Vuoi diventare un attore extraordinario?
I consigli di Ken Rea, autore di L'attore extraordinario (FrancoAngeli, Milano, 2019)
Ken Rea è regista, attore e soprattutto maestro di attori: ha avuto tra i suoi allievi Ewan McGregor, Joseph Fiennes, Damien Lewis, Orlando Bloom e Daniel Craig.
Insegna in una delle più prestigiose scuole di recitazione britanniche, la Guildhall School, ed è stato spesso in Italia, all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma e a San Miniato per Prima del Teatro.
Il suo obiettivo è creare un attore “extraordinario”, come dice il titolo del suo saggio, pubblicato in Italia da Franco Angeli nella collana Drama diretta da Fabrizio Gifuni (Ken Rea, L’attore extraordinario, FrancoAngeli, Milano, 2018, 28 €).
Il volume è ricco di indicazioni pratiche e di esercizi, ma tiene presente anche le recenti acquisizioni scientifiche. Cita per esempio gli studi di K. Anders Ericsson sulle eccellenze nella musica, nello sport, nella medicina, negli scacchi: “Le performance di alto livello sono il risultato di molto esercizio e i più alti livelli di preparazione e risultati hanno alle spalle almeno dieci anni di preparazione”, cioè diecimila ore di esercizio.
Spiega Ken Rea:
Il talento è solo il punto di partenza: quello che conta è l’impegno che metti nel lavoro. E’ lì che si fa la differenza. E’ il messaggio che cerco di trasmettere agli attori che incontro: l’applicazione è più importante del talento, può fare la differenza e cambiare il tuo destino. Questo atteggiamento darà una prospettiva positiva alla tua carriera e ti eviterà di cadere nel vittimismo. E come puoi raggiungere questo obiettivo? Devi rischiare, perché i progressi avvengono solo quando ti spingi fuori dalla comfort zone. Insomma, devi imparare a sentirti a tuo agio quando sei a disagio: me l’hanno insegnato gli sportivi, che sono molto più avanti nelle tecniche di allenamento. Abbiamo ancora molto da imparare dalla psicologia dello sport, che è una delle basi delle mie ricerche.
Il suo libro è una miniera di esercizi. Alcuni ricordano appunto l’allenamento degli sportivi, il training fisico utilizzato anche da numerosi attori. Altri invece sono giochi, dove predomina l’aspetto ludico. Qual è il rapporto tra questi due approcci?
E’ molto stretto. Ci sono esercizi – muovere le braccia, le gambe, sciogliere la tensione fisica – che riguardano la tecnica dell’attore e la padronanza del corpo. Ma nel lavoro dell’attore è molto importante anche la giocosità, una qualità che hanno tutti i bambini, che però il processo educativo ci fa perdere. Il piacere del gioco svanisce e l’immaginazione si irrigidisce. E’ difficile trovare adulti che abbiano preservato l’apertura e l’ingenuità dell’infanzia. Il sistema educativo britannico – e credo anche quello italiano – ti costringe a superare una serie di esami, a pensare e a comportarti in un certo modo: l’immaginazione viene bloccata. I giochi che propongo servono proprio a recuperare questi aspetti, per connettersi al pubblico e creare empatia.
C’è un altro aspetto importante. I bambini si prendono dei rischi perché non si preoccupano di quello che la gente pensa di loro. Dunque possono permettersi il lusso di sbagliare. Anche per questo la loro immaginazione è viva e vivace. Man mano che crescono, iniziano a mettere un atto una serie di difese. Quando arrivano all’adolescenza, ragazzi e ragazze assumono un atteggiamento “super-cool”. Sono freddi, come se avessero fatto un passo indietro. Così, dopo che sono stati ammessi in una scuola di teatro, buona parte del mio lavoro consiste nell’aiutarli a superare questo blocco, senza forzarli, per aiutarli a capire che possono essere più aperti. L’obiettivo è l’autenticità, sentirsi a proprio agio nel proprio corpo. E riguarda anche la presenza scenica e il carisma.
