#Duettocritico | Milo Rau per principianti
In occasione delle repliche di La Reprise – Histoire(s) du théâtre (I) al Piccolo Teatro di Milano
Formatosi con il sociologo Pierre Bourdieu e il filosofo Tzvetan Todorov, Milo Rau, regista svizzero di origini rumene, dopo quindici anni di carriera ha ormai uno stile inconfondibile, basato su un’attenta analisi filologica, storica e sociologica degli avvenimenti e dei luoghi in cui avvengono, come ha dimostrato fin dal suo primo lavoro teatrale, Last Days of the Ceausescus (2009), sul processo farsa che ha portato alla morte del dittatore rumeno Nicolae e di sua moglie Elena il 25 dicembre 1989.
In questi anni Milo Rau con il suo International Institute of Political Murder (fondato nel 2007) ha costruito una serie di dispositivi spettacolari dalla forte valenza politica. In presa diretta con la realtà, questi “documentari teatrali” portano in scena episodi drammatici e insieme emblematici della storia recente: oltre alla vicenda della caduta del regime in Romania (Die Letzten Tage der Ceausescus, 2009), le radio che hanno ispirato i massacri del Ruanda (Hate Radio, 2011-12), la strage di Utoya rivissuta nella delirante autodifesa dell’assassino (Breivik’s Statement, 2012), i processi contro l’avanguardia artistica voluti dal regime di Vladimir Putin (Die Moskauer Prozesse, 2013).
Ogni volta la “rivelazione del reale” (il titolo della retrospettiva a lui dedicata alla Sophiensale di Berlino nel 2013-14) spiazza e colpisce con la forza della provocazione – che è in realtà lo scandalo del reale e del suo orrore. In questo “Realtheater” (la definizione è di Alexander Kluge), la prima fase di lavoro prevede un meticoloso lavoro di documentazione, perché solo l’esattezza può garantire la credibilità della ricostruzione: a ispirare lavori di questo genere dev’essere l’etica del filologo e dello storico.
C’è poi ogni volta la definizione di un dispositivo che lavora su due piani: il primo è l’effetto di verità determinato dalla precisione dei dettagli e della vicenda; il secondo è il piano della rappresentazione, che viene brechtianamente esplicitato e sottolineato, e spesso produce effetti stranianti, anche ricorrendo all’intermedialità.
Gli spettacoli di Milo Rau utilizzano un dispositivo tradizionale, con il pubblico sistemato frontalmente di fronte (o intorno) allo spazio scenico o davanti a uno schermo, ma superando e mettendo in crisi le tradizionali modalità di rappresentazione del reale e in particolare della violenza, con il suo mostruoso fascino mediatico.
Effetto di reale
Il regista rivendica la dimensione politica del proprio lavoro fin dall’insegna del suo International Institute of Political Murder, che mette l’enfasi sul lato oscuro e sulla criminalità del potere. Uno dei principali fili rossi del suo progetto è la frizione tra la realtà (che si tratti di un evento storico o di un fatto di cronaca), la finzione teatrale e la realtà mediata dal cinema o dal video, con immagini registrate o riprodotte dal vivo, con attori che entrano ed escono dalla parte, che esibiscono od occultano il loro vissuto. A rendere evidente e insieme straniante il meccanismo sono gli effetti di reale e gli effetti di presenza che Milo Rau utilizza con intelligenza provocatoria e le domande che si pone sulla rappresentabilità della violenza.
L’espressione “effetto di reale” è stata magistralmente utilizzata in ambito letterario da Roland Barthes nel saggio “L’effetto di reale” (in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1988, p. 158). In ambito performativo, è l’uso consapevole di frammenti o di elementi di realtà per rompere (o rendere porosa) la barriera tra finzione e realtà, per contaminare, mettere in discussione o trascendere lo statuto finzionale dell’evento, e dunque anche in piano del reale, attraverso le caratteristiche fisiche, sociali o psicologiche dei performer (spesso non professionisti), con la presenza di animali o di bambini (notoriamente meno “controllabili” di un attore), con elementi autobiografici introdotti nella narrazione o con alimenti da consumare con il pubblico, o ancora inserendo elementi di casualità, imprevedibilità e rischio, ricorrendo a documenti e oggetti ostentatamente “reali”, aprendosi a spazi dove continua a scorrere la vita quotidiana.
