Una placenta beckettiana per Mario Perrotta e Paola Roscioli

Il debutto di Della Madre al Piccolo Teatro di Milano

Pubblicato il 24/01/2020 / di / ateatro n. 170

C’è da scommettere che susciterà reazioni contrastanti lo spettacolo che Mario Perrotta e Paola Roscioli hanno presentato in prima nazionale al Piccolo di Milano. Finché si trattava di attaccare la figura del padre, l’attore leccese aveva gioco facile. La crisi della paternità e più in generale del ruolo del maschio nella società contemporanea è sotto gli occhi di tutti: da materia di studio è diventata luogo comune e come tale oggetto anche di esagerazioni giornalistiche e distorsioni interpretative.
In nome del padre sfondava una porta aperta, per quanto le tre sfaccettature paterne intrecciate con virtuosismo attorale nel primo spettacolo della trilogia dedicata alla famiglia ponessero interrogativi sconcertanti. Ma puntare il dito contro la mamma…! In un paese mammone come il nostro…! Vuol dire andarsela a cercare! Infatti Perrotta e Roscioli sono andati a cercarsele le mamme (e le nonne) di questa Italia contraddittoria e liquida, attraverso la ricerca sul campo, la propria esperienza di genitori e continuando il confronto, già fertile nel precedente lavoro, con lo psicanalista Massimo Recalcati.
Della Madre ha la grazia e la coerenza di uno spettacolo riuscito, nel quale forma e contenuto si fondono in un discorso organico, immediatamente comprensibile a differenti livelli di lettura. Superata da tempo, con spettacoli attoralmente sempre più impegnativi, la postura tradizionale del narratore, Perrotta si muove ormai con piena consapevolezza all’intreccio dei linguaggi performativi, in un efficace equilibrio fra drammaturgia, scenografia, musica, multimedialità che lascia presagire sviluppi ulteriori. L’attore (e regista) interpreta un ruolo femminile (la nonna) accanto a un’attrice di forte presenza come Paola Roscioli (la mamma) in un fitto dialogo di sapore beckettiano. Come due Winnie che si contendono i giorni felici di una maternità infinita, le due figure emergono solo dalla cintola in su da due enormi gonne-igloo, due seni, due pance rivali e complementari nel cui improsciugabile liquido amniotico nuota (in suggestive immagini girate in piscina e retroproiettate) la figlia-nipote forzosamente mantenuta nel ruolo e nel nome generico di Bimba, trattenuta in una cappa di premurosa e morbosa protezione nonostante abbia evidentemente superato l’infanzia e nonostante i suoi naturali desideri di scoperta del mondo la portino a chiedere di uscire da quel limbo, sbucando ogni tanto con una mano fuori dal gonnone della madre.
Al minimo segno di autonomia di Bimba, la madre iperprotettiva non trova di meglio che chiedere aiuto alla chat “Mamme per sempre”, dove altre madri, che allattano i figli fino a sette anni e li fanno dormire con sé, dispensano astrusi consigli psicologici e di medicina fai da te: l’avogado spalmato sulle gambe in caso di febbre, l’antibiotico se la piccola è agitata…) oppure discettano sul cibo, sul sonno, sul latte vaccino (e «di vaccini si muore»), sulla pipì e sulla popò. Il pubblico che riconosce il meccanismo e si diverte all’insistente susseguirsi di whatsapp non fa che rendere più grottesca la scena, e il teatro sembra diventare a sua volta un iperbolico ambiente amniotico (specie nella grande circolare Sala Melato del Piccolo dove lo spettacolo ha debuttato), una comoda placenta che tante volte astrae dalla realtà e dalla quale gli spettatori dovranno scegliere (come Bimba, prima o poi) di uscire con uno strappo, una riflessione critica sul presente che ottunde.
Se ad ogni accenno recalcitrante di Bimba la madre strattona il grosso cordone ombelicale che ancora le lega, la nonna a sua volta non ha mai reciso il suo, conservando un potere coercitivo nei confronti della figlia ed entrando in competizione con lei per quanto riguarda le cure e l’educazione della bambina. Riemergono conflitti irrisolti, frustrazioni, e Bimba diventa oggetto di rivalse incrociate, già esplicite nelle parole della vecchia canzone di Mina intonate dai due attori per aprire e chiudere lo spettacolo: «No, no, no, non crederle / non gettare nel vento / in un solo momento / quel che esiste fra noi. / No, no, no, ascoltami / tu per lei sei un giocattolo / il capriccio di un attimo / e per me sei la vita…».
La figura maschile (la Legge), debole e problematica nel precedente spettacolo, qui è completamente assente, non è neppure mai evocata. L’attaccamento viscerale è destinato a perpetrare un doppio legame affettivo-ricattatorio aldilà del conflitto generazionale. La chiave è forse in quella bambola, gelosamente difesa dalla nonna sotto la sua gonna, alla quale Bimba cerca inutilmente di avvicinarsi nuotando come una sirena: un ideale di maternità sempre deluso? Un desiderio incompiuto? Un rifiuto?
Sotto l’apparente scontro fra due modi di allevare i figli e fra due modelli di maternità (quella dell’epoca patriarcale e quella «ipermoderna e narcisista», come la definisce Recalcati), c’è l’identica tensione al possesso, a una simbiosi patologica, e stenta a rivelarsi, nello spettacolo, «ciò che della madre rimane al di là della storia, la sua funzione fondamentale nel garantire la trasmissione del sentimento della vita». Paola Roscioli trova modulazioni intense al suo difficile personaggio; Perrotta ci lavora intorno con un efficace controcanto stilizzato e antinaturalistico. Determinante l’apporto dei video di Hermes Mangialardo e dell’impianto scenico di Fabrizio Magara e Maria Isabel Anaya.




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