Quando l’ultima nota smette di vibrare

Lo psicopompo di Dario De Luca a Primavera dei Teatri e a Napoli Teatro Festival

Pubblicato il 14/06/2019 / di / ateatro n.

A volte realtà e teatro giocano a riconcorrersi, si superano a vicenda. Significa che la materia brucia, che il lavoro ha senso. Che l’arte tocca un nervo scoperto del presente anestetizzato. Con Lo psicopompo Dario De Luca mette in scena una riflessione sul fine vita che farà discutere. E la presenta (in anteprima a Primavera dei Teatri e al debutto ufficiale a Napoli Teatro Festival) in modo diretto e perentorio mentre langue in Parlamento dal 2016 una legge in materia e mentre echeggia la vicenda, maldestramente fraintesa dai media italiani, di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che si è lasciata morire smettendo di mangiare e bere, con il consenso dei familiari, in un suicidio assistito meditato a lungo e qui da noi frettolosamente scambiato per eutanasia. Ancora inedito, il testo dello spettacolo, firmato dallo stesso regista, ha ottenuto il Premio Sipario Centro Attori 2018. Un uomo ombroso (De Luca) e una donna depressa (Milvia Marigliano) s’incontrano in una sorta di loculo mentale, una stanza dalle geometrie minimaliste rotte solo dalla presenza, al centro, di un elegante canapè. Il raffinato disegno luci e la scelta di far seguire lo spettacolo in cuffia (con la perfetta regia fonica di Hubert Westkemper) determinano un’atmosfera asettica che ricorda gli interni di Edward Hopper.
Si scopre subito che i due sono madre e figlio, che non si vedono da tempo e che l’incontro è inatteso e doloroso per entrambi. Costretti a un’agnizione estrema, si trovano prigionieri di una gabbia di tensioni e coincidenze di sapore pirandelliano. Perché lui è un infermiere che, in maniera clandestina, aiuta i malati terminali a morire, menmtre lei è una professoressa in pensione che ha deciso di farla finita ma non ne ha il coraggio. Perciò ha chiamato un numero di telefono che le è stato suggerito. E le ha risposto suo figlio.
La pièce si sviluppa sull’esile filo che separa un istinto di vita prosciugato dal disamore, dalla perdita, dalla memoria insostenibile di un passato felice, e un istinto di morte fermentato lentamente e ormai pronto a metabolizzarsi in energia distruttrice. Lei non cerca la morte come via di fuga ma come punto d’arrivo razionalmente determinato. Sente la trama della propria vita arrivata a compimento. La morte, il suo desiderio, il suicidio come resa, aberrazione, scelta moralmente riprovevole o come atto estremo di libertà e autocoscienza, gli aspetti tecnici e giuridici del dare e ricevere la morte sono trattati in modo serrato e sobrio, ma con un’urgenza dettata dalla situazione contingente che riporta sempre i personaggi alla concretezza, lasciando agli spettatori la possibilità di sviluppare per proprio conto, mentre il dialogo si dipana in una dialettica serrata ma placida, i riferimenti filosofici impliciti (dal Seneca delle Lettere a Lucilio allo Schopenhauer del Mondo come volontà e rappresentazione fino al Freud del Disagio della civiltà).

foto Angelo Maggio

Dunque da quasi dieci anni, dalla morte del fratello, l’infermiere fa lo “psicopompo”, ovvero il traghettatore di anime. Spiega alla madre, avida di dettagli, che lui di solito usa i barbiturici per animali che si procura nei suoi frequenti viaggi in Messico. Oppure il metodo del sacchetto, su cui però resta vago e che puntualmente riapparirà nella catarsi finale. Con i “clienti” l’infermiere condivide i pochi momenti di intimità prima della fine. Si sente una guida. Ma in realtà dallo scavo dei complicati rapporti interpersonali emerge la sua sofferenza per l’anaffettività della madre nei suoi confronti, la sua gelosia verso il fratello più grande, talentuoso violinista stroncato da un male oscuro. Quando ebbe la prima manifestazione della malattia, sul palco durante un concerto, lei pensò: «Ecco ci hanno scoperto, sono venuti a prenderci la nostra felicità». E da quel momento fu un precipitare per tutti. «Quando finisce la vibrazione dell’ultima nota di un concerto? Non la vibrazione acustica, ma quella emotiva?» chiede al figlio che mette sullo stereo un altro vinile di musica classica.  «Quando finisce la vibrazione di una vita?»
Ascoltando la musica cara al fratello, l’infermiere ha una delle sue crisi che si manifestano in sforzi di vomito e contorsioni. Sono accenni, improvvisi e non sempre convincenti, a una partitura fisica del dolore che a un cero punto prende la forma di una deposizione. Dalla postura del violinista a quella del Cristo deposto il passaggio in effetti è suggestivo, ma l’intervento della madre resta senza passione. È il suo unico trasporto emotivo nei confronti del figlio “rimasto”, eppure il gesto risulta non liberatorio e tragico, ma freddo, la figura immotivata se non come didascalia del testo.
La conclusione è prevedibile quanto inevitabile, com’è nelle tragedie. In una giornata di temporale, il figlio-infermiere tornerà nella casa con bombole e sacchetti. Poche frasi banali, mentre infila i guanti monouso. Un ultimo disco (Brian Eno, Music for airport) e un bacio sulla guancia: la testa infilata nel sacchetto e il gas, prima alla madre poi a se stesso. All’ultimo, dopo essersi sfilato un guanto, il figlio stringerà la mano della madre, riunendosi finalmente a lei nel mistero della morte, nella contemplazione dell’abisso.

foto Angelo Maggio

Milvia Marigliano è straordinaria interprete di una figura difficilissima da prendere sul serio. Ed è brava anche nell’adattarsi alla novità tecnica che le consente di lavorare su un’emissione franta, sussurrata. Si sente il sospiro, il singhiozzo trattenuto, il nodo in gola. L’interpretazione di De Luca è misurata e generosa nel farsi da parte, nella stasi, nella postura dell’ascolto e della pietas. Nell’ambito del festival Primavera dei Teatri, giunto alla sua ventesima edizione, lo spettacolo è andato in scena a Cosenza in uno dei BoCs Art sorti sulle rive del fiume Crati. Si tratta di strutture destinate a residenze artistiche con grandi finestre vetrate, come la vetrinA di un negozio, o, in questo caso, come una quarta parete sempre sfuggente e sempre presente. Lo spettatore poteva provare la sensazione di essere distanziato in una visione sterilizzata e al tempo stesso acusticamente risucchiato all’interno del loculo scenico, traslato in una esperienza di sdoppiamento percettivo che ha forse a che fare con il disagio di ciascuno di fronte a un tema tanto delicato e complesso.




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