Dizionario2020 | Ripensare la distribuzione

Le parole chiave di vent'anni di ateatro: quali ci possono ancora servire?

Pubblicato il 18/05/2020 / di / ateatro n. 173

Questo testo è stato scritto nell’ambito del progetto Per un nuovo dizionario dello spettacolo dal vivo.

La distribuzione, tradizione italiana e le mutazioni recenti

La “distribuzione” per il teatro italiano è sempre stata molto più che una funzione: è un aspetto costitutivo della tradizione italiana, in grado di determinare linguaggi e scelte artistiche, di disegnare le mappe mentali di generazioni di teatranti, di condizionarne la vita materiale e sociale, la stessa antropologia.
E’ stato così dalle origini del teatro professionistico, per tutto il Novecento e fondamentalmente ancor oggi: anche se gli spettacoli non girano più come un tempo, la tournée resta fondamentale nell’immaginario della categoria. Lo si è visto con le recenti cancellazioni da Covid-19: il dolore per la cancellazione delle tournée che emergeva dai social è stato più profondo di quanto a volte meritasse il valore economico della perdita (individuale o di gruppo). La chiusura dei teatri e l’impossibilità di spostarsi è stata una ferita doppia. La tournée ha un valore simbolico, racchiude il senso al lavoro teatrale.
Senza le compagnie di giro (ovvero senza la diffusione a livello nazionale degli spettacoli), il teatro professionale, di tradizione o nuovo, il buon teatro tout court non raggiungerebbe tutto il paese: è il presupposto all’origine del finanziamento pubblico alle compagnie (l’articolo 3 si intreccia con l’articolo 9 della Costituzione) e – con accenti più impegnati socialmente – ha guidato il movimento per il “decentramento” che ha ridisegnato il sistema negli anni Settanta aumentando in misura esponenziale le “piazze” teatrali.
Nei decenni successivi la situazione è molto cambiata. Oggi molte compagnie vanno in tournée solo occasionalmente, molti spettacoli (spettacoli grandi e piccoli) restano in sede o fanno pochissime “date”, ma il sistema è tuttora percepito come nazionale. Sono sempre più numerosi i gruppi che si sono dati una sede (uno spazio pubblico, un luogo di lavoro o per laboratori), e che dunque hanno ritrovato radici, o hanno cercato di metterle. Altri hanno costruito collaborazioni che fossero il più possibile continuative, che potessero rappresentare un punto di riferimento.
Sono state spesso scelte organizzative ed economiche obbligate, ma hanno generato un sentimento positivo: la consapevolezza che la cura del “territorio” e del pubblico non è incompatibile con il nomadismo, anzi ne ha bisogno: perché il teatro è fatto di confronti e di incontri, di conoscenze in profondità e di scoperte.
E’ su questa base che bisognerebbe ora rimeditare sulla funzione della distribuzione in termini realistici e sostenibili.

La distribuzione su ateatro

Queste vicende e questi cambiamenti sono stati al centro di molte delle riflessioni di ateatro (del sito e dell’associazione). Si è analizzata la distribuzione come funzione in crisi: il complesso delle organizzazioni e delle modalità per mettere in contatto la domanda con l’offerta (quelle tradizionali ma anche quelle più recenti) risultava il segmento più discutibile della filiera, l’anello debole fra una produzione (qua e là) vivace e un sistema di spazi che soprattutto negli ultimi dieci anni ha visto trasformazioni spesso radicali (nella visione, nella gestione, nella formulazione delle proposte al pubblico).
L’intero progetto delle Buone Pratiche è nato nel 2004 dalla necessità di mettere a fuoco le alternative, di stimolare la differenziazione dell’attività, di dare visibilità alla creatività organizzativa, a pensieri e metodi nuovi in una visione allargata di “mercato”, in cui la diffusione degli spettacoli diventava una delle pratiche, ma tutta da ripensare: per molti ancora la principale, ma certo per nessuno ormai l’unica.
Negli anni, si è cercato di capire e di mettere a fuoco le caratteristiche e la dimensione della crisi. Può essere interessante e utile ripercorrere quei ragionamenti.
Nel volume che documenta i primi dieci anni del progetto, Le Buone Pratiche del Teatro. Una banca di idee per il teatro italiano, su 140 buone pratiche presentate ben 21 riguardano la distribuzione (esclusivamente o assieme ad altre funzioni) con alcuni punti in comune.