Hate Radio (2011)
Hate Radio è dedicato ai massacri del Ruanda, per la precisione alla stazione radiofonica che scatenò l’ondata di violenza che portò al genocidio di centinaia di migliaia di Tutsi, soprattutto a colpi di machete, in poco più di 100 giorni: 800.000-1.000.000 vittime tra il 6 aprile e la metà del luglio 1994. Le differenti modalità di rappresentazione, oltre all’effetto straniante, mettono in luce il ruolo determinante dei media nella testimonianza storica. In Hate Radio non c’è un palco: in mezzo alla sala, un grande cubo ricoperto di tendine veneziane è sistemato tra due gradinate. All’ingresso vengono distribuite delle radio portatili con le cuffie. Prima dello spettacolo, una donna spiega come attivarle, controllando che tutto funzioni. A differenza degli ipod, è normale sentire lo “sfrigolio”della radio.
Ad aprire lo spettacolo sono le testimonianze di alcuni ruandesi scampati al massacro, proiettate in video su pannelli che poi si aprono sulla riproduzione iperrealistica dello studio e della cabina di regia della famigerata Radio des Milles Collines. I corpi e le voci dei testimoni, ma registrati e mediati dal video, lasciano spazio alla finzione del qui e ora teatrale. Siamo dopo la fine del conflitto in Ruanda del 1994, piccolo paese dell’Africa centro-orientale poco più grande della Lombardia, dove hanno convissuto per secoli tre popolazioni, gli Hutu (85%), i Tutsi e i Twa, che hanno condiviso la stessa cultura, lingua e religione. Nel 1919 la Società delle Nazioni affidò il paese al Belgio, che lo ridusse a colonia, dando il potere alla minoranza Tutsi e alimentando così l’odio tra la maggioranza degli Hutu. Questo fino al ’62, l’anno dell’indipendenza del Ruanda, quando il nuovo partito degli Hutu, il Parmehutu, si ribellò alla casta dominante, fondando la Repubblica e iniziando un lungo periodo di lotte contro i Tutsi, spesso costretti all’esilio nei paesi confinanti. Nel 1988 alcuni rifugiati Tutsi in Uganda crearono il Fronte Patriottico Ruandese: iniziò una guerra civile, fino a quando le Nazioni Unite negoziarono un accordo per spartire il potere tra le due etnie. Ma il 6 aprile 1994 l’aereo che trasportava il presidente ruandese esplose in circostanze non chiare: quel giorno ebbe inizio il Genocidio del Ruanda, durante il quale venne romassacrati a colpi di machete circa 800.000 ruandesi di etnia Tutsi.
I quattro sopravvissuti raccontano le loro storie, frammenti di ricordi che vengono diffusi negli auricolari delle radio, poi le proiezioni spariscono e le tende si alzano. Una donna e due ruandesi. Una finestra li separa dal tecnico e dj della radio, che sceglie la musica. In sala con loro c’è anche un militare, forse per controllare che tutto proceda come deve. Assistiamo a una puntata, realmente trasmessa, della RTLM/Radio-Télévision Libre des Mille Collines, la stazione radio del fronte per l’indipendenza Hutu. Un’ora circa in cui i tre speaker incitano, tra una canzone e un gioco al telefono, l’odio verso gli “scarafaggi” Tutsi: la radio, ai tempi in cui internet non è ancora nelle case, diventa in questa guerra il dispositivo di propaganda più efficace.
“Come funziona il processo di affermazione dell’ideologia razzista? Come è possibile epurare l’individuo della sua umanità?” Milo Rau si interroga e ci interroga, cercando di capire come sia stata manipolata la popolazione, perché qui si parla di condizionare le idee, fino a convincere a rifiutare l’altro vedendolo diverso, minacciandolo, denunciandolo o uccidendolo.
