva un po’ modificato il copione a favore del capocomico, e il sindaco rimaneva molto a lungo in scena, a volte senza parlare, a segnalare la sua capacità di guidare gli umori e la rivolta dei cittadini non solo con la sua straordinaria voce appena sussurrata eppure penetrante, ma spesso quasi soltanto con la sua carismatica presenza. Fatta anche di gesti spesso ripetuti, come il controllo dell’ora segnata dal carillon della grande pendola in scena – il carillon affidato alle mie dita di quindicenne – estraendo dal panciotto l’orologio da tasca, un gesto tranquillizzante nel vortice di gesti e ordini e battere di tacchi degli ufficiali occupanti.
Non avevo mai visto e ascoltato Ruggeri, ma spesso i miei genitori me ne avevano parlato, e lo avevano ammirato nella Figlia di Jorio e nell’Enrico IV, e ora mi rendevo conto di cosa significasse essere un grande attore, osservando gli altri attori della compagnia che, scherzosi e così spesso vanesi quando sono fra loro, mostravano una rispettosa deferenza, quasi al limite dell’umiltà, al passaggio di Ruggeri fra le quinte. Gli altri attori… solo nel leggerne i nomi si resta sbalorditi da tanta ricchezza: Annibale Betrone, Margherita Bagni, Checco Rissone, Mario Feliciani, Gianni Santuccio, Renata Negri.
Come sempre succede in teatro, non tutto e non sempre filava nel migliore dei modi. Forse accadevano piccoli incidenti, di cui mi sfuggiva la natura, ma me ne accorgevo osservando le facce degli attori e del direttore di scena, su cui passavano brevi segnali di sgomento o pallidi accenni di complicità. Io stesso, insieme a Feliciani, ebbi un momento di terrore: avevamo già fatto esplodere i petardi, che segnalavano la fucilazione fuori scena di un operaio della miniera che si era ribellato agli ordini degli occupanti, e non ci eravamo accorti che uno dei petardi era rimasto inesploso sul pavimento. E nel bel mezzo di una scena in cui nessuno sparo si doveva sentire, lo stivale di uno degli occupanti fece esplodere quello rimasto inattivo. Impallidii insieme a Feliciani, e alla fine dell’atto fummo convocati da un Ruggeri furibondo. Altro che voce sussurrata: era una lama che ci colpiva duramente. Eravamo immobili davanti a lui, con la testa bassa. Poi Ruggeri guardò me: “Siete voi al carillon?”. Feci cenno di sì con la testa mentre mi aspettavo una seconda sfuriata. “Bene, sempre puntuale”, e ci fece un cenno di congedo. Non capii se era una constatazione e quindi un elogio, o un semplice avvertimento. Ma Feliciani mi tolse dall’imbarazzo: “Ci è andata bene”, e si allontanò. Ho poi sentito e visto Feliciani molte altre volte a teatro e in televisione, e non sono mai più riuscito a non vedere in lui sempre e sempre l’ottuso ufficiale nazista, capitano Loft, che era stato in quei giorni.
Nel corso delle recite, accadeva anche un’altra cosa, molto spiacevole, che metteva in imbarazzo gli attori della compagnia. Ruggeri all’inizio del secondo atto stava lungamente in scena in silenzio; poi, al suono del carillon, estraeva l’orologio, e doveva dire alcune battute. Ma più di una volta, durante la scena silenziosa, si assopiva, e Margherita Bagni (nella finzione scenica sua moglie) doveva, senza farsi accorgere, toccargli una spalla per farlo tornare fra i presenti. Piccole mende che si perdonano facilmente a un attore ormai molto anziano, che sarebbe morto nell’estate del 1953. Un attore che era ancora capace, uscendo di scena per avviarsi alla fucilazione, di darci una piccola gemma di recitazione: rivolgendosi al poco più giovane Annibale Betrone – nella commedia suo medico di fiducia: “Critone, debbo un gallo a Esculapio. Ti ricorderai di pagare il debito?”. “Il debito sarà pagato” gli risponde il medico. E così, con le ultime parole dell’Apologia di Socrate che forse il grande attore ha più volte recitato, Ruggero Ruggeri usciva di scena: sempre puntuale, mi verrebbe da aggiungere.
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