#BP2019 | Lo Stato, le Regioni e lo spettacolo
Il tema delle “autonomie differenziate” ha molto a che a fare con il riequilibrio territoriale fra le aree del Paese. A questo proposito, si sta diffondendo una certa preoccupazione su un improbabile trasferimento del FUS alle Regioni, per cui ho cercato di capire lo “stato dell’arte” attraverso gli atti e i documenti ufficiali che sono riuscito a trovare.
Ebbene, la realtà ci dice che:
# 3 regioni (Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna) hanno sottoscritto il 28/2/2018 con il Governo “Accordi preliminari” per il trasferimento di nuove competenze, convenendo di “circoscrivere il negoziato solo ad alcune materie d’interesse comune quali la tutela dell’ambiente, la tutela della salute, l’istruzione, la tutela del lavoro e i rapporti internazionali e con l’UE”;
# 7 regioni (Campania, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria) hanno assunto deliberazioni per aprire un confronto con il Governo sul trasferimento di nuove competenze e solo la Campania include nelle materie oggetto del confronto le “attività culturali”;
# le Regioni in un recente incontro svoltosi a Milano, hanno riaffermato la natura di “materia concorrente” delle attività culturali, chiedendo di partecipare alla definizione degli obiettivi e delle risorse attraverso lo strumento dell’accordo di collaborazione (già sperimentato per le residenze artistiche);
# il 28/2/2019 il Governo ha approvato il disegno di legge delega per il riordino della materia dello spettacolo in cui all’art.1 – fra i principi e i criteri direttivi della delega – si individua “la riforma della gestione, da parte del MiBAC, del FUS”, dal che si può dedurre che il Governo intende lasciare la titolarità del FUS al Ministero, come, tra l’altro, ha affermato recentemente nell’ultima seduta della Consulta per lo Spettacolo il Ministro Bonisoli;
# lo stesso disegno di legge delega, sempre fra i principi e i criteri direttivi della delega, fa riferimento alla “armonizzazione degli interventi dello Stato con quelli degli enti pubblici territoriali anche attraverso lo strumento dell’accordo di programma”.
Mi pare dunque evidente che l’attenzione di tutto il sistema dello spettacolo debba concentrarsi sull’esercizio della delega al Governo per il riordino della materia dello spettacolo e specificatamente su quale assetto si debba dare al rapporto fra Stato e Regioni.
L’esperienza dell’Accordo di programma in tema di residenze dimostra che la sussidiarietà ai diversi livelli della Repubblica è positivamente possibile. Questa esperienza ha però, secondo me, un punto debole: un unico Accordo di Programma con tutte le Regioni aderenti. Ciò ha determinato l’armonizzazione degli interventi di Stato e Regioni attraverso un compromesso fra le diverse situazioni regionali, indipendentemente dalle diversità regionali per risorse e competenze, depotenziando così le conquiste e le politiche più attente e strutturate di alcune realtà territoriali.L’Accordo di programma non deve essere interpretato come un “obbligo” per tutte le Regioni, bensì come opportunità offerta da ciascuna Regione, affinché si possano meglio utilizzare le risorse statali e regionali e meglio differenziare i rispettivi obiettivi di politica culturale. Le Regioni pronte a svolgere questo ruolo nel confronto con lo Stato potranno richiedere l’Accordo di Programma e sperimentare la nuova articolazione dell’intervento pubblico nello spettacolo dal vivo. Anche facendo tesoro dell’esperienza delle prime, altre Regioni si saranno gradualmente attrezzate (a livello normativo, di risorse e di competenze amministrative disponibili) per richiedere anch’esse l’Accordo. E’ auspicabile che fra i principi del futuro Codice dello Spettacolo rientri una più articolata definizione dell’Accordo di Programma Stato/Regione nel senso innanzi descritto.
In Italia l’intervento pubblico (regolamentazione e politiche attive di spesa finanziate attraverso la fiscalità generale) si è andato ampliando negli ultimi decenni, ma gli effetti di tale accresciuto impegno, pur tenendo conto di importanti eccezioni, è stato in gran parte quello di ingessare e rendere poco dinamico il settore per effetto di un eccesso di regole, burocrazia (spesso inutile in termini di controllo di regolarità) e tassazione. Per dirla con il provocatorio libro di Haselbach“DerKulturinfarkt”, si è generata una situazione di “troppo di tutto e ovunque lo stesso”.
Per uscire da questa ingessatura bisognerà lavorare insieme per fermare questa “accumulazione” di norme e vincoli, di categorie ed etichette, e cominciare a “sottrarre”dettagli normativi e di procedura. Il sistema dello spettacolo oggi risulta ancora bloccato dagli squilibri Nord/Sud e fra territori metropolitani e periferici, oltre che non adeguato a risolvere la questione del rinnovamento generazionale e artistico.Riformare il sistema perciò non significa (credo che ormai sia chiaro a tanti) aggiungere complessità (spesso incomprensibili anche ai decisori) a un quadro che di suo è già sufficientemente complesso. Per migliorare il sistema bisogna renderlo più libero, più flessibile ad accogliere le novità, più vivace e attento alle curiosità dei cittadini; vuol dire concedere maggiore autonomia e insieme assegnare maggiori responsabilità agli organismi di spettacolo per esaltarne le diversità, per riuscire a dare visibilità e rappresentanza artistica ai nuovi soggetti e alle nuove proposte. Il sistema andrebbe governato entro pochi rigorosi paletti all’interno dei quali la libertà delle imprese e degli artisti dovrebbe potersi esprimere senza accumulo di vincoli e condizionamenti regolamentari.
La mia proposta è di diventare fin da ora, artisti ed operatori, parte attiva e diligente nel confronto Stato/Regioni, senza aspettare (come spesso capita) di vedere cosa accade. Se il ruolo delle Regioni e del Ministero è fondamentale, altrettanto lo è quello degli attori del sistema dello spettacolo, che dovranno saper spingere le istituzioni verso un cambiamento che riconosca la funzione irrinunciabile del teatro nella formazione del capitale culturale del Paese.
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