Breivik’s Statement (2012)
In Breivik’s Statement (2012) l’attrice Sascha Ö. Soydan recita la dichiarazione di Anders Breivik, il neonazista norvegese che il 22 luglio 2011 a Oslo e sull’Isola di Utoya uccise 77 di persone, in maggioranza giovani socialdemocratici che partecipavano a un campo estivo. 2083: Una dichiarazione europea d’indipendenza di Anders Breivik era stato letto dall’autore. In realtà il testo è in buona parte frutto del copia e incolla di documenti di vari ideologi di estrema destra del 17 aprile 2012 in un’aula di tribunale, nel corso di un processo per strage: si tratta dunque di un atto giudiziario, di un documento storico. Ma quel frammento di realtà viene spostato in una dimensione performativa, sul piano della finzione. Breivik credeva nelle tesi aberranti che esponeva in tribunale, l’attrice che pronuncia quelle parole presumibilmente (e sperabilmente) no. Al termine del processo Breivik venne dichiarato sano di mente e condannato a 21 anni di reclusione (la pena massima in Norvegia). Le tesi suprematiste di Breivik appaiono oggi, in un dibattito pubblico degradato e inquinato da sfoghi razzisti e xenofobi, meno bizzarre di qualche anno fa: quelle che all’epoca parevano le farneticazioni di un folle, paiono riecheggiare oggi nelle dichiarazioni di qualche politico “sovranista”.
The Moscow Trials (2014)
Per il lungometraggio The Moscow Trials, il regista e la sua équipe hanno ricostruito nel marzo 2013 un’aula di tribunale dove mettere in scena nell’arco di tre giorni il processo contro alcuni artisti dissidenti colpevoli di aver organizzato nel 2003 la mostra d’arte contemporanea Attenzione! Religione, e contro le Pussy Riot, condannate a tre anni di reclusione per la loro irruzione del 17 febbraio 2012 nella Cattedrale di Cristo Salvatore, a Mosca, durante una cerimonia religiosa, per cantare una preghiera punk con il ritornello “Madonna, liberaci da Putin”.
Rau ha convocato presso il Sacharov Centre di Mosca sia gli artisti perseguitati sia i loro avversari, appartenenti alla destra religiosa e politica, e ha filmato il procedimento. Nel corso dei tre giorni in cui si è inscenato The Moscow Trial, Milo Rau ha creato una realtà parallela, una distopia in cui si sono trovate immerse decine di persone. A dare ulteriore “effetto di reale”, le proteste e le intimidazioni di un (vero) gruppo di cosacchi contrari all’operazione e l’irruzione delle forze di polizia per interrompere la performance, provocando uno scandalo internazionale.
Compassion: The History of a Machine Gun (2016)
Con Compassion: The History of a Machine Gun torniamo al genocidio del Ruanda: è il terzo capitolo dell’opera di Rau dedicata alla storia africana. Il titolo fa riferimento a Dogville di Lars Von Trier: vince sempre chi ha la mitragliatrice in mano. La protagonista, Ursina Lardi, è una delle attrici di punta della Schaubühne di Berlino. In un toccante monologo in prima persona, tra foto, aneddoti e ricordi, mescola i viaggi alla base della creazione dello spettacolo insieme a Milo Rau, con l’esperienza di una volontaria nell’Africa centrale nei primi anni Novanta. La narrazione dei drammi psicologici, dalle violenze subite, viste e vissute all’impreparazione dei volontari internazionali, al razzismo evidente, alle fughe, alla fame, alla sete , con la musica classica a tutto volume per coprire le urla delle vittime, è intima, concitata e commovente.