È uno dei segmenti della filiera più discussi alle Buone Pratiche, con numerose proposte da varie regioni d’Italia e il coinvolgimento di teatri, gruppi indipendenti, circuiti istituzionali e nuovi circuiti, formali e informali (molti dei quali si sono costituiti proprio in questo decennio). Si tratta di uno dei grandi nodi irrisolti nel nostro sistema teatrale, su cui hanno cercato di intervenire, con buona volontà ma non sempre con successo, numerosi progetti; il nodo si è complicato – soprattutto negli ultimi anni – a causa di problemi “etici” (la crisi economica compromette la correttezza dei rapporti), del mancato ricambio e della competenza di chi programma le sale. (pag.20)

In un contributo su ateatro.it del 28 febbraio 2004 Un altro mercato è possibile? (che è un po’ all’origine del progetto delle Buone Pratiche, che partirà pochi mesi dopo), Franco d’Ippolito raccontava il confronto con alcuni colleghi:

Convenimmo su un eccesso di offerta che stava annacquando ogni discorso artistico. (…) Ci chiedemmo se gli spettacoli per vivere dovessero per forza girare e rispondendoci di sì spostammo l’’attenzione allora su “quanto” e sul “e” devono girare, quasi a definire una specie di ecologia della distribuzione.

Sempre D’Ippolito, il 9 giugno 2005 in Che succede nel teatro italiano?, a partire dai dati della Borsa Teatro del “Giornale dello Spettacolo” dell’’Agis (un servizio di cui si sente oggi la mancanza), rilevava come

Su uno spaccato di 419 spettacoli che hanno totalizzato oltre 1.900 spettatori nella stagione 2004/05, solo 8 (appena l’1,9%) ha superato le cento repliche, mentre addirittura 243 (ben il 57,8%) non ha raggiunto le trenta repliche.

Un traguardo – questo delle 30 repliche – che a molti piacerebbe poter vantare oggi!
Fin dalle prime edizioni, gli appuntamenti delle Buone Pratiche hanno proposto riflessioni sul tema della sovrapproduzione, e su come fosse in gran parte collegata alle politiche ministeriali. Fra il 2000 e il 2003 il Ministero aveva ammesso 100 imprese in più ai finanziamenti (60 solo nel 2003), per poi ripensarci nel 2004, il primo dell’era Nastasi.Il nuovo direttore generale, fresco di nomina, aveva sentito la necessità di “ripulire il sistema di una parte eccessiva di innovazione”, anche perché “se non va il pubblico è difficile che il programma artistico sia di livello”.
Le nuove ammissioni, probabilmente incaute, non riguardavano che in minima parte l’innovazione, ma a partire da quella infelice uscita la selezione si è sempre più basata (se pur con criteri discrezionali) sui risultati quantitativi e su una presunta o reale “managerialità”. Non bisogna dimenticare che le compagnie pianificano la distribuzione degli spettacoli non solo sulle effettive opportunità di mercato, ma anche sui parametri ministeriali.
Nel frattempo il FUS continuava a calare. Il buon esito di pubblico come requisito principale nella scelta degli spettacoli, quindi la cosiddetta “chiamata” (soprattutto nelle programmazioni dei teatri comunali) si fa sentire molto negli anni a cavallo del secolo e sempre di più dal 2002 in avanti, quando – con molte differenze fra i territori – anche la spesa degli enti locali comincia a calare e gli incassi diventano sempre più determinanti anche per i teatri comunali e i circuiti (per un’analisi di questa evoluzione si veda il capitolo 3 in “Il teatro possibile” di Mimma Gallina, Franco Angeli 2005).
Anche le compagnie più solide (con alcune eccezioni) cominciano ad avere qualche difficoltà.

La bandomania

Per quelle giovani o “di innovazione”, sempre più numerose e non sovvenzionate, la situazione è sempre più difficile. Qua e là ci si comincia a porre seriamente il problema dell’emersione e della selezione. In un articolo del 2007 (Emergenza. Come valorizzare i giovani talenti?) la redazione di Ateatro, elencando e rilanciando i più recenti, riflette sulla grande quantità di bandi in circolazione.

