#BP2019 | Le competenze istituzionali: Stato, Regioni, enti locali

L'incontro dell'11 ottobre 2018 (Arena del Sole, sala Thierry Salmon, Bologna) nell'ambito di EnERgie Diffuse. Verbalizzazione dell’incontro a cura di Valentina Cristiani

Sabato 30 marzo 2019 dalle 9.30 alle 19.00 presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (viale Pasubio X, Milano) si terrà la XV edizione delle Buone Pratiche del Teatro, una iniziativa della Associazione Culturale Ateatro a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino. Il tema dell’edizione 2019 è Per una politica dello spettacolo. Da giugno 2018 Ateatro promuove gruppi di lavoro, pubblica documentazione e materiali (sul sito wwww.ateatro.it) e organizza incontri pubblici sugli ambiti che il nuovo Codice elencava e che costituiscono in ogni casi i punti qualificanti per elaborare una coerente politica per lo spettacolo.

Il programma completo degli incontri e il #savethedate per l’incontro #BP2019 del 30 marzo 2019.

Una tappa del percorso #BP | Per una politica dello spettacolo si è tenuta a Bologna sul tema Le competenze istituzionali (Stato, Regioni, Enti Locali): il link al documento di convocazione e qui di seguito il verbale dell’incontro.

Le Buone Pratiche del Teatro, a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, costituiscono dal 2004 un’importante occasione di incontro nazionale fra operatori dello spettacolo, amministratori pubblici e studiosi sui temi dell’economia e della politica dello spettacolo dal vivo.

 

Associazione Culturale Ateatro

Progetto verso il Codice dello Spettacolo 2018/2019

a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

 

Nell’ambito di EnERgie Diffuse

Regione Emilia Romagna – Settimana della cultura (7-14 Ottobre)

in collaborazione con

 

Le Buone Pratiche del Teatro
Le competenze istituzionali:
Stato, Regioni, Enti locali

Arena del Sole, sala Thierry Salmon, Bologna
11 ottobre 2018
14.00 – 18.30

Il documento di convocazione

Lo spettacolo dal vivo sta attraversando una profonda trasformazione con la ricerca di nuove forme, nuovi spazi, nuovi pubblici. I diversi livelli istituzionali cercano nuovi equilibri. In questo scenario l’Associazione Culturale Ateatro ha avviato una riflessione sul Codice dello Spettacolo con l’obiettivo di informare e sensibilizzare gli operatori e il mondo politico e culturale, con indipendenza e trasversalità, sull’evoluzione,sulle potenzialità e sui sui principali problemi del teatro italiano Il Codice dello Spettacolo(Legge 22 novembre 2017, n. 175 – Disposizioni in materia di spettacolo e deleghe al Governo per il riordino della materia) ricapitola alcuni dei temi più rilevanti per il settore dello spettacolo. La discussione dei previsti decreti attuativi costituisce un’opportunità per affrontarli:

https://www.ateatro.it/webzine/2018/06/17/il-nuovo-codice-dello-spettacolo-verso-i-decreti-attuativi-un-progetto-di-ateatro-per-il-2018-19/

Uno dei temi più rilevanti, all’ordine del giorno da decenni, ma tuttora controverso riguarda le Competenze Istituzionali, ovvero il ruolo dello Stato, delle Regioni e degli enti locali: raggiungere la chiarezza su questo punto e individuare efficaci modalità di relazione costituisce una condizione preliminare per l’attuazione dei principi generali, il consolidamento e lo sviluppo delle attività e l’attuazione di azioni di riequilibrio territoriale e promozione del pubblico. Al tema è dedicato un pomeriggio di riflessione nel quadro di EnERgie Diffuse (7-14 ottobre), una settimana di iniziative a cura della Regione Emilia-Romagna.

Il verbale dell’incontro dell’11 ottobre 2018

Verbalizzazione dell’incontro a cura di Valentina Cristiani – Master in Imprenditoria dello Spettacolo 2018, Dipartimento delle arti dell’Università di Bologna.
Gli interventi introduttivi di Lorenzo Scarpellini, Daniele Donati e Gianni Torrenti sono stati scritti o rivisti dai relatori.