Lardi racchiude nella sua prima persona, che unisce realtà e finzione in un’ambiguità disarmante, tutte le esperienze raccolte nella preparazione dello spettacolo, incarnando il dolore e il massacro universale, sopra il cumulo di macerie, l’immondizia del mondo, i ricordi abbandonati di un mondo che non vede. Ma in un “occidente” che ha dimenticato c’è chi, scampato alle torture, vive e ricorda: è Consolate Sipérius, l’altra interprete dello spettacolo, a cui è affidato il breve prologo e l’altrettanto rapido epilogo di una messinscena a cui assiste senza intervenire. Scampata a soli quattro anni proprio da quel massacro, in cui ha perso tutta la famiglia, e poi adottata in Belgio e come racconta nelle videoriprese live proiettate sul grande schermo a centro scena. Realtà e finzione si uniscono in una unica narrazione: cos’è finto e cos’è vero? Queste domande, alle quali non si sa rispondere, diventano devastanti di fronte alla freddezza con cui Ursina Lardi recita il suo monologo: un distacco inumano e straniante, che lascia sorpresi e perplessi, alla ricerca di una ritrovata compassione.
Empire (2016)
In Empire cinque attori di diverse nazionalità raccontano frammenti della loro autobiografia, segnata dall’esilio. Emergono i drammi della storia contemporanea, dalla Siria, dalla Grecia e dalla Romania, ma rivissute da cinque attori, e dunque da cinque sacerdoti della finzione, che proprio attraverso il teatro cercano di arrivare non tanto alla realtà storica, ma a una verità umana e dunque condivisibile.
Anche in questo caso Milo Rau utilizza una delle sue figure retoriche ricorrenti: la recitazione live e in primo piano degli attori viene doppiata in diretta sullo schermo, in una continua frizione tra il reale e la sua riproduzione.
Five Easy Pieces (2016)
Era il 1917 quando Igor Stravinsky compose le Cinq Pièces Faciles, una sequenza di cinque componimenti “facili” per formare giovani pianisti. Nel 2005, al Guggenheim Museum di New York, Marina Abramović con Seven Easy Pieces ripropose sette sue performance che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea tra gli anni Sessanta e Settanta.
Milo Rau usa la tragica vicenda del serial killer Marc Dutroux, l’elettricista belga che tra il 1986 e il 1996 (anno del suo arresto) ha torturato sei ragazze tra gli 8 e i 18 anni, uccidendone quattro, per scandagliare la capacità di un paese di costruire la propria identità partendo da una crisi nazionale. Ma la tragedia diventa momento per formare, attraverso la ricostruzione degli eventi, sette giovani attori al crudele gioco del teatro. I protagonisti di Five Easy Pieces sono infatti sette bambini (provenienti da CAMPO, Arts Centre di Gent), della stessa età delle vittime.
Five Easy Pieces affronta il problema dell’esistenza del male, nella sua forma più lancinante, quando si colpiscono gli innocenti. Siamo di fronte a un orribile fatto di cronaca nera, in apparenza lontano da tematiche esplicitamente politiche – anche se la gestione delle indagini da parte della polizia e della magistratura ha giustificato il sospetto di una rete più ramificata e dunque di protezioni di alto livello. Ancora ancora più lontana da una impostazione rigidamente ideologica è l’idea di far raccontare la storia di un pedofilo da sette bambini tra gli otto e i tredici anni: un serial killer pedofilo dal punto di vista dalle potenziali vittime.
Eppure Five Easy Pieces è uno spettacolo radicalmente politico, anche nelle tecniche di straniamento brechtiano che governano il dispositivo messo a punto dal regista svizzero. Lo spettacolo inizia con una sorta di interrogatorio, con l’unico attore adulto (Peter Seynaeve), seduto nella penombra, ma con l’immagine video del suo volto che campeggia ingrandita sullo schermo.
Una serie di domande ai bambini offre l’occasione per le autopresentazioni: chiede i nomi e l’età, ma consente altre considerazioni a Elle Liza (“In Africa sono una bianca, in Belgio sono una nera” e poi canta Imagine), Pepijn (“Non piango mai, almeno in pubblico”), Willem, Polly, Maurice (“Quando sono nato ero quasi morto”), Winne (che ama danzare sulle note di Eric Satie), Rachel. Le domande allargano e approfondiscono l’orizzonte e sono il frutto del lavoro di preparazione dello spettacolo diventando anche un interrogatorio. All’inizio viene mostrata una foto: “Sì, lo riconosco, è Patrice Lumumba”, l’eroe dell’indipendenza del Congo (che era proprietà personale del re del Belgio), rapito, torturato e ucciso nel 1961.