Lei usa tecniche molto diverse. Nel suo libro, ci sono uno dietro all’altro un esercizio ripreso da Yoshi Oida, un altro da Jacques Lecoq e un terzo da Stanislavskij (pp. 150-152). Sono tre tecniche che corrispondono a tre idee di teatro molto diverse. Ma tutte queste esperienze convergono verso un metodo?
Nella pedagogia teatrale non c’è niente di nuovo, la continuità della tradizione è molto importante. Le scuole di teatro inglesi sono molto influenzate dall’approccio di Stanislavskij, introdotto all’inizio del Novecento da alcuni insegnanti, soprattutto francesi: da allora si sono formate così diverse generazioni di attori. Ma anche l’Italia ha una sua tradizione.
Io ho un approccio diverso. Sono un outsider, mi sono formato come regista e come attore in Nuova Zelanda, quando era ancora un paese molto isolato. Erano gli anni Settanta e quello che accadeva negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e soprattutto in Estremo Oriente lo potevamo soltanto leggere. Lavoravo con una compagnia di teatro sperimentale, la Living Theatre Troupe, ed eravamo molto interessati alle diverse tradizioni teatrali. Ero ossessionato dall’enigma della presenza scenica dell’attore. Così, prima di trasferirmi in Europa, ho viaggiato per un anno studiando il teatro in India, Cina, Giappone e Indonesia, soprattutto a Bali, per scoprire quale fosse il segreto degli attori. Ho scoperto che lo si poteva imparare dagli attori del Kabuki e del No, ma anche dalle arti marziali come l’aikido. Il concetto chiave è la consapevolezza del nostro centro di gravità, poco sotto l’ombelico. C’è un’energia interiore, che in Giappone chiamano ki e in Cina chi, il cui flusso può essere indirizzato verso l’esterno: gli attori del Kabuki e del No la usano. Ho introdotto questo concetto nella formazione degli attori in Inghilterra, quando ancora non lo usava nessuno.
E questa è la fonte della “extraordinarietà” di alcuni attori.
Il mio mix è una specie di melting pot, dove metto insieme le diverse tradizioni, per creare quello che ho definito “un attore extraordinario”, che sta oltre e sopra l’ordinario. Quali sono le caratteristiche che fanno emergere un attore? Non sto parlando delle sue qualità tecniche, dell’uso della voce, della padronanza del corpo, dell’espressività, della coerenza del processo interpretativo. Come spettatori, possiamo esigere queste qualità da qualunque attore professionista. Ma al di sopra di tutto questo, quali sono le caratteristiche che permettono a un attore di emergere rispetto agli altri? Ho visto in scena attori inglesi, italiani e di molti altri paesi: i grandi attori superano le barriere della lingua e della cultura, per raggiungere una grandezza che le trascende ed è universale.
Per certi aspetti questa metodologia ricorda l’approccio di Eugenio Barba e la sua antropologia teatrale. Però Barba cercava di capire quello che rende straordinario un attore rispetto al nostro comportamento nella vita quotidiana. Invece lei è andato alla ricerca degli elementi che rendono un attore straordinario rispetto ai suoi colleghi.
Io lavoro all’interno di una scuola di teatro e con attori professionisti, ma non dobbiamo mai perdere di vista il mondo reale, perché la recitazione deve riflettere la vita. Agli attori ripeto sempre che devono essere curiosi, osservare il mondo che li circonda, osservare le persone per capire che cosa stanno facendo e perché: è l’attenzione ai dettagli che nutre il lavoro di palcoscenico, che deve fondarsi sulla verità della vita.
Lei offre numerosi consigli per diventare attori migliori, per superare i provini, per avere successo e costruirsi una carriera. Ma oltre a questi aspetti professionali, ce n’è anche uno più intimo, personale. Il teatro diventa uno strumento per conoscersi meglio e diventare persone migliori.