E’ un elenco ampio e curioso. E sintomatico.
Sono iniziative diverse, ciascuna con i suoi obiettivi, le sue particolarità, i suoi modi. Tuttavia sono accomunate da alcuni elementi, che vanno sottolineati.
1. Questa proliferazione di bandi e concorsi riflette senz’altro la straordinaria e sorprendente vitalità della scena teatrale italiana (…) partono dalla constatazione dell’esistenza di un sottobosco ricco e fertile.
2. Testimonia inoltre che sono attive anche varie realtà ed enti che avvertono il bisogno di censire, scoprire e valorizzare nuovi talenti (…)
3. In questa situazione, la forma del bando pubblico pare oggi la più adatta, per chiarezza e trasparenza, rispetto ad altre forme utilizzate in passato dal nostro sistema teatrale (in sostanza la cooptazione corporativa, attraverso vari canali e modalità). Quella del bando è tuttavia anche una formula intrisecamente competitiva, che aspira a una sorta di oggettività che può anche voler significare normalizzazione, e dunque esclusione delle punte più eccentriche e forse interessanti. (…)

In quel 2007 stava scoppiando la “bandomania”. Ateatro ha intuito i rischi culturali insiti in questa modalità di selezione (su cui, pensandoci ora, poco si è poi riflettuto). Quando il fenomeno si è diffuso in misura esponenziale, ateatro ha avvertito la necessità di una riflessione più approfondita e professionale, affidata a Giovanna Marinelli in tre successive edizioni delle Buone Pratiche e attraverso contributi pubblicati sul sito e in volume (Il migliore dei bandi possibili, La migliore delle selezione possibili, e il capitolo “La migliore delle trasparenze è possibile?” nel volume Le Buone Pratiche del Teatro).

Che significato assume la parola selezione nel mondo della cultura in generale e in quello dello spettacolo in particolare? Chi si deve far carico della selezione? Perché e come va fatta? Va brandita come un arma o maneggiata come un oggetto delicato e scivoloso? E’ una bandiera o una gabbia? Esiste la migliore delle selezioni possibili?
Partiamo da Einstein: “Uno dei maggiori guai dell’umanità non consiste nell’’dei mezzi, ma nella confusione dei fini.”
Selezionare vuol dire scegliere gli elementi migliori o più adatti a un determinato fine. (…)
La Pubblica Amministrazione ha l’obbligo nello svolgimento di una selezione di verificare l’efficacia sociale della propria azione, non dimentichiamolo. Sappiamo anche che il punto critico della migliore delle selezioni possibili è la capacità di riconoscere/far emergere il “nuovo”. (…)
E’ però anche il tema antico del controverso rapporto tra selezione quantitativa e selezione qualitativa. I numeri sono oggettivi e si pesano, mentre la qualità è soggettiva e volatile… Ma il futuro è nelle idee o nei numeri? (…)
Da “La migliore delle selezioni possibili” (25/01/2013).

Giovanna Marinelli insiste sulla necessità che i bandi abbiano finalità chiare e soprattutto seguano alcuni requisiti:
a) trasparenza (dei fini e dei mezzi),
b) azione efficiente, efficace ed economica,
c) concorrenza e opportunità,
d) miglioramento del benessere (materiale e immateriale) della collettività.
E raccomanda “il selezionatore va selezionato con cura. insomma, dobbiamo esigere il migliore dei selezionatori possibili”.
Nel frattempo i bandi sono stati adottati sempre più spesso non solo per valutare progetti complessi come quelli lanciati dalle Fondazioni di Origine Bancaria, affidamenti di teatri o servizi eccetera, ma – sempre più spesso e praticamente sempre – per individuare gruppi e spettacoli emergenti, e persino per la semplice ospitalità di spettacoli. La pratica è così diffusa che i giovani tendono a credere che sia l’unica possibile o l’unica corretta.