Una seconda foto, alla fine del prologo: tutti i bambini lo riconoscono: “Ma quante ragazze ha ucciso?”, “Che cosa gli ha fatto?”… Solo a questo punto, dopo che i piccoli protagonisti – ma non il casting director – ci hanno raccontato chi sono, può iniziare lo spettacolo: “Che ruolo vuoi fare?”, “Chi vuol fare Dutroux?” Ma Dutroux è lui: è il casting director, il regista in scena, l’investigatore che conduce l’interrogatorio in scena e il mostro.
Prima di iniziare i “cinque pezzi facili” è però necessario un altro passaggio, che collega il fatto di cronaca alla Storia. La cerimonia della proclamazione dell’indipendenza del Belgio viene ricostruita in un video da un gruppo di attori adulti, ai quali poi subentrano con ruoli analoghi i bambini in scena (c’è anche quello che gioca a fare il Re del Belgio, che era il proprietario della gigantesca colonia africana). A fare da collante tra i due livelli – quello della Storia e quello della cronaca nera – è la rimozione collettiva e mediatica sugli orrori del colonialismo e sulle imprese di Dutroux, lasciato libero troppo a lungo, tanto da far sorgere il sospetto di complicità ad alti livelli.
In questa sequenza, come nei “cinque pezzi facili”, Milo Rau mette in atto un sistematico meccanismo di straniamento, attraverso la giustapposizione tra teatro e cinema (le immagini in bianco e nero proiettate sullo schermo che campeggia sopra gli attori), tra diretta e immagini preregistrate (i filmati con gli adulti che danno inizio alle ricostruzioni), tra adulti e bambini. Le scene interpretate dal vivo vengono doppiate e proseguite in video: la troupe dei bambini allestisce un piccolo set (lo spazio della finzione), cattura il suono con un grosso microfono, batte il ciak – ma la telecamera continua a essere nelle mani dell’unico adulto: l’intrusione del video evoca la metafora dello stupro.
Il primo atto dei “cinque pezzi facili”, Padre e figlio, ci porta nell’abitazione dell’anziano padre del serial killer. Le domande si fanno più difficili, le risposte impossibili: “Che cosa faresti se tuo figlio diventasse un assassino?”, “Avete mai ucciso?”. Poi siamo nel luogo in cui Dutrox aveva seppellito una delle sue vittime, nell’ufficio di un investigatore, e poi nella cella dove era rinchiusa una bambina (Saggio sulla sottomissione): è la tenerissima e agghiacciante lettera di una delle piccole prigioniere, il momento emotivamente più feroce, con il mostro-intervistatore-videomaker che chiede alla piccola protagonista di spogliarsi. È finzione, ma è ugualmente terribile e perturbante.
C’è in questo lavoro il rischio di un’intrusione morbosa, di spingere i bambini all’esibizionismo: ma sono le stesse intrusioni da cui sono già bombardati quotidianamente, con sollecitazioni emotive, senza la possibilità di conoscere i meccanismi che li generano, senza la possibilità di conoscere e discutere i fatti. C’è fiducia nell’intelligenza di questi attori bambini, nel fatto che siano persone e che dunque abbiano il diritto di capire e raccontare.
Poi entriamo nell’abitazione dei genitori di una ragazzina scomparsa, con due bimbi a fare la parte dei grandi, e a fingere di piangere: le lacrime sono un trucco da set, recitare è un gioco, forse ci salva dall’angoscia. Il prefinale, il quinto “pezzo facile”, il mesto funerale di una delle bambine, ha un titolo pasoliniano, Cosa sono le nuvole? Le nuvole sono quelle che non potevano vedere le piccole vittime nelle loro celle, sono quelle che non potranno vedere i bambini che abitano i mondi sotterranei che Dutroux – dicono – disegna ossessivamente nella sua cella.
