AwArtMali Ateatro | 5 | Tunka: la compagnia, le storie, i personaggi
Un viaggio teatrale in Mali e Burkina Faso con il progetto AwArtMali (Awarness Raising and info through Art on Irregular Migration Risks in Mali)
Riassunto delle puntate precedenti: una capillare raccolta di testimonianze che confluiranno in un documentario e uno spettacolo teatrale sono il cuore del progetto Awart Mali – ideato da Maurizio Schmidt di Farneto Teatro con Tamat ONG – che si propone di contribuire al cambio di percezione e di comportamento delle persone che vedono nella migrazione irregolare verso l’Europa la sola possibile soluzione ai loro problemi, spesso alla situazione di grande povertà in cui versano. Il 25 gennaio lo spettacolo Tunka / L’aventure è andato in scena Ouagadougou in Burkina Faso, presso il Centre Culturel Gambidi: lo spettacolo affronta con chiarezza – e dal punto di vista africano – le cause dell’emigrazione, i rischi del viaggio, le condizioni dei migranti in Europa, le enormi difficoltà al rientro. Dal Burkina Faso lo spettacolo è approdato in Mali e dopo quattro date a Bamako è in tournée a Kati e nei villaggi rurali.
Mentre assistete a uno spettacolo in Italia, vi sarà di certo capitato che suoni un telefonino: l’attore protagonista è visibilmente scocciato, forse si interrompe, magari fa una piccola scenata, potrebbe cacciare il malcapitato distratto. A volte è lo stesso attore che decide di uscire di scena. Forse pensate che esagera un po’, ma probabilmente solidarizzate con lui/lei (l’attore).
Provate a immaginare un gruppo di attori e musicisti, che recita in una piazza, o meglio in uno spiazzo aperto, in piena luce, anche un po’ al sole, con un pubblico di anziani, giovani, donne e un’infinità di bambini sulle stuoie (sono lì da quando è iniziato il montaggio). Qualcuno sulle sedie, molti in piedi. Ci sono anche animali che passeggiano tranquilli lì intorno: galline, pecore, asini…). Non c’è un palco, il tappeto che costituisce lo spazio scenico è appoggiato sulla terra battuta, non c’è niente che assomigli a un camerino. Immaginate il suono caldo della kora e di colpo il silenzio e una concentrazione tale che non riesce a turbarla il piccolissimo che piange, o la tosse da polvere, o una pecora che sembra chiedersi cosa sta succedendo. Questo succede nei villaggi rurali nella tournée di Tunka, luoghi fermi nel tempo, dove le comunità sembrano ancora incredibilmente coese. Questo era il teatro popolare anche da noi e qualche volta forse riesce ancora a esserlo. Questo teatro che richiede attori dotati, duttili, motivati e generosi.
In compagnia sono sette attori e due musicisti, scelti per lo spettacolo e provenienti da tre paesi diversi: Burkina Faso, Mali e Costa d’Avorio. Con loro, due tecnici, un autista e l’amministratore di compagnia. Alcuni fra loro non si conoscevano, ora sono un gruppo molto affiatato, oltre che esperti del tema.
Uno degli aspetti più interessanti di Tunka è il rapporto fra coro e narrazioni individuali, favorito dalla situazione che l’autore lldeverd Meda e il regista Luca Fusi hanno immaginato per intrecciare fra loro storie e personaggi: Tunka (il termine il lingua bambara che definisce la partenza “all’avventura” del migrante) si svolge in un centro di accoglienza per migranti espulsi e rimpatriati, che ricostruiscono e rappresentano la propria storia. L’identità collettiva, la sorte comune e le individualità si fondono: un compito difficile ma una grande opportunità per gli attori, che sono riusciti a conciliare gli obiettivi propri della sensibilizzazione (informativi-educativi), con la creazione di personaggi emotivamente ricchi e teatralmente efficaci.
Il coro cattura l’attenzione declamando in crescendo la poesia iniziale di Primo Levi in Se questo è un uomo. Nessuno spettatore saprebbe collocare storicamente questo testo, che però arriva potente, come una preghiera o una maledizione (molto africana), gridando il tema dello spettacolo: la dignità è un valore irrinunciabile, raccontare è necessario, solo la memoria può salvare l’uomo da se stesso.