Colli di bottiglia

In I colli di bottiglia della distribuzione (4 settembre 2017), Mimma Gallina sintetizza i risultati di un gruppo di lavoro che sta riflettendo sulla funzione distributiva, anche in preparazione delle Buone Pratiche della Distribuzione, che si terranno a Firenze, il 27 novembre 2017 (lo stesso gruppo, ovvero Patrizia Coletta, Maria Grazia Panigada, Anna Guri, Paolo Cantù, Stefano Salerno. Roberto Canziani, Roberta Ferraresi e Rosa Scapin, aveva nell’anno precedente approfondito la funzione dei circuiti e contributi sul tema: vedi anche il capitolo Teatri e circuiti: la funzione pubblica e la qualità nella programmazione di spettacolo in Oltre il Decreto. Buone pratiche fra teatro e politica, pagg. 102-118).

Sul fronte della selezione si sono diffuse, in crescendo negli ultimi dodici, forse quindici anni, modalità che hanno suscitato inizialmente grandi entusiasmi (almeno presso i più giovani): soprattutto i bandi, che prospettano pari opportunità (rappresentano la convinzione, o l’illusione, di essere tutti uguali al nastro di partenza).
Alcuni bandi hanno visto nascere reti nazionali di soggetti (circuiti, teatri) che hanno messo in comune la funzione della selezione, premiando i migliori con sbocchi distributivi (InBox, Anticorpi): pratiche positive, certo con molte luci, ma anche con qualche ombra che varrebbe la pena di analizzare, a maggior ragione se la tendenza è quella di replicare il meccanismo. La forma del bando si è diffusa capillarmente, diventando di fatto la principale modalità di accesso al sistema per i gruppi giovani e innovativi, sostituendo in molti casi (almeno a livello intermedio: medi-piccoli festival, medi-piccoli teatri comunali e innumerevoli iniziative private) la funzione principale della direzione artistica. Più che selezionare, questi bandi hanno ampliato le potenzialità apparenti del sistema, e lo hanno fondamentalmente impoverito, svuotando di valore economico il lavoro artistico giovane: a parità di requisiti, il “premio” può essere di 1, 10, 100, come in una lotteria.

Domanda e offerta
Lo squilibrio tra domanda e offerta non è un fenomeno recente, e non riguarda solo il teatro ma l’intero comparto culturale. Il mercato teatrale si era ulteriormente impoverito all’inizio degli anni Zero e la crisi del 2008 – innescata dal fallimento di Lehman Brothers – ha drammaticamente consolidato una tendenza già in atto, rendendo la situazione ancora più complessa.
Dalla Relazione sull’utilizzazione del fondo unico per lo spettacolo e sull’andamento complessivo dello spettacolo del 2018 (Osservatorio MiBACT) ricaviamo in proposito qualche dato significativo.

Per l’attività teatrale, il numero di spettacoli diminuisce di anno in anno dal 2007 al 2012, da circa 138,5 mila a circa 104,3 mila, dal 2015 è di nuovo maggiore di 105 mila, e nell’ultimo anno è pari a 107.990 (-0,81% rispetto al 2017 e -21,68% rispetto al 2006). Il numero di ingressi è nel 2007 pari a circa 18,8 milioni, il valore più alto del periodo, nel 2013 a circa 16,2 milioni, il valore più basso del periodo, e nell’ultimo anno è pari a 17.451.654 (+0,95% rispetto al 2017 e +1,93% rispetto al 2006).
vedi pag. 173 Figura 8.5 Italia – Attività teatrale: andamento del numero di spettacoli e del numero di ingressi (2006-2018)

