Nun me piace ‘o presepe ovvero I paradossi della critica di fronte al teatro sociale, di comunità, partecipato, interattivo…
I paradossi della critica di fronte al teatro sociale, di comunità, partecipato, interattivo...
Varie forme del nuovo teatro (da un lato il teatro sociale e di comunità, dall’altro il teatro partecipato) pongono allo spettatore – e in misura ancora maggiore a quello spettatore ideale che è il critico – una serie di questioni ne mettono in discussione ruolo e funzione, e che finiscono per investire anche chi assiste a uno spettacolo “normale”, lo spettatore passivo, che seduto comodamente in poltrona (o più scomodamente su una panca da terzo teatro) osserva quello che accade in scena.
Le nuove pratiche teatrali tendono a investire anche lo spettatore, spingendolo a diventare da un lato testimone, dall’altro partecipante attivo. Questi slittamenti alterano la posizione dell’osservatore, intrappolandolo in un doppio legame. Sappiamo (dal principio di indeterminazione) che è impossibile osservare un fenomeno troppo da vicino senza perturbarlo. D’altro canto, ogni testimonianza responsabile (e qui il punto di riferimento sono le memorie dell’Olocausto) presuppone in primo luogo un’esperienza poetica del linguaggio; inoltre il testimone deve garantire la verità della sua testimonianza, pur essendo consapevole della sua incompletezza.
Queste due spinte contrarie finiscono per mettere in discussione la possibilità dello “spettatore ideale”, l’osservatore distaccato di un fenomeno di cui rendere oggettivamente conto. In certe occasioni manca il distacco (il coinvolgimento), in altri casi entra pesantemente in gioco la responsabilità morale del soggetto (il testimone), nei casi migliori i due fenomeni s’intrecciano e sovrappongono.
Si creano così una serie di gorghi, o trappole, o paradossi, che rendono l’attività critica più complessa, difficile, affascinante. Forse impossibile.
Il peccato originale
Come la grandissima maggioranza degli spettatori di teatro, noi discendiamo da innumerevoli generazioni di italiani (magari con qualche innesto europeo), ci consideriamo colti, siamo mediamente benestanti (anche se l’impoverimento del ceto medio e la proletarizzazione degli intellettuali stanno cambiando il nostro ruolo sociale), godiamo di un certo benessere psicofisico (i problemi ci arrivano dal sovrappeso).
Insomma, siamo diversi dalle persone che vediamo sempre più spesso in scena negli spettacoli di teatro sociale e di comunità e dei loro derivati. Privilegiati, e dunque con un inevitabile senso di colpa.
In una prima fase, inconsapevoli, tendiamo a vedere le cose dal nostro punto di vista. Quando poi ci misuriamo con l’alterità, il rischio è quello di restare stregati dal suo fascino esotico.
Il ricatto delle buone intenzioni
Una volta il ricatto che intrappolava lo spettatore diceva: “Noi stiamo facendo cultura, stiamo facendo arte”. Buone intenzioni. Ottime. Ma che cos’è il più sublime capolavoro di fronte alla sofferenza di un bambino innocente? Chi si impegna a lavorare sulle diversità ha piena consapevolezza dell’eguale dignità degli esseri umani, lotta contro tutte le forme di discriminazione, emarginazione, disuguaglianza. Allevia le sofferenze, sogna un mondo migliore e più giusto, illuminato dall’amore e dalla comprensione, e ci dimostra che tutto questo è possibile.
Come posso parlar male di chi è animato dalle migliori intenzioni? Come posso essere critico senza diventare politicamente scorretto?
Il virus della felicità
Spesso questi spettacoli hanno un pubblico composto di parenti e amici di coloro che si esibiscono. Come nelle recite scolastiche, “ogni scarrafone è bello a mamma sua”. L’atmosfera è festosa, euforica. L’affettività prende il sopravvento, è contagiosa. Conoscersi, farsi riconoscere, riconoscersi tra attori e pubblico è un’esperienza meravigliosa. Se sono tutti così felici, come posso permettermi di avanzare dubbi e riserve? Sarebbe un atteggiamento offensivo, il tic dello spocchioso intellettuale.