Saluti iniziali e apertura dei lavori
Aprendo la giornata Mimma Gallina ricorda che l’incontro rientra nel percorso delle Buone Pratiche del Teatro – curato dall’Associazione Culturale Ateatro – che dal 2004 affronta con appuntamenti periodici temi di organizzazione dello spettacolo, promuovendo la conoscenza e la discussione sulla politica, l’economia e la cultura teatrale. In particolare il progetto in corso quest’anno vuole riflettere sull’evoluzione del nostro sistema teatrale e sulle opportunità e i limiti del Codice dello Spettacolo.
Mimma Gallina ringrazia la Regione Emilia-Romagna, che ha inserito il convegno nel quadro delle iniziative della settimana della cultura Energie diffuse, oltre al Comune di Bologna e alla Fondazione Emilia-Romagna Teatro che ospita il convegno nella Sala Thierry Salmon all’Arena del Sole.
Il Codice dello Spettacolo offre l’opportunità per ripensare il ruolo del teatro oggi a partire dai suoi rapporti con le altre arti e con altri settori, dal turismo alla scuola. Gli ultimi due appuntamenti programmati da Ateatro sono stati dedicati in particolare al welfare per il settore dello spettacolo, al termine dei quali sono emerse alcune indicazioni concrete rispetto al possibile ripensamento e alla possibile emanazione di una nuova disciplina organica riguardo al lavoro nello spettacolo, con particolare attenzione al welfare.

Oliviero Ponte di Pino osserva che il Codice dello Spettacolo, malgrado il suo tortuoso cammino, ha almeno il merito di mettere il teatro, e più in generale lo spettacolo dal vivo, al centro di una serie di relazioni. Per esempio destina il 3% del FUS alle attività nelle scuole. L’attuale Governo ha deciso lo scorporo del Ministero del Turismo da quello dei Beni e delle Attività Culturali (da cui MIBAC, non più MIBACT) e dunque che chi si occupa per esempio di Festival, vista la propria funzione, d’ora in poi dovrà avere rapporti anche con il Ministero dell’Agricoltura. Un’altra richiesta del Codice dello Spettacolo è l’apertura all’internazionalizzazione, che dovrebbe implicare rapporti più stretti con il Ministero degli Affari Esteri e spingere a un ripensamento della funzione degli Istituti Italiani di Cultura all’estero.
Obiettivo degli incontri programmati da Ateatro è individuare quali energie si possono mettere in campo e quale può essere il ruolo dello spettacolo dal vivo e della cultura in un sistema culturale, formativo, mediatico ed economico sempre più complesso e integrato.
Oliviero Ponte di Pino conclude esponendo le motivazioni che hanno portato alla scelta del tema dell’incontro: quale funzione e ruolo può avere il Ministero e che tipo di apporto possono dare gli enti territoriali e locali al mondo dello spettacolo nella situazione italiana, caratterizzata da un forte squilibrio nei consumi culturali tra Sud e Nord, tra grandi e piccoli centri, tra centro e periferie. La scelta di fondo riguarda se e come uniformare i diversi livelli politico-amministrativi oppure se è necessario che i diversi livelli abbiano una loro autonomia, evitando dunque di duplicare a livello locale gli algoritmi ministeriali, anche per scongiurare il moltiplicarsi di errori di valutazione eventualmente commessi in sede di Commissione ministeriale. Nel decreto che ha istituito FUS sono inseriti meccanismi – per esempio al livello di Teatri Nazionali e di TRIC – che tendono a uniformare i diversi livelli: ma ci sono Regioni e Comuni che hanno un elevato investimento in cultura e altre che hanno una politica culturale decisamente più contenuta. Inoltre questi meccanismi di cofinanziamento possono risucchiare risorse verso le istituzioni più grandi, penalizzando le realtà più piccole e indipendenti. Il tema dell’incontro di oggi è come trovare un equilibrio tra queste diverse spinte.