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando la sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Dal coro, e dal gioco del teatro nel teatro quindi emergono le storie e i personaggi, gli attori e il loro lavoro. Incontrarli è stata una delle esperienze più interessanti di questo viaggio teatrale. Raccontare in breve le loro biografie artistiche offre anche qualche informazione sul teatro dell’Africa occidentale e le sue opportunità, e consente di entrare nel tema dello spettacolo attraverso il loro punto di vista e i loro personaggi.
Mory Bamba dit Major. E’ l’ivoriano del gruppo, è anche il più vecchio, 47 anni, ma il soprannome “Major” se lo è scelto non per essere il primo, ma sempre migliore. Ha una sua compagnia, Les Ambasaddeurs de Abidjan, in cui è attore, regista e anche organizzatore. Ha fatto molte esperienze anche internazionali (fra l’altro ad Avignon con Nanan Triban) e ha molti progetti in corso. Non ha praticato tanto il teatro di sensibilizzazione, quanto il teatro partecipativo – il “teatro forum” di Augusto Boal ha trovato un fertile terreno in Africa occidentale – che prevede l’interazione con il pubblico. Sono tecniche di cui è esperto: si individuano argomenti e obbiettivi precisi (spesso anche complessi, come quelli legati al terrorismo), li si sviluppa in scene brevi, si chiede al pubblico di intervenire correggendo i comportamenti, reinterpretando i personaggi e modificando l’andamento delle storie. E’una pedagogia creativa che si concretizza spesso in progetti commissionati dalla cooperazione internazionale. Di recente Mory ha collaborato anche con l’UNESCO. E’ molto soddisfatto dell’esperienza di Tunka, è la prima volta che lavira con il Centre Gambidi e con Luca Fusi. Ha apprezzato il metodo di lavoro ed è molto sensibile al tema, che lo tocca personalmente a livello familiare e gli sta a cuore politicamente: in Costa d’Avorio, ci sono villaggi dove sono partiti ragazzi da quattro famiglie su cinque.
Nel suo paese il teatro è un po’ in crisi (ha visto momenti migliori, anche se non mancano personalità, festival, scuole, compagnie, un quasi-teatro nazionale): sarebbe importante portare lo spettacolo anche in Costa d’Avorio.
L’adesione di Major al progetto è molto forte: “Questo spettacolo può salvare delle vite” e contribuire a modificare la percezione degli europei rispetto alla migrazione. In questo si è molto identificato con il suo personaggio: è il migrante-teatrante che ha coinvolto i compagni del campo – espulsi come lui – in un laboratorio per ricostruire, liberarsi, darsi un po’ di conforto attraverso il teatro, e raccontare, raccontare, raccontare, come nell’ultima battuta del suo personaggio: “La gente deve sapere, le nostre famiglie devono sapere” (e a fine spettacolo lo si vede sempre ancora emozionato).
Mimpamba Thomas Combari. La passione di Thomas per il teatro nasce molto presto, intorno ai dodici anni, sui banchi della scuola e della sua chiesa: la teatralità della liturgia e delle festività religiose gli offrivano l’occasione per immedesimarsi nei personaggi evangelici e anche ora che non è più molto praticante gli piace ricordare questo debito. Dopo essere arrivato dal suo villaggio a Ouagadougou per studiare e laurearsi in lettere e filosofia, ha incontrato il Centre Gambidi e scelto di fare del teatro la sua professione. Ora ha trent’anni, parecchi spettacoli al suo attivo nel suo paese e qualche bella esperienza internazionale: formazione e tournée in Belgio, Francia e Germania.
Tutti gli attori burkinabé del gruppo hanno frequentato come lui il CFRAV (Centre Formation Recherche Art Vivant) del Centre Gambidi. Con Brahima Diarra, Wendy Nare e Adjaia Sowadogo ha condiviso lo spettacolo di diploma con la regia dell’ivoriano O.D. Vagba Voglio vedere Mioussov di Valentin Kataiev, che ha vinto il premio come miglior spettacolo del 2016, e un’esperienza con la compagnia tedesca Hajussom: uno lavoro con professionisti e rifugiati, con cui è stato ad Amburgo.
Ha fatto altri spettacoli con Luca Fusi, ma questa è la sua prima esperienza di teatro di sensibilizzazione. La apprezza molto e ne sente la responsabilità. Ritiene però che nella scelta di lasciare il proprio paese ci sia un bisogno di conoscenza che è positivo e non va giudicato: sono le scelte politiche populiste intorno alla migrazione che vanno criticate.
