Antonio Tarantino, che abbandonò i pennelli per la macchina da scrivere e divenne uno straordinario drammaturgo
L'ultimo coup de théâtre del poeta delle periferie
Antonio Tarantino se n’è andato. Con un coup de théâtre, degno della timida spavalderia con cui ha vissuto, una mattina d’aprile, durante l’isolamento, né col virus né per il virus. La bronchite cronica che si portava appresso da anni era peggiorata. Poi un mattino il suo cuore si è fermato. La notizia è corsa in rete, rimbalzata tra i profili di colleghi, attori, registi che lo avevano letto, interpretato, allestito, o anche solo ammirato. Nemmeno una parola nei telegiornali nazionali. Poco su carta stampata. Diversi ricordi in rete.
Ma chi era Antonio Tarantino?
Il suo cognome genera ancora confusione, come se questo artista figurativo dal passato militante che, ultracinquantenne, abbandonò i pennelli per la macchina da scrivere, entrando di prepotenza nel teatro italiano con l’innocente confessione di aver poca dimestichezza con le scene, non fosse stato il caso artistico più celebrato e longevo della scena drammaturgica nazionale contemporanea.
Scoperto da Franco Quadri nel 1993 e lanciato attraverso il Premio Riccione, che – rara avis – avrebbe bissato nel 1997, nell’arco di 25 anni ha scritto una ventina di testi, tra monologhi, scene lampo e imponenti affreschi teatrali, costantemente in fuga da ogni convenzione stilistica, con una lingua materica e rovente, impastata di filosofia ed espressioni gergali, battente, ossessiva, e improvvisamente irresistibilmente tragicamente comica. Il suo lavoro ha rotto i confini e ha conquistato Parigi, Lisbona, Berlino, la sua inquietudine di solitario lo ha spinto a sconfinare, a provarsi in scena e sulle geometrie della composizione musicale.
Il successo è arrivato. Le prime al Piccolo, all’Argentina, i grandi interpreti, i grandi registi. Ma Antonio è rimasto quello che, ringraziando per uno dei tanti riconoscimenti ricevuti, davanti a una platea adorante dichiarò che con quella somma avrebbe potuto comprarsi la tanto agognata lavatrice. E se non conoscendolo si sarebbe potuto credere che fosse una parte la sua, recitata alla perfezione, più lo si frequentava più la sua spontaneità risaltava cristallina come quella di un dio bambino perennemente stupito di fronte all’incontro, all’avventura, alla mistica erotica di ogni esperienza. Antonio era il fool di un mondo teatrale se non ingessato, prigioniero delle dinamiche mondane, che sapientemente rovesciava sulle sue pagine (tutte rigorosamente dattiloscritte, perché mai accettò di convertirsi al computer) smascherandole come il bambino della favola di Andersen.
Continuò ad abitare nel suo alloggio di San Salvario, essenziale e segreto come certe sue memorie d’infanzia gelosamente custodite, e per trovarlo bastava allungarsi al bar dell’angolo, dove sorseggiava marsala e leggeva il giornale. E dove, in un via vai di balordi, reietti e travestiti, tra passioni e inclinazioni fuori corso, negli anni hanno transitato attrici, registi, critici e docenti, in visita all’ultimo poeta delle periferie. Tarantino indulgeva alla convivialità ed era generoso, così che spesso chiacchierate di ore finivano innaffiate di un sonoro Nebbiolo in una delle trattorie dove veniva servito e riverito affettuosamente. Alla fine del pasto affondava la mano in tasca ed estraeva una delle sue bustine di carta con manciate di banconote: perché il denaro passa e serve tutt’al più ad alleviare la malinconia.
A ottobre era stato ricoverato per una brutta caduta. Era rimasto fermo per mesi, il tempo della riabilitazione. Quando l’epidemia si espande, Tarantino sta per essere dimesso dall’ospedale. Ma la forma non è perfetta, il medico preferisce che si trattenga. Di lì a qualche settimana la situazione precipita, la struttura viene trasformata in presidio Covid-19 e lui trasferito in una residenza. Né col virus né per il virus, ma costretto all’isolamento, può solo rispondere al telefono, la bronchite si complica, il fiato è sempre più corto. Gli amici più assidui gli fanno arrivare un cioccolatino, un libro, una rivista con cui ingannare il tempo fino al momento della riapertura. Però Antonio era stanco. Ricordava che trent’anni fa la scrittura era arrivata a giustificarne l’esistenza dopo che aveva lasciato la pratica della pittura. Ma da qualche anno aveva smesso di scrivere. Non c’è più l’eros, diceva.