Una vicenda complessa
introducono e coordinano: Mimma Gallina e Lucio Argano (Ateatro)

Lucio Argano presenta il tavolo di discussione che ha l’obiettivo di estrapolare secondo la metodologia delle Buone Pratiche alcuni suggerimenti fondamentali per individuare possibili traiettorie. Pur nella consapevolezza di non poter incidere sullo stato delle cose, data la funzione di Ateatro come luogo aperto e indipendente di incontro e di studio e non come strumento di rappresentanza o di advocacy, incontri di questo genere rimangono un’importante occasione di confronto con gli operatori per far emergere, grazie al vissuto delle pratiche quotidiane, le ambiguità e le contraddizioni che emergono dal funzionamento del sistema.
Il primo tavolo è dedicato ai passaggi del Codice dello Spettacolo (Legge Delega) che ribadiscono i principi secondo i quali dovrà strutturarsi l’intervento sullo spettacolo dal vivo. Il dispositivo, spiega Argano, cerca di sistematizzare diversi aspetti. Molti di essi sono nuovi rispetto ai mondi che abbiamo conosciuto finora, anche per l’assenza di leggi specifiche, come accade per la prosa, o a causa di norme decisamente vetuste, come la legge per la musica che risale al 1967. Ma la norma chiama in causa anche attori nuovi, come le rievocazioni storiche e i carnevali: risale al DATA la nomina dei componenti della Commissione Consultiva preposta ai “carnevali storici”. Ci troviamo dunque di fronte a nuovi player, a nuove funzioni e a nuovi meccanismi di raccordo.
Riguardo al rapporto con la scuola, Argano riferisce che il MIUR avrebbe già cominciato a chiedere indicazioni operative rispetto al 3% del FUS destinato all’attività nelle scuole indicato nel dispositivo. Parlando di internazionalizzazione e di rapporto con il Ministero degli Affari Esteri, sarebbe importante capire il destino dei tanto discussi Istituti Italiani di Cultura, che finora vivono soprattutto della capacità del loro direttore di trovare in loco collaborazioni e risorse, mentre finora l’intervento del FUS è stato ridotto a sostenere la piccola circuitazione di realtà appartenenti al sistema finanziato. Infine Argano solleva il problema delle competenze di Stato, Regioni ed Enti locali, cui si intreccia anche il rapporto con le Partecipate. Il dibattito su questi nodi dura da qualche decennio, con punte di discussione anche molto accese. Argano ricorda i convegni seguiti alla nascita delle Fondazioni Lirico-sinfoniche, per capire quali potessero essere le forme di raccordo tra le competenze, le pertinenze dell’amministrazione statale e cosa sarebbe accaduto a livello di Regione o di enti locali. Il dibattito ricorda le oscillazioni di un cavallo a dondolo: ci si muove, si parla, ma alla fine non si fanno grandi passi avanti!
Lucio Argano conclude chiedendosi se il Codice potrà sciogliere alcuni nodi non direttamente legati alla specificità dello spettacolo dal vivo, ma che rimandano ad altri intrecci di competenze tra Stato e Regioni, e quale sarà il metodo, al di là dei Decreti attuativi – se si tratterà di conferenze unificate o se verranno utilizzate altre forme – e se il sistema avrà la capacità di porsi obiettivi precisi. Senza dimenticare un altro compito fondamentale di cui parla il Codice: la revisione di tutti gli strumenti che si sono accumulati nel corso del tempo.
Mimma Gallina presenta i relatori. Lorenzo Scarpellini, esperto e docente di legislazione dello spettacolo, si è occupato per decenni dei temi in discussione, prima e dopo che emergesse il dibattito sulle competenze e che le Regioni diventassero operative., a lui si è chiesta di inquadrare il tema delle competenze istituzionali in una riflessione storica. Daniele Donati, docente di Diritto dei Beni e delle Attività Culturali all’Università di Bologna, affronterà gli stessi temi e gli attuali assetti dal punto di vista della logica normativa e delle prospettive future.