L’effetto primo amore
Il primo bacio non si scorda mai. Così come la prima volta che siamo riusciti a pedalare senza cadere dalla bicicletta, o siamo saliti su un aereo… Anche l’arte contemporanea crea opere ed esperienze, che in un lampo riescono a mutare il nostro punto di vista sul mondo. Il ready made di Marcel Duchamp, Ceci n’est pas una pipe di René Magritte, il taglio di Lucio Fontana, gli specchi concavi di Anish Kapoor… Epifanie. Che nei laboratori teatrali si moltiplicano (e ripetono) incessantemente. Sono esperienze che hanno, per chi le fa, un profondo valore conoscitivo ed emotivo, e a volte addirittura politico.
Ma pongono due problemi. Il primo. Per chi l’ha compiuta, ha senso ripetere quel tipo di esperienza iniziatica? Può diventare una forma di training. Il secondo. Che valore ha quell’esperienza per chi vi assiste? Il suo significato profondo è anche comunicabile, e comunicato? (e qui andrebbe aperta una parentesi sui neuroni specchio…).
Il paradosso socialdemocratico
In queste forme di teatro insieme terapeutico e politico, si evidenziano spesso differenze che comportano difficoltà, discriminazioni, emarginazioni, esclusioni… L’obiettivo degli operatori è ovviamente quello di rendere evidenti meccanismi sociali che erano spesso occulti (e a volte inconsapevoli), per cercare di alleviarne gli effetti attraverso la consapevolezza collettiva. Insomma, farci accettare le differenze. Ma alla lunga – almeno per la maggioranza dei committenti – l’obiettivo più o meno consapevole è un altro: eliminare il problema spettacolarizzandolo, renderci tutti normali, annullare le specificità. Appianare il potenziale conflitto che l’attività di animazione è riuscita a rendere evidente.
Prima conclusione (provvisoria)
Queste sono solo alcune delle trappole, le più evidenti, che pongono allo spettatore-critico queste nuove forme teatrali. Vanno aldilà della differenza tra opera e progetto-percorso, anche se i vari problemi dello sguardo inevitabilmente s’incrociano, creando nuove complessità e complicità.
Posso provare a individuare un test, per capire quando posso dire che il presepe questa volta mi è piaciuto. In genere, queste forme di interazioni artistica dovrebbero mettere in crisi e ridefinire le identità di chi vi partecipa, più o meno attivamente. E’ insieme un processo conoscitivo (a volte terapeutico) e civile, sia per gli operatori (e i committenti), sia per i soggetti attivi (attori), sia per i soggetti passivi (spettatori). E allora, che che cosa resta quando si torna alla normalità? In chi ha progettato l’intervento e nei vati partecipanti? Come è cambiata l’identità dei vari soggetti? Si sono davvero messi in gioco? Fino a che punto? E’ questo il problema politico che dovrebbe sottendere lo sguardo critico, in queste occasioni. Va da sé che si deve trattare, in primo luogo, di uno sguardo autocritico.
Seconda conclusione (provvisoria)
La condizione dello spettatore (e del critico) cambia anche perché cambia la scena mediatica, e cambiano le modalità di interazione. E cambiano anche, a maggior ragione, il ruolo e la prospettiva del “critico teatrale”. Così come sfuma la differenza tra attore professionista e attore “di strada”, e quella tra attore e spettatore, sfuma anche quella tra spettatore e critico.
Quanti “Mi piace” avrà questo articolo su FB? Quanti retweet? Questo pensiero ha di sicuro avuto un effetto sul modo in cui ho scritto, e sul titolo che metterò (o qualcun altro metterà) al mio articolo. Un narcisismo esibizionista che contrasta duramente con qualunque serio tentativo di autoanalisi.
Terza conclusione (in arrivo)
Dall’archivio di ateatro Teatro della persona teatri delle persone (appunto sulla storia del teatro sociale e di comunità).
Tag: critica teatrale (85), retecritica (41), socialeedicomunitàteatro (2), teatro sociale e di comunità (97)