È un dispositivo complesso e stratificato, malgrado l’apparente semplicità dell’allestimento. I sette giovani interpreti sono in primo luogo sé stessi, con i loro ricordi, il loro sguardo, le loro emozioni, i loro pensieri sulla vita e sulla morte, sulla libertà e la violenza, sulla felicità. Alla domanda sulla cosa più raccapricciante, quasi tutti finiscono per rispondere che è “il bacio della mamma sulla mia bocca”. Ma sono anche attori: sono i protagonisti della vicenda Dutroux, che via via interpretano con sorprendente maestria. Così l’intero spettacolo diventa una riflessione sul rapporto tra realtà e finzione: qualcuno spiega che preferisce recitare al cinema, perché si possono far vedere meglio espressioni ed emozioni, qualcuno invece sentenzia che “recitare è come sognare”.
Affidare alle vittime (ovvero ai bambini) il ruolo degli adulti, di coloro che non li hanno saputi proteggere, è una scelta paradossale, di provocatoria efficacia retorica. Il cortocircuito tra la leggerezza innocente degli interpreti e l’orrore sadico, l’indifferenza, l’inadeguatezza degli adulti genera un vortice di emozioni e riflessioni. Per il pubblico teatrale degli adulti (a Prato la replica era inspiegabilmente vietata ai minori di 15 anni, e dunque ai coetanei degli attori) si tratta di vedersi in uno specchio rovesciato, dove la morbosità della cronaca nera, la fascinazione perversa dell’orrore, viene azzerata dal meccanismo di una rappresentazione che rifiuta il realismo (ovvero la retorica della reinvenzione e ricostruzione) e solo così può puntare alla rivelazione del reale.
Per i bambini che hanno partecipato al laboratorio, è stato un processo di conoscenza e di consapevolezza. Come affrontare argomenti e temi che nelle conversazioni familiari vengono rimossi o trattati con veli di cautela? I protagonisti di Five Easy Pieces hanno le loro opinioni, il loro punto di vista. In una intervista al “Guardian”, lo stesso Rau ha dichiarato che i bambini in scena sono serviti a dare il giusto distacco dagli eventi, grazie alla loro capacità di suscitare riso anche quando si parla di argomenti tristi.
Il processo di lavoro di Milo Rau è sorretto dalla la certezza che la forza dei documenti, evidenziata dal distacco di una ricostruzione anti-illusionistica, costruisca consapevolezza. E che la rappresentazione non compiaciuta dell’orrore possa condurre alla catarsi. Il processo – nel duplice senso del termine – comporta qualche rischio. Rau ne è consapevole, come dimostra la scelta di sovrapporre il ruolo del casting director e quello di Dutroux. Il percorso di conoscenza – gustare il frutto dell’albero del bene e del male – comporta la perdita dell’innocenza. Riproporre la terribile situazione di prigionia, con il racconto dello stupro in prima persona, dopo essere stata quasi obbligata a spogliarsi, è una violenza, anche se travestita da “gioco” (to play). C’è violenza nella reclusione delle vittime da parte del serial killer, c’è violenza anche nell’esibizione dei corpi e nel racconto della tortura, e il pubblico, attento voyeur, si fa complice, ridendo delle ingenuità di cui solo i più piccoli sono capaci.
Ma se non vogliamo rimuovere l’orrore, dobbiamo provare a distanziarlo e oggettivarlo (rappresentarlo) e a illuminarlo (il video è luce). Se il progetto è pensato come momento di formazione, viene da chiedersi se e in quale modo i bambini siano cresciuti in questo percorso, se siano riusciti a dare un volto alla violenza, senza che il narcisismo dell’attore prenda il sopravvento, riflettendo sull’identità di una nazione e concretizzando l’immaginario di un teatro politico.