Rispondendo a Lucio Argano, Lorenzo Scarpellini chiarisce che il metodo resterà quello attuale, dato che per quanto riguarda i rapporti istituzionali la Legge Delega del novembre 2017 rinvia alle sentenze della Corte Costituzionale, che hanno generato il sistema attuale e si manterrà con ogni probabilità il principio del concorso Stato-Regioni. Poi offre un puntiglioso approfondimento storico, a partire dal dettato costituzionale.
Nel vecchio Art. 117 della Costituzione italiana, che delineava le competenze delle Regioni in materia di musei, biblioteche ed Enti locali, la parola “spettacolo” non compare ma ciò non ha impedito che le Regioni e gli enti locali promovessero e sostenessero i teatri stabili, le orchestre e altri organismi realizzati dall’unione (regolata dal Codice Civile) di Comuni, Provincie e Regioni. Nei rapporti istituzionali si è delineata dunque una situazione di a-legalità, perché da un lato queste situazioni sono state riconosciute dall’allora Ministero del Turismo e dello Spettacolo, ma non hanno la necessaria controparte in una legislazione costituzionale e che prevedesse competenze regionali in materia di spettacolo.
Nel 1975 è entrato in vigore il nuovo ordinamento delle autonomie locali. Lo Stato ha trasferito alle Regioni tutte le funzioni da esso esercitate sulle materie di loro competenza , delineate dall’Art. 117 della Costituzione. Si trattava di una Legge Delega. La delega venne attuata con Decreto dal Presidente della Repubblica nel 1977 con l’Art. 49, dal titolo Attività di promozione educativa e culturale. Ancora una volta non compare la parola spettacolo (anche se lo spettacolo vi verrà fatto rientrare):

Le Regioni, con riferimento ai propri statuti ed alle proprie attribuzioni, svolgono attività di promozione educativa e culturale attinenti precipuamente alla comunità regionale, o direttamente o contribuendo al sostegno di enti, istituzioni, fondazioni, società regionali o a prevalente partecipazione di enti locali e di associazioni a larga base rappresentativa […]

Scarpellini evidenzia come una legge dello Stato abbia così riconosciuto a posteriori le attività svolte dalle Regioni a favore della promozione, organizzazione e sostegno di istituzioni culturali. L’Art. 49 prosegue così: Le funzioni delle regioni e degli enti locali in ordine alle attività di prosa, musicali e cinematografiche, saranno riordinate con la legge di riforma dei rispettivi settori, da emanarsi entro il 31 dicembre 1979.


Questo non è accaduto. L’attesa della legge di riforma si è protratta dal 1975 fino alla legge sul cinema del 2014 e per la prosa fino all’ultima legge sullo spettacolo dal vivo del 2017. Secondo Scarpellini, ci troviamo di fronte a un artificio legislativo. Quando si riordina una funzione, si interviene su qualcosa di preesistente, altrimenti si sarebbe ordinato ex novo. In questo caso sul piano della funzione delle Regioni in materia di spettacolo non c’era alcuna norma preesistente. L’artificio legislativo è stato necessario per riconoscere alle Regioni una competenza in materia di spettacolo, ancorché inerente al territorio regionale.
Tutti i provvedimenti delle Regioni che riguardavano le attività istituzionali dello spettacolo avevano peraltro già avuto un riscontro positivo in concreto (sul piano dei finanziamenti) da parte dello Stato centrale: nel 1960 il Teatro Stabile dell’Aquila venne sovvenzionato sia dalla Regione sia dallo Stato e all’epoca non venne sollevata alcuna eccezione sulla legittimità del finanziamento regionale, che non derivava da una disposizione di legge o da una norma costituzionale che prevedesse la competenza delle Regioni in materia di spettacolo.
A questo intervento seguirono diverse legislazioni regionali che riguardavano prima l’utilizzazione del tempo libero, poi lo sport e lo spettacolo, infine direttamente lo spettacolo. Dagli anni Settanta la Regione Emilia-Romagna, assieme alla Toscana, è capofila in questa direzione, in particolare con gli operatori teatrali: negli anni Settanta.
Dopo i provvedimentiladel 1975 e 1977, prosegue Scarpellini, non è emersa alcuna norma sul rapporto Stato-Regioni. Un segnale consistente, ma non operativo per l’avvio di rapporti istituzionali, è arrivata con la legge che ha istituito nel 1985 il Fondo Unico dello Spettacolo. Nel Consiglio Nazionale dello Spettacolo (convocato a Piazza Venezia) erano previsti tra i 58 componenti:
– 3 rappresentanti designati dalla Conferenza Stato-Regioni,
– 6 rappresentanti designati dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani,
– 3 rappresentanti designati dall’Unione delle Provincie d’Italia.
A seguito di questo riconoscimento ci si sarebbe aspettati un avvio di rapporti istituzionali. Niente. La legge del 1990 che conferiva ai Comuni alcune funzioni dello Stato non faceva alcun riferimento allo spettacolo.
Nel 1993 un referendum abrogò il Ministero del Turismo e dello Spettacolo. La Ministra competente Margherita Boniver aveva preparato una legge sul turismo fortemente centralista, anche se la materia rientrava nelle competenze regionali. Le Regioni ebbero subito una sdegnata reazione istituzionale. Fu avviato un referendum (in un pacchetto di tredici referendum) per chiedere l’abrogazione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, promosso per una materia che non riguardava minimamente lo spettacolo, ovvero il turismo. Complice l’atmosfera di sdegno creata dallo scandalo Mani Pulite, il referendum abrogò il Ministero del Turismo e dello Spettacolo e il Ministero dell’Agricoltura, che venne ricostituito pochi mesi dopo come Ministero delle Risorse Agricole e Alimentari.
A seguito del referendum,lo lo spettacolo rientrò nella competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri in attesa che si chiarisse normativamente a chi dovessero essere attribuire in via definitiva le funzioni e le competenze del Ministero abrogato, cioè a chi andasse trasferita la gestione delle risorse del FUS. Per motivi d’urgenza si procedette con un Decreto legge, una forma che all’epoca poteva essere reiterata (oggi non più).
Il professor Sabino Cassese stilò un Decreto legge che riconosceva allo Stato le competenze riguardanti le principali istituzioni dello spettacolo (Teatro alla Scala e alcuni teatri stabili), affidando il resto alle Regioni. Il Decreto, portato in in Parlamento, non venne convertito in legge nei rituali 60 giorni e così accade nei successivi due anni per i (nodue) Decreti Legge che reiteravano il primo. A ogni nuovo Decreto venne tuttavia operata una parziale identificazione dei compiti dello Stato in materia di spettacolo. In uno di questi Decreti si istituì il Dipartimento dello spettacolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (cui erano passate le competenze una volta abrogato il Ministero), in altri si diceva