Oggi c’è un risvolto politico nel rapporto tra quello che accade in scena e quello che accade fuori scena. Sappiamo che diversi grandissimi artisti erano persone terribili. Basti pensare a Kevin Spacey, uno straordinario attore cancellato dalla storia per una serie di episodi della sua vita privata. Ma pensiamo anche a Caravaggio, di cui continuiamo ad ammirare e apprezzare i capolavori. La regola dovrebbe valere anche per un attore: un conto è quello che fa sulla scena, un altro come si comporta fuori dal palcoscenico. Ma nel nostro mondo, dove tutto è aperto e i social media ci permettono di conoscere i dettagli della vita privata di chiunque, è diventato impossibile separare i due aspetti. Quindi la formazione dell’attore dovrebbe prevedere una vita privata pulita, buona, coerente, che non gli rovini la carriera. Ma questo non può essere un problema del training.
Tuttavia c’è un rapporto tra quello che fai nella vita quotidiana e il tuo lavoro in palcoscenico. Tutto dipende dai tuoi valori: se sono corretti, tutti i pezzi vanno al loro posto. Dipende dal calore, dalla generosità dello spirito, dalla capacità di donare e non dall’egoismo. Servono grinta e resilienza, e questo ti restituisce un atteggiamento positivo, ottimista. Tutto questo ha un impatto sulla vita dell’attore, e dà sapore all’energia che porta nel lavoro.
A volte questo non basta. Anche nel libro parli di attori che attraversano momenti di difficoltà, di depressione. Che cosa accade quando un attore affermato viene a chiederti aiuto?
Arriva un attore che mi confida: “Non sto andando da nessuna parte… Sono bloccato”. Ne parliamo e cerchiamo di chiarire quali possono essere gli obiettivi e cerchiamo di individuare le priorità. Magari quell’attore sta facendo molto cinema, e dunque avrebbe bisogno di tornare sulla scena e ritrovare il rapporto con il pubblico. Oppure non si prende abbastanza rischi. In questo caso ci chiediamo che cosa lo blocchi: può essere cautela e insicurezza, oppure l’eccessiva pressione delle attese del pubblico. Ci sono due aspetti: il primo è la necessità di trovare lavoro, e dunque la giusta energia per un incontro con un regista o un responsabile del casting, o per affrontare un provino; l’altro è fare quel lavoro così eccitante che ti rende “extraordinario”. Ma è molto difficile separare i due aspetti: se sei a tuo agio con te stesso, quell’energia farà dire al regista: “Ecco quello che mi serve nel mio cast!”. Oppure può decidere di non rischiare. Molti attori non ce la fanno, perché sono insicuri e non credono di avere l’energia giusta. Anche il regista è sottoposto a un’infinità di pressioni e deve prevedere il futuro: “Come diventerà questo attore nel mio cast? Andrà d’accordo con il resto della compagnia? Accenderà la luce nella stanza o la farà piombare nell’oscurità?” Il regista deve capire che cosa diventerà quell’attore, che quindi deve portargli il suo io autentico, non una maschera. Deve dargli l’energia che gli serve.
Spesso lei lavora anche fuori dall’ambiente del teatro, con manager e dirigenti d’azienda…
Vorrebbero che gli rivelassi i trucchi che devono usare per influenzare il prossimo! In realtà, sono incontri personali, uno a uno, con manager di tutti i rami, che a volte dirigono multinazionali o organizzazioni globali. Gli imprenditori o i grandi manager salgono spesso sulla scena: devono fare presentazioni pubbliche, o galvanizzare la loro organizzazione e spingerla verso nuovi obiettivi. Tuttavia molti di loro arrivano a quegli incarichi perché sanno capire le strategie industriali e commerciali, e quando devono parlare in pubblico, davanti a molte persone, oppure quando devono catturare e mantenere l’attenzione in un consiglio d’amministrazione, hanno un sacco di cattive abitudini che ne indeboliscono l’autorevolezza e l’impatto. I leader cercano la presenza: trasmettere loro le tecniche che gli attori conoscono bene può fare la differenza.
I leader voglio anche il carisma, ma non dobbiamo tutti essere carismatici. Molti manager hanno personalità introverse. E’ il loro stile ed è inutile cercare di indirizzarli verso un carisma all’americana, più estroverso: suonerebbe falso, inautentico, e i loro collaboratori non lo troverebbero persuasivo. Queste persone devono cercare di utilizzare il loro stile nella maniera più efficace. E’ sempre un problema di autenticità, e vale anche per gli attori: se non è vero, il pubblico non ci crede.