Il numero complessivo delle rappresentazioni è il dato più significativo per inquadrare il rapporto domanda/offerta: il mercato distributivo nel suo complesso si è contratto del 21,68% in dieci anni.
Nonostante il calo sia già evidente, e forse occorrano forme di sostegno supplementare al settore, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti (governo Berlusconi), nel 2010 decide di sciogliere l’ETI. E’ una scelta inattesa ma molto indicativa e preoccupante anche per chi – come Ateatro – a quell’ente non aveva mai risparmiato le critiche.
Dall’origine (1942) agli anni Settanta inoltrati, l’Ente Teatrale Italiano si era occupato esclusivamente di distribuzione, affiancando poi la collaborazione con i circuiti, la promozione nazionale, in varie forme, incluso il supporto ad aree più deboli del sistema, e il sostegno agli scambi internazionali, con iniziative e aperture significative.
Negli ultimi anni l’ETI era diventato sempre più un braccio esecutivo del Ministero. Era molto finanziato, ma godeva di una percezione positiva da parte del sistema teatrale. Lo scioglimento – che non ha comportato alcun risparmio sostanziale – ha un evidente valore simbolico, visto che proviene dal ministro per cui “con la cultura non si mangia”, ma non prelude a un nuovo corso “liberista” nel rapporto dello Stato con il teatro.
In questo scenario, il pubblico (gli ingressi) segue all’inizio lo stesso andamento, ma poi sembra recuperare, se pure a fronte di un’offerta minore. Ma attenzione: si parla di offerta in termini di rappresentazioni (performances e non di spettacoli, ovvero di “titoli” (shows).
Non abbiamo dati sul numero degli spettacoli andati in scena, quindi non sappiamo quante rappresentazioni mediamente abbia totalizzato ciascuna produzione. Ateatro ha ricavato però qualche elemento parziale nella ricerca “L’impatto del decreto sull’area della stabilità”, nel quadro del percorso Oltre il decreto (pp. 119-145). Fra il 2014 e il 2015 (primo anno del Decreto 1° luglio 2014), le produzioni di Teatri Nazionali e Tric sono passate da 280 a 373, con una media di 12,8 rappresentazioni per ciascun spettacolo di produzione nel 2015 (non erano molte di più per la verità nel 2014: 15,5, ma su un numero di produzioni molto più contenuto). Sempre per Nazionali e Tric, le ospitalità aumentano in termini di numero di spettacoli, passando da 1023 a 1114, con un incremento dell’8,9%; tuttavia calano in termini di rappresentazioni, da 3416 a 3292, con un decremento del 3,6 %
Fra i settori e all’interno dei settori per la verità i comportamenti sono molto diversi, ma un dato pare indicativo: il numero medio di rappresentazioni degli spettacoli ospitati da Nazionali, Tric e Centri (l’area più strutturata del sistema, organizzazioni prevalentemente basate in capoluoghi di regione o città di media grandezza) è di 2,8 repliche a spettacolo.
Cosa è successo? Cosa fotografano questi dati?
Prima di emanare il Decreto che disciplina il triennio 2015-2017, il MiBACT non può non aver riflettuto sui dati che lo stesso Osservatorio ministeriale elabora a partire da dati SIAE di anno in anno. Probabilmente il MiBACT ha ritenuto che la contrazione del mercato andasse accompagnata (più che contrastata) da una selezione particolarmente dura. Lo ha fatto in primo luogo alzando l’asticella dei requisiti produttivi minimi, soprattutto ai Teatri Nazionali (cui si chiede un attività di quasi tre volte superiore a quella dei vecchi Teatri Stabili) e ai TRIC; e in secondo luogo ha deciso di dare particolare valore ai risultati quantitativi e di performance (la qualità indicizzata). La selezione darwiniana però – l’attesa eutanasia – non c’è stata: i teatri hanno scelto di resistere, di difendere il loro posto alla tavola dei contributi, aumentando e frammentando la produzione (fatta eccezione per un paio di teatri, le lunghe teniture si sono rivelate un’utopia).
Non bisogna dimenticare che teatri e compagnie pianificano la propria attività, la programmazione in sede e la distribuzione degli spettacoli non solo sulle effettive opportunità di mercato, sugli obiettivi o le richieste del pubblico, ma anche (e a volte soprattutto) sui parametri ministeriali. La “managerialità” (la sana gestione) può significare perseguire il minor danno economico possibile rispetto a dimensioni quantitative irrealistiche o che non corrispondono alla progettualità dei singoli teatri.
Anche le compagnie (le imprese di produzione di tutte le tipologie) hanno aumentato le (piccole) produzioni, differenziando l’attività, dando vita a progetti territoriali, coproducendo (spesso fra loro) e accelerando il processo di stabilizzazione.
La ricaduta è stata devastante in primo luogo per gli attori, aumentandone la precarietà. Ha avuto inoltre evidenti conseguenze anche sui formati (e forse sulla qualità) degli spettacoli.
Le prescrizioni del MiBACT nel quadro di quel Decreto sono particolarmente condizionanti anche rispetto alle organizzazioni cui è attribuita la funzione più rilevante in termini di distribuzione pubblica, i Circuiti Regionali, che operano con particolare riferimento alle aree non metropolitane.