Questo punto di vista si rispecchia bene nel personaggio che interpreta: non ha avuto fortuna nell’”avventura”, ma ne incarna in modo articolato le motivazioni: i problemi economici in un contesto rurale (molto concreti: sovra-produzione, difficoltà logistiche, crollo dei prezzi), ma anche l’attrazione per l’immagine da Eldorado che l’occidente da di sé:
“Je suis allé à la grande ville, j’ai travaillé comme manutentionnaire dans une société de transport. Au départ comme à l’arrivée des bus, il y avait quelquefois des blancs ; ils sont souvent sympathiques et heureux, heureux de vivre. Lorsque je voyais les belles images de leurs villes, de leurs paysages… Et de toutes leurs richesses, je me disais… Peut être un homme aurait le droit de chercher à être heureux comme ces gens sympathiques et heureux… Peut être.”
Dell’Europa vedrà solo il campo per rifugiati in Spagna per un tempo infinito, ma nella scena finale dello spettacolo racconta un bel sogno positivo, che ribalta in un’accoglienza festosa la sua storia di reclusione e espulsione.
Anche se l’interesse per l’Europa è forte, in occasione delle sue incursioni non ha mai desiderato di fermarsi: la scena del Burkina Faso è vivace e le occasioni per un giovane professionista non mancano. E non manca la possibilità di impegnarsi in cause sociali: per questo ha contribuito a fondare ed è impegnato in un centro per bambini (Atelier Silmandé), che vuole mettere tutti i bambini in condizione di avere accesso all’arte e alla cultura.
Christian Léger Dah. Oltre che attore, è primo assistente alla regia (e autorevole riferimento del gruppo in tournée). Ha fatto poche esperienze come regista, ma sta cercando di formarsi in questa direzione: è fra l’altro candidato per una borsa di studio presso l’Accademia d’estate, in Belgio, per un periodo di formazione nella regia. Ha quarant’anni e dopo aver frequentato la scuola del Centre Gambidi (provenendo da una formazione tecnica) ha preso parte a parecchi spettacoli, con qualche tournée anche in Europa (Lussemburgo, Friburgo). Ha fatto altri spettacoli di sensibilizzazione con Luca, ma in questo caso il tema è particolarmente sensibile e delicato. Ha apprezzato in particolare il metodo (le interviste, le improvvisazioni, le discussioni): la funzione di questo tipo di teatro è raccontare e informare, dare spunti alla discussione senza offrire soluzioni.
Al suo personaggio è affidato il primo racconto, ben costruito dal Ildeverd Meda, che è riuscito ad articolare nella storia di un unico uomo alcuni dei temi principali della migrazione: la scelta di partire per costruire un futuro migliore a un figlio che sta per nascere, le informazioni sul viaggio a partire dal passaparola, il passaggio in Libia, i piccoli lavori in Italia (in nero). Poi l’espulsione, l’imbarazzo del rientro, l’accoglienza e quindi la vergogna e il rifiuto dalla famiglia. Il personaggio che Leger ha costruito intorno a questo racconto è assieme sofferto e controllato, maturo, dolorosamente consapevole.
Léger definisce la scena di Ouagadougou effervescente: anche se ci sono pochi mezzi, ci sono idee, ci si incontra e ci si combina secondo progetti. Parla con entusiasmo anche del suo piccolo gruppo di Slam, è un “genere” che combina parola (poesia) e musica, coinvolgendo anche il pubblico: nato negli Stati Uniti, si è diffuso molto in Africa, e a Ouaga va forte, anche nella versione in lingua moré.
Brahima Diarra. Fa parte del gruppo dei trentenni burkinabé – con Thomas, Wendi e Adjara. Oltre che attore, è il secondo assistente alla regia. E’ nato e cresciuto al confine fra il Mali e il Burkina Faso (e anche la sua famiglia è mista), poi a Bobo Dioulasso. All’Università, a Ouaga, voleva fare cinema ma ha ripiegato su lettere, si è imbattuto nel corso di teatro, ha cominciato a praticarlo e da lì è arrivato alla scuola del Centre Gambidi. Nei suoi sogni e nei suoi progetti è rimasto il cinema: il Burkina Faso produce abbastanza e organizza uno dei più importanti festiva africani (internazionale, biennale: la prossima edizione sarà nel 2021).