Succede la stessa cosa con gli uomini politici?
Quelli imparano da soli! Hanno i loro trucchi e soprattutto sono circondati da consulenti che li aiutano a far passare il messaggio. Margaret Thatcher aveva un tono di voce molto acuto e ha lavorato con un voice coach per abbassarlo, acquisire gravitas e apparire più autorevole. Per i politici è importante essere efficaci, perché devono dare ispirazione alla gente ma devono anche risultare credibili.
Io per lavoro ne ho incontrati solo un paio e non so se lo rifarei volentieri. Negli USA e in Gran Bretagna abbiamo due leader politici che hanno un rapporto molto tenue con la verità: stanno dando il cattivo esempio a tutta la nazione, diffondendo una cultura morale molto pericolosa. Il mio consiglio ai manager è di trasmettere la verità, qualcosa di credibile. Non possono perdere la fiducia delle persone che lavorano per loro…
Ha una lunga esperienza con giovani allievi attori. Sono cambiati in questi anni?
Negli ultimi anni le scuole di teatro sono diventate molto più consapevoli delle necessità psicologiche degli allievi, per esempio i ragazzi dislessici o quelli con un deficit di attenzione, il cosiddetto ADHD. Cinque o dieci anni fa sapevamo di avere studenti dislessici, che però non ricevevano un grande aiuto. Oggi ricevono un sostegno per affrontare la loro situazione, li capiamo meglio e ci siamo accorti che pensano in un modo diverso dagli altri. Un esperto è venuto a parlarcene a Guildhall e ci ha fatto vedere come la mente di queste persone si muova con grande rapidità da un punto all’altro. Pensano fuori dagli schemi, un aspetto intimamente connesso alla creatività. Visto che a noi interessa proprio l’immaginazione creativa, è importante incontrare persone che ragionino fuori dagli schemi.
Un altro cambiamento rispetto a cinque anni fa, quando il mio libro è stato pubblicato in Inghilterra, è che oggi si discute molto dell’elitarismo delle scuole di teatro. Per anni i nostri allievi attori arrivavano dalle migliori scuole private d’Inghilterra, come Eton: e poi erano loro a prendersi i ruoli principali. Adesso in Inghilterra il programma “porte aperte” offre a ragazzi che vengono da ambienti disagiati o da famiglie a basso reddito l’aiuto e il sostegno necessario per presentarsi alle audizioni per le scuole di teatro. E’ un’opportunità per ragazzi che fino a quel momento non ne avevano avute. Questo ha aumentato la diversità nelle scuole di teatro, dove sono entrare persone di culture differenti, che tra pochi anni saranno professionisti. Stiamo preparando attori di altissimo livello di colore, attori che arrivano dalla classe operaia.
E questo rivitalizzerà anche il teatro.
E’ un po’ quello che è successo negli anni Sessanta, quando le porte dell’università si sono aperte a tutti, anche grazie a un sistema di borse di studio: questo ha prodotto attori come Peter O’Toole e Richard Harris, per certi versi “selvaggi”, che hanno portato in teatro una nuova energia.
I social netwok ci hanno trasformani in attori del nostro dramma. Ma cosa succederebbe se diventassimo tutti attori extraordinari?
Il concetto diventerebbe relativo: troveremmo subito degli attori super-extraordinari! Ma è un problema. Il mondo del teatro sta cambiando: abbiamo tutti accesso ai social media e dunque possiamo tutti diventare star nel nostro piccolo universo. E lo devono fare anche le grandi star, che sentono la pressione. Quanto devo aprire la mia vita privata? E’ un problema che riguarda tutti, vediamo che i social media creano assuefazione. Di recente un’attrice mi ha confidato: “Quando mi stacco dai social, la mia salute mentale migliora”. Dobbiamo ancora imparare a usare i social, sono uno strumento efficacissimo per promuovere una produzione a cui stai lavorando, puoi usarlo per farti pubblicità, ma la differenza tra l’attività professionale e la vita privata dovrebbe essere molto chiara. Se le mescoli, a un certo punto rischi di accorgenti che hai aperto una porta che non riesci più a chiudere.
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