Il ruolo dei circuiti

Sono molto chiare in questo senso le considerazioni di Patrizia Coletta, direttore di Fondazione Toscana spettacolo nel suo intervento alle #BP di Firenze, Distribuzione | I Circuiti tra rischio culturale, rischio d’impresa e rischio di fruibilità.

Ci rivolgiamo a comunità diversificate, che nella maggior parte dei casi dispongono di un solo teatro (…). Significa concentrare in un unico cartellone – che in una media complessiva non supera i 10 titoli – un mix di tradizione, innovazione e rischio culturale, creando un efficace equilibrio tra questi elementi: dal punto di vista culturale, di giusta fruibilità, e non ultimo, dal punto di vista economico.
Mi spiego: il circuito, a differenza delle agenzie, opera per sviluppare pensiero e progettualità interpretando le istanze del territorio, cercando una sintesi tra la necessità di avere la giusta affluenza (altrimenti – all’interno dei consigli comunali – le opposizioni ritengono il teatro superfluo e dispendioso, in relazione ad altre “urgenze”) e la necessità di stimolare curiosità nello spettatore. (…) Per raggiungere quindi la più ampia affluenza e fruibilità, per i Circuiti è ancora importante avvalersi anche del “nome (o titolo) in ditta”.

Coletta ricorda che, per quanto riguarda il FUS, spingono verso queste scelte,

anche gli indicatori della qualità indicizzata del D.M 27 luglio: i Teatri Nazionali, i Teatri di rilevante interesse culturale, le Imprese e i Centri di produzione non hanno più l’indicatore dell’”ampliamento del pubblico” e dell’”incremento del tasso di utilizzo delle sale”. I Circuiti e gli organismi di programmazione sì.

Ne consegue che un circuito, se ben amministrato, per non rischiare di essere penalizzato sul piano dei contributi, deve limitare le scelte più innovative, anche se necessarie nel quadro della funzione di promozione e formazione del pubblico.
Sono stati frequenti nel tempo alle Buone Pratiche gli interventi dei direttori dei Circuiti, da un lato entusiasti e appassionati rispetto alla loro missione, ai progetti e all’attività di rete che in questi anni sono comunque nati, dall’altro frustrati per le limitazioni, i mancati o inadeguati riconoscimenti della funzione multidisciplinare, gli appesantimenti procedurali.

Le Residenze

Anche le Residenze, fra le novità di questa ultima generazione di Decreti, sulla base di accordi di programma fra Stato e Regione, sono state molto condizionate dalla rigidità delle normative e dall’oscillazione fra il primo e il secondo triennio: durata delle permanenze, produzione si o produzione no, ospitalità si o forse no, meglio non troppo… Nonostante questo si sono affermate come una rete importante, imprescindibile per il sostegno ai processi produttivi e alla circolazione degli spettacoli di ricerca (Ateatro ha accompagnato nel tempo l’evoluzione delle residenze nei diversi territori mettendo a fuoco le differenze e la versatilità).
L’analisi di Fondazione Fitzcarraldo, relativa alle residenze selezionate dall’articolo 45 del decreto 2014 (resideneartistiche.it, citato nel documento delle Residenze alle Buone Pratiche 2017), ci dice che

– gestiscono 176 spazi (in prevalenza medio/piccoli e non solo strettamente teatrali);
– producono l’ 8% degli incassi SIAE del 2015;
– il 34% di ricavi delle residenza sono generati da biglietti (nel settore sono le strutture con la maggiore percentuale di incassi di pubblico);
– il 40% di risorse umane ha meno di 35 anni.