Ha partecipato a molti spettacoli con registi diversi, ha scritto dei testi – e frequentato laboratori di scrittura – e ha un gruppo con altri amici, Re-flexion Theatre. E’ forse il più politicamente impegnato del gruppo: Gli interessa un teatro che affronti problemi precisi: per lui, il teatro è impegnato o non è. Dello spettacolo gli piace che presenti il problema, che ponga domande, e spinga il pubblico a riflettere.
Il suo personaggio è il più problematico, con un fondo di violenza repressa che emerge verso la fine: partecipa ai giochi teatrali con qualche esitazione, ma è l’unico a chiedersi apertamente “perché questo, perché fare tutto questo?”. Solo verso il finale racconta la sua condizione alla partenza – la storia disperata comune un po’ a tutti – e il suo complesso di colpa per un amico morto in viaggio, ma si chiede anche che senso abbia ricordare, raccontare: “Tutto questo non mi conforta per niente, non ne parlerò più”. E’il suo rifiuto – comune a molti migranti – a ricondurre al senso dello spettacolo: al di là del dolore del singolo, raccontare è necessario.
Wendy Nare. Ha frequentato il CFRAV del Centre Gambidi, è appassionata di creazione multidiscilinare, ama il teatro fisico. E’ anche organizzatrice e formatrice: si è accorta presto che ama recitare, anche se non per una donna in Africa è facile fare teatro. Quando ha partecipato con i compagni allo spettacolo di Hajussom ad Amburgo, le è stato prospettato di restare, ma ha visto le condizioni dei compatrioti sans papier e non ha avuto dubbi. Le risorse sono poche, ma le occasioni in Burkina Faso non mancano: ha partecipato a innumerevoli spettacoli, festival, laboratori. Anche secondo Wendi la scena in Burkina Faso è molto vivace, girano progetti, ci sono opportunità.
In Tunka il suo personaggio è molto forte: la donna che arriva lasciandosi alle spalle i compagni morti in viaggio, l’espulsa che ha subito torture, terrorizzata dall’idea di tornare in Libia, solo il sogno le consente un bel momento di leggerezza. Se gli altri hanno ricavato molti spunti dalle testimonianze raccolte, fra queste mancano le interviste femminili a migranti e migranti di ritorno: ma ha cercato e trovato video in internet cui si è in parte ispirata per il suo personaggio. E’ molto convinta dello spettacolo, non altrettanto di molto teatro di sensibilizzazione che si produce in Burkina Faso: fatto in fretta, con pochi giorni di prove, e forse poca convinzione, commissionato dalla cooperazione internazionale.
Adjaratou Sawadogo. Adjara ha incontrato per la prima volta il teatro al liceo, ma forse la scintilla era scoccata prima: durante la frequentazione da bambina del Centre Gambidi a Ouagadougou, vicino a casa. Poi lettere e filosofia all’Università e la scuola di Teatro al Gambidi si sono alternati e oggi, a trent’anni, ha al suo attivo molti spettacoli, come attrice e come assistente alla regia. Ha maturato una autentica passione per la narrazione (creazione di racconti e adattamento inclusi). Il problema della migrazione la tocca molto da vicino – ha riguardato componenti della sua famiglia allargata cui era molto legata – ma non ha mai pensato all’”avventura” per sé stessa, neppure quando si è trovata a Lione per uno spettacolo: è cresciuta in Costa Avorio, sa cosa significa essere considerata straniera e la ritiene una condizione inaccettabile.
Anche per questo forse i suoi personaggi nello spettacolo hanno una forte carica emotiva: è la donna che non vuole raccontare (e il non racconto mostra tutto della condizione migrante al femminile) ma coltiva un bel sogno di accoglienza. E’ la madre in lutto per figlio che non ha fatto fortuna e che decide di respingerlo.
Mariam Traoré. Maliana, ha studiato all’Istituto Nazionale delle Arti (INA) e al Conservatoire (lo stesso dove si è rappresentato Tunk) e fa parte della nuova generazione di artisti che sta mettendo in atto un sostanziale ricambio nella scena maliana, meno vivace di quella del Burkina Faso, ma in grande trasformazione (come ci hanno detto i colleghi del gruppo Happy Theatre con cui episodicamente lavora, vedi AwArtMali 4). La sua formazione, e la sua attività iniziale, sono state soprattutto nel campo della danza, anche in Senegal, a Dakar. Ha fatto un po’ di cinema e molte serie televisive: c’è una notevole produzione in Mali, in francese e in bambara (sottotitolata). La scelta di lavorare nello spettacolo all’inizio non è stata facile, ma ora è accettata e molti suoi famigliari sono venuti a vedere lo spettacolo. E’ la prima volta che fa teatro di sensibilizzazione e che si imbatte nel problema dell’emigrazione.