A chi sia affidata la memoria di un autore in un paese in cui i teatri non sono mai diventati le case degli artisti, ce lo eravamo già chiesti insieme quindici anni fa, alla scomparsa di Claudio Tomati. In memoria dell’amico e collega, Antonio aveva composto un pezzo dei suoi, nero e splendente. Con la sua solita anarchica lucidità gli aveva messo un titolo modesto, paradossale, spinto al grottesco: Non è che un piccolo problema. Qui un drammaturgo inesorabilmente malato si ribella alle cure ed escogita un piano terribile per scongiurare la morte. Sapendola in procinto di ghermirlo invita quel vicino che puntualmente accompagna il suo cane a fare i bisogni sul marciapiede davanti a casa, per darglielo in pasto. Lo inviterà a prendere un caffè, poi gli allungherà un cicchetto e quando lei suonerà alla porta, con una scusa qualsiasi chiederà al malcapitato di aprire, così che lei li confonda, avvolgendo nel suo nero mantello l’estraneo.
“Così il fesso traslocherà al posto mio, e per sempre. E io continuerò indisturbato a pestare sulla macchina da scrivere, finché non perverrò alla gloria eterna. A quel punto la morte mi farà un baffo.”
L’astuto drammaturgo tarantiniano si vanta di conoscere “i tempi esatti dello svolgimento del dramma”, ma è proprio sull’ordine di apparizione dei personaggi che sbaglia. E quando la falcata signora arriva, la faccia nascosta da un paio di occhiali scuri, è lui a confondersi, a prenderla per il coinquilino e aprire la porta. Tomati ai tempi era giovane. Le circostanze della sua morte tragiche. Gli era mancato il tempo di pestare sui tasti fino alla gloria eterna. E Antonio, che era un uomo mite e con il Tomati aveva condiviso qualche piatto di spaghetti alle vongole, più che narrare tutti gli errori di un giovane amico, aveva scritto una favola sull’inutilità delle cure umane. Le stesse del suo magnifico esordio. Come a dire che per quanto tu ti sbatta, le cose non cambieranno. O vivi regolare e allora magari ti salvi, ma nel frattempo hai perso tutto, oppure ti ribelli e allora non ti resta che vivere così appeso con una mano sola al mondo, che se gira troppo in fretta – e gira troppo in fretta – prima o poi scivoli giù. E non ci sei più.
Ma guarda quando ti va a morire il Tarantino. Anomalo fino in fondo. L’hanno detto in tanti. Inafferrabile. Peggio di Fantomas. Perché te l’immagini quanto poteva scocciarsi uno come lui di un funerale con fiori e prefiche, magari attrici professioniste e pure note? (Perché ne ha collezionate di primedonne, dalla Piera a Isa Danieli alla Paiato solo per citare le gigantesse). Allora cosa ti combina? Se ne va zitto zitto, quando i morti sono a centinaia tutti i giorni, quando tutti sono presi da altro, indaffarati con il prima, il dopo e il durante, quando tutto è già così triste che dopo la fine della tragedia la tragedia è di nuovo là, e siccome siamo in Italia la tragedia passa la mano al dramma e alla farsa e la commedia, perché da un lato siamo eroi e dall’altro quaquaraquà.
Quando camminavamo insieme in un posto nuovo e all’improvviso qualcosa di estremo sporgeva dalla superficie quotidiana, richiamando la nostra attenzione, diceva: “Questo è un posto drammaturgico.” Da irregolare qual era riconosceva lo strappo dalla norma, il momento di verità, ed è da questo suo punto di vista che – si trattasse di pittura, politica, o drammaturgia – per tutta la vita non ha fatto altro che ricordarci la libertà.
Nell’audio: L’applauso ad Antonio Tarantino al Premio Ubu 2017.
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