Patologie, diagnosi, terapie

Riprendiamo le fila con la già citata a riflessione collettiva “I colli di bottiglia della distribuzione” del 2017

Non tutto è colpa del Decreto e della contrazione delle risorse pubbliche, ma indubbiamente in questi tre anni alcuni processi degenerativi in atto nel sistema distributivo sono precipitati.
(…) è risultato più facile e premiante iper-produrre che rilanciare la distribuzione.
Nell’area più giovane, innovativa e non finanziata (almeno non a livello statale), l’attrazione che il teatro riveste presso i giovani (un elemento da considerare in sé positivo) si intreccia con il problema più generale della disoccupazione giovanile (in assenza di sbocchi, perché non il teatro?), con la dispersione e l’assenza di politiche coordinate nella formazione, con l’inadeguatezza dei meccanismi di selezione.
L’iperproduzione ha contribuito a una trasformazione radicale delle “stagioni”, soprattutto in città come Milano ma non solo: teniture molto brevi per gli spettacoli ospiti, ospitalità spot, micro-festival diffusi, presenza pervasiva (ma dispersiva) di produzioni delle organizzazioni stabili, assenza di investimento sulla durata.
Quasi tutti i partecipanti all’incontro hanno sottolineato come la (o la principale) soluzione sia nel pubblico: il pubblico come risorsa economica, come comunità di riferimento, come unico soggetto in grado di legittimare una funzione in crisi (…)
Restando sul terreno economico, una volta abbordato il tema della selezione, il problema più grave è l’assenza pressoché totale di adeguati sostegni alla produzione dei gruppi giovani più meritevoli. A meno che non concretizzino rapporti di coproduzione di non facile gestione con organizzazioni istituzionali, o collaborazioni alla produzione con i festival (che si stanno a loro volta impoverendo), i gruppi non riescono a reperire sul mercato (quello distributivo tradizionale o quello dei bandi) il plusvalore necessario a coprire i costi produttivi. In questo senso anche la funzione delle Residenze si è dimostrata ambivalente: il sistema offre spazi e opportunità, ma quasi mai risorse. In questo modo, un’intera generazione sta uscendo dai meccanismi consolidati della filiera produzione/distribuzione teatrale tradizionale, senza avere avuto a oggi la possibilità o la capacità di costruire un’alternativa professionale (ovvero “professionistica”).

Dal gruppo di lavoro, dalle testimonianze di tutti, è emerso anche come esista un’arte del programmare e un’arte del distribuire: anche queste competenze si stanno perdendo, mentre andrebbero formate e alimentate.
I gruppi giovani sono in effetti le principali vittime di questa situazione, ma forse non sono del tutto innocenti, o di certo sono un po’ irresponsabili. In Centinaia di artisti a piede libero in un mercato chiuso (articolo del 21/12/2017), Arianna Bianchi e Valentina Falorni riflettono a partire dall’esperienza di ITFestival Independent Theatre,

nato nel 2013 per la volontà di un gruppo di compagnie di ritagliarsi uno spazio di emersione, di visibilità e di incontro con il pubblico, rispondendo con gioiosa intraprendenza ad una generale mancanza di opportunità di questo tipo. Già in occasione della prima edizione la richiesta di partecipazione è stata altissima: più di 80 compagnie milanesi che hanno fatto domanda di adesione al festival. Nel corso di cinque edizioni si è assistito a una crescita impressionante di questo numero, fino ad arrivare nel 2017 a oltre 160 richieste di partecipazione, quasi tutte provenienti da compagnie teatrali residenti e attive sul solo territorio milanese.
(…) Il fenomeno che ha visto il continuo nascere e morire di numerosissime formazioni artistiche di fatto, testimonia una tendenza che oggi caratterizza il nostro scenario teatrale cittadino: molte realtà si formano intorno al loro primo e spesso unico progetto teatrale, senza avere in seno l’intenzione della lunga durata, la responsabilità di un percorso che deve sopravvivere alle difficoltà, che inevitabilmente si incontreranno lungo il cammino. La radice di questo guaio è da ricercarsi probabilmente anche nell’ambito della formazione: ogni anno le accademie sfornano decine di allievi convinti di essere pronti per affrontare il mercato, pronti per affermare se stessi in ambito artistico, in pochissimi casi consapevoli della difficoltà anche gestionale, amministrativa e strutturale che questo comporterà loro.