Per lei è un’esperienza totalmente nuova, alla quale si è avvicinata lavorando sul suo personaggio: è madame Kulibaly, la responsabile del centro di accoglienza, a sua volta un po’ traumatizzata da quel concentrato di sofferenze, ma anche un po’ comica quando racconta quello che succede – quell’assurdo laboratorio di teatro: “Camminate, camminate: ma per andare dove? Respirate, respirate… Vorrei un po’ vedere se non respirassero” – e nell’interagire telefonicamente con un ineffabile “Monsieur le Ministre.
La musica è costitutiva di Tonka: racconta, accompagna, è una presenza scenica fondamentale.
Ousmane Ouattara. Imponente ma con una voce da tenore, accompagna tutto lo spettacolo con la sua kora (“ma femme”) e le sue canzoni. Vensisette anni, dice (ma forse ne ha qualcuno di più: l’anagrafe nei villaggi non è proprio precisa), è il primo artista della sua famiglia, anche se il nonno suonava il balafon per accompagnare il lavoro nei campi. Ha studiato all’INA, poi al Conservatoire di Bamako, sia musica tradizionale (e il suo amato strumento) sia pianoforte. Nel suo percorso formativo ha effettuato scambi in Danimarca e in Brasile, dove ha sperimentato l’inserimento della kora in una grande orchestra internazionale: “Una bellissima esperienza”, ricorda. Ha un proprio gruppo (da tre a quattro elementi), con cui ha effettuato parecchi concerti. Ha già accompagnato spettacoli di danza, ma è la prima volta che lavora in uno spettacolo di teatro di sensibilizzazione.
La base delle musiche per Tunka è la potente tradizione mandinga (così antica da risalire all’impero del Mali nel XIII secolo) e le canzoni che sono parte del testo sono stata adattate su motivi tradizionali: Ousmane adora la tradizione, ma ha introdotto qualche effetto swing e altre contaminazioni occidentali.
Yacouba Sissoko. Come Ousmane, ha un suo gruppo musicale, ma è un griot e viene da una de una grande famiglia di griot del Mali. In lui convivono il musicista professionista (suona una grande varietà di strumenti, nello spettacolo un piccolo, efficace ngony, uno strumento a corde tradizionale dell’Africa occidentale) e il ruolo “istituzionale” di griot: la figura autorevole che non solo racconta, tramanda, accompagna riti e festeggiamenti, ma media nei conflitti, favorisce la conciliazione. Insomma, ha tutta la responsabilità e il potere incarnato dalla parola. Anche nello spettacolo, soprattutto nei villaggi, il suo ruolo è immediatamente riconosciuto e riconoscibile: catalizza l’attenzione dei bambini, non di rado con la sua voce potente di basso lancia i temi del dibattito.
Yacouba e Ousmane, vestiti di un imponente costume da griot di colore arancione, accompagnano il racconto. La loro presenza rappresenta il rapporto con il tempo e con la storia. A Yacouba è affidato il finale dello spettacolo. Le parole sono sue, ma i due proverbi arrivano dalla tradizione.
Avete visto, sono persone che sono partite per cercarsi, all’Avventura
e per aiutare a famiglia.
L’Avventura esiste da sempre, tutti hanno il loro motivo per partire e il loro modo di partire
Noi, i griot, vi siamo vicini da molto tempo, dal tempo di Kankan Moussa,
Siamo con voi oggi e saremo con voi domani, saremo con voi sempre
Quando vedi un uccello volare nella notte vuol dire che qualcosa non va
Quando vedi una rana saltare in alto, vuol dire che la terra scotta.
Ma dopo la notte verrà il giorno
E se la terra è troppo calda prima o poi si raffredderà.