General Assembly | Weltparlament | Assemblée générale (2017)
L’azione estetica di Milo Rau ha trovato anche uno sbocco direttamente politico, con modalità che ricordato quelle di alcuni artisti visivi impegnati in processi di creazione partecipata e di attivismo sociale. Tra il 3 e il 5 novembre 2017, alla Schaubühne di Berlino, Milo Rau e lo IIPM hanno convocato una General Assembly | Weltparlament | Assemblée générale, ovvero il “primo parlamento della storia dell’umanità”, con delegati da 60 paesi (www.general-assembly.net). L’obiettivo politico era mettere alla prova il governo della Repubblica Federale Tedesca facendogli sentire il parere di coloro che subiscono gli effetti della politica economica ed estera tedesca, ma non hanno voce in capitolo.
Dal 2018 Milo Rau è direttore del teatro cittadino di Gent, in Belgio, Ntgent, e ha stilato un manifesto in dieci regole, simile nello spirito al Dogma 95 di Lars von Trier, che chiunque lavori in quel teatro deve sottoscrivere.
Gent Manifesto (2018)
Uno: non si tratta più soltanto di ritrarre il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa.
Due: il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e i relativi dibattiti devono essere resi accessibili al pubblico.
Tre: l’autorialità spetta esclusivamente a coloro che sono coinvolti nelle prove e nelle performance, qualunque sia la loro funzione – e a nessun altro.
Quattro: l’adattamento letterale dei classici sul palco è proibito. Se un testo sorgente – sia esso letteratura, cinema o teatro – è utilizzato all’inizio del progetto, può occupare solo al massimo il 20 per cento del tempo di esecuzione finale.
Cinque: almeno un quarto del tempo di prova deve svolgersi al di fuori del teatro. Uno spazio teatrale è un qualsiasi spazio all’interno del quale sia stata provata o eseguita una rappresentazione teatrale.
Sei: almeno due lingue diverse devono essere parlate sul palco in ogni produzione.
Sette: almeno due attori sul palco non devono essere attori professionisti. Gli animali non contano, ma sono i benvenuti.
Otto: il volume totale del materiale di scena non deve superare i 20 metri cubici, cioè deve poter essere contenuto in un furgone che può essere guidato con una normale patente di guida.
Nove: almeno una produzione per stagione deve essere ripetuta o eseguita in una zona di conflitto o di guerra, senza alcuna infrastruttura culturale.
Dieci: ogni produzione deve essere mostrata in almeno dieci località in almeno tre paesi. Nessuna produzione può essere rimossa dal repertorio NTGent prima che questo numero sia stato raggiunto.
(Gent, 1 Maggio 2018, traduzione di Francesco Alberici per Doppiozero)
La Reprise – Histoire(s) du théâtre (I) (2018)
Con La Reprise – Histoire(s) du théâtre (I) il regista inizia un’inchiesta sulla nascita della tragedia a partire da fatti di cronaca realmente accaduti: Rau si interroga sulla necessità di mettere in scena la violenza e sul modo in cui farlo. Lo spunto è il fantasma dell’Amleto di Shakespeare: qui siamo però nella Liegi al tempo delle pari opportunità, della crisi economica e della disoccupazione. Il giovane Ihsane Jarfi viene ammazzato di botte da un gruppo di conoscenti per la sua omosessualità, poi abbandonato per strada e ritrovato solo giorni dopo da un uomo che portava a passeggio il cane. Ma prima di arrivare all’omicidio, si inizia con una video intervista: i protagonisti ripropongono i loro provini e lo fa anche l’attore di origini ghanesi Tom Adjibi, che per farsi scegliere finge di conoscere l’arabo.
In cinque capitoli il regista svizzero agisce sulla sensibilità degli spettatori, prima con una violenza estrema e intollerabile, poi facendo riflettere sul nostro ruolo, quello di voyeur della scena e della vita, fino all’ultimo capitolo in cui Rau chiede la rottura di un patto prestabilito: se per Roland Barthes (e per gli antichi greci) la morte doveva restare fuori dalla scena, Rau la esaspera trasformandola in soggetto da analizzare e ricomporre. In fondo “la storia del teatro” è proprio questo, rappresentazione della morte e del sacrificio dell’uomo. Ma prima del passage à l’acte cala il buio, in cui lo spettatore, ancora una volta, rimane sospeso nell’ambiguità della finzione.