Nella stessa edizione 2017 delle Buone Pratiche, un fratello maggiore, Daniele Villa di Teatro Sotterraneo, ha messo a fuoco le sindromi della sua generazione (Le patologie del nuovo teatro: Sindrome da Riserva Indiana, dell’Alterità oppure da Peter Pan?”, pubblicato il 20/12/2017). Dopo una spietata diagnosi, suggeriva due terapie:

Se diamo uno sguardo al campo della ricerca teatrale (o teatro contemporaneo o come lo si vuole chiamare…) degli ultimi dieci anni, ci viene da dire che la nostra generazione ha pareggiato. È vero: molti gruppi che si sono affacciati negli anni zero sono ancora attivi (Babilonia, Anagoor, Collettivo Cinetico eccetera), ma è vero anche che alcuni limiti strutturali con cui siamo cresciuti tutti sono ancora intatti.
(A) Sindrome da Riserva Indiana: chi fa ricerca oggi si muove ancora tra festival e stagioni off, che si configurano come principali produttori e circuiti. (…) Questo tipo di linguaggi fatica a girare, quindi a entrare in contatto con pubblici più vasti.
(B) Sindrome dell’Alterità: Altri Percorsi, Altri Linguaggi, Altre scene, Altro Palco… L’obiettivo – nobile e coraggioso – di queste costole di stagione era avvicinare il pubblico a un certo tipo di panorama teatrale: oggi però questa iniziativa ci pare retrocedere su molte piazze, oppure resistere in forma di piccoli recinti che non possono sfondare davvero nell’immaginario del pubblico. (…)
(C) Sindrome di Peter Pan: spesso si addossa ai nuovi gruppi (ormai non più nuovi) la responsabilità di non riuscire a crescere rispetto a formati, cast, minutaggi, organico ecc. (…) avvertiamo come l’iniezione di una sorta di ormone della non-crescita: senza produzioni e con circuiti a economie ridotte è necessario fare spettacoli che entrino in una monovolume, altrimenti diventa impossibile girare. Vediamola così: i pesci rossi crescono in modo proporzionale all’acquario in cui li metti.
A noi sono venute in mente due possibili terapie per queste sindromi.
(1) La prima cura ha lo scopo di far (ri)crescere la cultura teatrale diffusa: si tratta di una sfida da prendere con pazienza e mettere in prospettiva, dandosi qualche decennio di tempo per una strategia vincente. Noi cominceremmo dai bambini (…) pensiamo che dopo la febbre digitale dell’ultimo quindicennio stia emergendo una domanda di esperienze partecipative e dirette che il teatro dovrebbe cercare di intercettare, con tutta la sua millenaria esperienza sul campo.
(2) La seconda cura ha lo scopo di far crescere la cultura contemporanea. (…) la nostra proposta è quella di costituire alleanza operative fra operatori e autori: come teatranti, in questo tempo confuso, siamo chiamati a non seguire più soltanto le nostre urgenze creativi personali, a non ascoltare più soltanto le nostre ossessioni ma a domandarci quale linguaggio adottare per incidere nell’immaginario, connettere persone, allargare la riserva indiana. Forse non basta più fare lo spettacolo che vogliamo fare e vederlo programmato nei cartelloni a cui aspiriamo. Agli operatori invece spetta il compito di lanciarci delle sfide, di commissionarci dei progetti che siano in ascolto coi contesti dei loro teatri/festival, che abbiano un alto potenziale di rischio ma anche un alto scopo, costruendo processi produttivi in cui le nostre poetiche, messe a contatto con uno spazio, un territorio, un pubblico, possano riconfigurarsi e ottenere dei risultati di medio-lungo termine. Abbiamo tutti un gran bisogno di evolverci dalla situazione in cui siamo e Darwin è molto chiaro al riguardo: non sopravvive il più forte ma il più adatto.

Gli effetti non saranno forse immediati, ma sono ipotesi molto suggestive, anche pensando al futuro, anche nella direzione di quell’”ecologia della distribuzione” che si auspicava già nel 2004. Certamente bisognerà tener conto del nuovo scenario, e forse della riscoperta del valore della prossimità e della comunità, della riprogrettazione dello spazio urbano e dello spazio pubblico, che secondo alcuni osservatori caratterizzerà il futuro prossimo.
Le riflessioni su questi anni possono servire a non rifare gli stessi errori. Sarà possibile se operatori, politica, pubblica amministrazione sapranno guidare i cambiamenti ripensando il sistema e la sua organizzazione anche nella direzione di quell’”ecologia della distribuzione” che auspicavano già nel 2004.

 

 

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