Lo spazio scenico è delimnitato da un tappeto di stuoie ocra, marrone, con sfumature di rosa e qualche macchia di blu (scene e costumi sono di Sada Dao), delimitato da un fondale e due pareti nere (tela su intelaiatura metallica), Nel montaggio e smontaggio, scarico e ricarico (sul minibus) sono coinvolti tutti gli attori, ma due tecnici accompagnano lo spettacolo, Kader Bonkoongou e Gaston Tiendrebeogo, per la luce e il suono, che sono alimentati da un gruppo elettrogeno (lo stesso ovunque, messo a disposizione dalla compagnia).
Per quanto riguarda la luce, nei villaggi si recita sempre in orario diurno, ma è spesso necessario rafforzare l’illuminazione verso il finale, per la discussione che costituisce il secondo tempo dello spettacolo, oltre che per il montaggio che termina spesso dopo il tramonto. Tunka è andato in scena in un teatro (a Ouagadougou) ed è stato e sarà replicato (a Bamako) in orario serale, con effetti luce importanti, curati da Mohamadi Gouem. Più complessa, anche per le attrezzature non troppo all’avanguardia, l’amplificazione dei musicisti durante lo spettacolo (voci e strumenti) e della discussione. E’ soprattutto il suono, del resto, che appassiona Kader e Gaston.
Kader ha 33 anni. Dopo un primo stage al Gambidi, ha seguito i corsi del Centre National du Spectacle et de l’Audiovisuel. Si è dato quindi buone basi teoriche che poi ha sviluppato sul campo, con un service (non solo spettacolo) e numerose esperienze presso centri culturali e festival. Per oltre tre anni ha fatto il calciatore professionista in Turchia, finché un problema al ginocchio non lo ha costretto a tornare. Non sembra troppo dispiaciuto: ha ripreso a lavorare a Gambidi e altrove, gli piacerebbe perfezionare le sue conoscenze. Lamenta che nel teatro del Burkina Faso, per quanto sia vivace, non ci sia sufficiente attenzione per gli aspetti tecnici, e cerca su internet le opportunità per migliorarsi all’estero e riportare le nuove conoscenze nel suo paese.
Gaston, 28 anni, nello spettacolo segue soprattutto le luci, ma ha una passione per il suono fin da ragazzo: una passione coltivata nelle piccole radio e poi, come lavoro, nei locali e nei festival (che a Ouagadougou non mancano). La sua è una formazione sul campo, ma vorrebbe acquisire qualche base teorica e migliorarsi. Andare all’estero per formarsi, non partire all’”avventura”: non lo ha mai tentato la migrazione, ha anzi resistito alle pressioni della famiglia (è primogenito e fare fortuna all’estero sarebbe stato naturale).
Emanuel Koama , 35 anni, ha studiato alla facoltà d’arte drammatica per poi specializzarsi per due anni come organizzatore (o amministratore, per dirlo alla francese). Ha contribuito a far quadrare i conti della tournée e ora accompagna la compagnia. Da tre anni lavora al Centre Gambidi, occupandosi soprattutto di progetti di teatro partecipato, che sensibilizzano al cambiamento dei comportamenti, tanto dal punto di vista della ricerca di fondi che della progettazione e della realizzazione. L’ultimo progetto che ha curato, finanziato da una fondazione canadese, era dedicato a insegnare in modo ludico e creativo i fondamenti dell’igiene (lavarsi le mani, per esempio: un teatro davvero utile!). Prima dell’esperienza con i canadesi (che proseguirà in un’altra zona del paese), ha realizzato progetti simili finanziati dalla Svizzera e dal Belgio. La cooperazione internazionale è il principale finanziatore di tutte le attività culturali in Burkina Faso. Si è occupato anche delle tournée degli spettacoli: a suo parere Tunka dovrebbe girare capillarmente l’Africa occidentale francofona (forse in due blocchi: Niger, Togo, Benin e Costa D’Avorio Senegal, oltre al ritorno in Mali e in Burkina Faso). Trovare spazi e partner per l’organizzazione locale non sarebbe difficile: il problema sono i costi della compagnia, piuttosto numerosa. Considerando il tema, si potrebbero cercare fondi nell’ambito della cooperazione.
Progetto AwArtMali (Awarness Raising and info through Art on Irregular Migration Risks in Mali). Cofinanziato dal fondo per l’asilo e l’integrazione dell’Unione Europee, coordinato da Tamat NGO in partenariato con ISMU, Giusti Eventi, Farneto Teatro, Instrategies, Cogenia, Cardet.
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