Livelli di realtà
La dimensione politica del teatro di Milo Rau, prima che dai drammatici temi trattati e delle atrocità che denuncia, viene dalla stratificazione di diversi livelli di realtà, dalle faglie che li attraversano e dal loro impatto sul nostro immaginario. Se oggi per noi la realtà è un fantasma immaginario plasmato dai media, diventa necessario decostruire il meccanismo con cui questa realtà immaginaria viene costruita. Milo Rau intreccia il qui e ora dell’evento teatrale, il rimando al reale (il fatto di cronaca o l’episodio storico su cui è centrata l’indagine), la riproduzione filmica o video, in diretta o registrata.
In teatro, l’effetto di reale da un lato può portare maggiore credibilità, e dunque efficacia, alla scena. Tuttavia nel momento stesso in cui lo fa, rende evidente il regime finzionale dell’evento spettacolare. Proprio nel momento in cui cerca di superare l’illusione, la denuncia come tale. Una volta che ci ritroviamo immersi nel flusso comunicativo e informativo – e travolti dall’epidemia di fake news e di mistificazioni (e di rimozioni) che caratterizzino l’attuale panorama mediatico – l’effetto di reale mette in cortocircuito i diversi livelli di realtà (e di irrealtà) in cui siamo immersi. Da autentico brechtiano, utilizzando vari effetti di reale Rau crea sofisticati effetti di straniamento, che creano cortocircuiti illuminanti.
Astratto dal suo contesto, un documento storico come la deposizione di Breivik – con la sua logica apparentemente stringente e le sue conclusioni criminali – getta una luce diversa sullo stragista, che non appare come un pazzo esaltato, ma come un essere umano intrappolato dai luoghi comuni dell’estrema destra in una logica aberrante. E così getta una nuova luce sui politici che utilizzano temi analoghi.
In questa direzione va anche il sistematico ricorso alla telecamera, per riprodurre su grande schermo l’azione teatrale (con i volti dei protagonisti in primo piano): il meccanismo della riproduzione tecnica della realtà viene smascherato davanti agli occhi dello spettatore.
La meticolosa ricostruzione dell’evento di fronte allo spettatore, come nella parte centrale di Hate Radio, dove viene riprodotto con maniacale realismo uno studio radiofonico, nella scena immersiva di The Moscow Trials, o nella scena del massacro celebrata con sadica violenza nella Reprise, si contrappone alla riproduzione della realtà sceneggiata nelle fiction, nei tribunali o nei telegiornali, fino ad apparire più vera delle forme istituzionali.
In altri casi a mettere in discussione lo statuto della realtà è la narrazione autobiografica, dove l’esperienza personale, singolare, si contrappone alla verità “oggettiva” delle statistiche e delle ricostruzioni storiche. Ma con un’avvertenza: i narratori scelti da Rau sono attori, e dunque è possibile che fingano, che anche in questo caso recitino una parte.
Ogni volta Rau mette in attrito diversi “livelli di realtà”. Una realtà spesso finzionalizzata, teatralizzata, mediatizzata. Come nota Hans-Thies Lehmann, i media non cancellano l’effetto di presenza, ma ne declinano ulteriormente le possibilità (Hans-Thies Lehmann, Il teatro post-drammatico (1999), Cue Press, Imola, 2017). La strategia di Rau è una declinazione mediatica e post-moderna dell’effetto di straniamento (Verfremdungseffekt) brechtiano. Non vengono messi a confronto due “segni” contrastanti (la donna in lacrime cui si affianca il clown che la imita beffardamente, come in Brecht), ma due modalità di rappresentazione dello stesso evento, oppure la rappresentazione di un evento con effetti di reale che ne mettono in discussione lo statuto e il senso, o un documento vero (ovvero storico) proiettato nella finzione. L’obiettivo di Brecht e di Rau è lo stesso: indurre lo spettatore a dubitare di ciò che vede, e dunque trascendere l’adesione emotiva per porsi domande e mettere in dubbio i luoghi comuni di cui è portatore.
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