in attesa della costituzione di un’autorità competente in materia di spettacolo.

Trascorsi due anni, i Decreti vennero convertiti in Legge nel 1995. La Legge 203 del 1995 delegava allo Stato la facoltà di emanare decreti legislativi per trasferire alle Regioni funzioni in materia di spettacolo, fino all’entrata in vigore delle leggi quadro riguardanti i singoli settori, che negli anni Sessanta erano stati codificati tramite leggi e stanziamenti: circo e spettacolo viaggiante, musica e cinema. Da questo sistema legislativo era rimasto e rimaneva escluso il teatro di prosa.
Uno dei Decreti attuativi per il trasferimento di queste funzioni doveva regolare l’attribuzione allo Stato di competenze relative a soggetti, attività, ad obiettivi e funzioni di prioritario interesse nazionale, con la correlata gestione del FUS. Questi Decreti attuativi avrebbero dovuto essere emanati entro l’aprile del 1996. Non lo furono da un lato per l’opposizione delle Regioni, che non volevano occuparsi solo degli spettacolo di “serie B” e di “serie C”, dall’altra per l’opposizione degli operatori, timorosi di non essere riconosciuti come soggetti di prioritario interesse nazionale. Questa duplice pressione impedì di giungere a una soluzione, ma introdusse il principio del concorso di competenze Stato-Regioni in materia di spettacolo.
In seguito le Regioni, lo Stato e i finanziamenti agirono separatamente fino al 1997.
Nel 1997 la Legge Bassanini operò una ampia riforma della pubblica amministrazione e trasferì alle Regioni funzioni fino ad allora assolte dallo Stato, riconoscendo dunque loro una forte autonomia di gestione. Come legge ordinaria, la Legge Bassanini non avrebbe potuto trasferire la competenza in materia di spettacolo, ma solo alcune funzioni. L’operazione avrebbe dovuto attuarsi tramite decreti legislativi, per la prima volta d’intesa con la Conferenza unificata, interpellando cioè Regioni, Comuni e Provincie. Vennero escluse dal trasferimento alle Regioni altre funzioni che riguardavano materie di competenza concorrenti, tra i quali i compiti di rilievo nazionale per gli indirizzi, le funzioni e i programmi nel settore dello spettacolo, che lo Stato si riservava. Scarpellini sottolinea l’assenza della parola “soggetti” nelle funzioni riservate allo Stato. Fu un segnale di forte cambiamento, dato che non si dava più importanza primaria alla storia del soggetto , ma alla sua attività indicando indirizzi, funzioni e programmi. I finanziamenti venivano assegnati non al soggetto in sé, ma gli venivano dati per ciò che faceva.
Anche la Legge Bassanini necessitava di Decreti legislativi di attuazione. Ma come si presentano in genere questi Decreti attuativi? Elencano una serie di materie (tutela della salute, servizi sociali, istruzione scolastica, formazione professionale, beni e attività culturali) così articolate:

In materia di tutela della salute sono trasferite alle Regioni le seguenti funzioni […] sono trasferite alle Provincie le seguenti funzioni […] sono trasferite ai comuni le seguenti funzioni […]

Questo accadde per tutte le materie, compresi i beni e le attività culturali, ma non per lo spettacolo per il quale l’Art. 156 anziché il ricorrente triplice trasferimento di funzioni ha individuato i “Compiti di rilievo nazionale in materia di spettacolo”. La gestione del FUS restava di competenza esclusiva dello Stato per Cinema e Fondazioni Liriche, mentre per tutti gli altri ambiti si attuava il concorso, che fino alla legge costituzionale del 2001 vedeva sempre lo Stato come primus inter pares.
Nel 1998 in base alla Legge Bassanini venne istituito il Ministero dei Beni e delle Attività culturali, che includeva il Dipartimento dello Spettacolo, fino ad allora di pertinenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nel 1999, la Ministra dei Beni e Attività Culturali Giovanna Melandri (governo Amato) rivoluzionò il meccanismo di sostegno alle attività dello spettacolo dal vivo definendo i Regolamenti triennali: il termine regolamento indica che la norma ha valore di legge e serviva a dare certezza alla prosa, sempre priva di una legge dedicata. Sviluppando l’idea della Legge Bassanini di concentrare l’attenzione non più sui soggetti ma sui progetti, il provvedimento prevedeva (dopo i primi tre anni di conferma dello status quo) la revisione dello status contributivo delle istituzioni storicamente destinatarie di contributi, teatri stabili e circuiti. Tra i contenuti innovativi, il regolamento introduceva (per la prima volta) il concetto di multidisciplinarietà e istituiva le Residenze teatrali.
Il Regolamento, con valore di legge, venne emanato dopo un’audizione del Consiglio di Stato, senza prendere in considerazione né il ruolo delle Regioni, né il loro parere tramite la Conferenza unificata. La scadenza prevista per i regolamenti era il 2002. Prima della conclusione dei tre anni però il governo cadde. La Legge Costituzionale emanata nel gennaio 2001 venne sottoposta a referendum confermativo dal Partito Democratico nell’ottobre 2001 ed entrò in vigore il mese successivo. Per la Legge Costituzionale in questione, “sono materie di legislazione concorrente la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione di attività culturali”. In linea con il Decreto di attuazione della Legge Bassanini, contenente un capitolo destinato ai beni e attività culturali, e un articolo riservato ai compiti nazionali dello spettacolo, venne operata una distinzione tra beni e attività culturali da un lato e spettacolo dall’altro. La legge costituzionale proseguiva precisando che “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali” riservati allo Stato, ma alle Regioni veniva trasferita la potestà regolamentare per tutta la materia concorrente.
A fine maggio il governo presieduto da Giuliano Amato cadde e il 10 giugno 2001 gli succede il governo Berlusconi.
Nel 2002 un provvedimento di delega diede al Governo la possibilità di emanare decreti legislativi per il riassetto di disposizioni legislative regolamentari in materia di cinematografia, teatro, musica, danza e altre forme di spettacolo dal vivo. La norma venne attuata solo per il cinema, ma non per gli altri settori.
Durante il governo Berlusconi, a Giovanna Melandri succede come ministro dei Beni e Attività Culturali Giuliano Urbani, che emanò nuovi regolamenti in materia di danza e musica. Non appena venne reso noto il regolamento in materia di musica, dato che la nuova legge Costituzionale prevedeva la potestà regolamentare per le Regioni in materia di spettacolo dal vivo, le Regioni presentarono ricorso alla Corte Costituzionale, per difetto di legittimità. Bisogna dare atto che in tutti i loro ricorsi dal 2002 al 2008 le Regioni non hanno mai chiesto la sospensiva delle norme contro le quali ricorrevano. Nel frattempo il Ministro Urbani, nonostante il ricorso delle Regioni, elaborò anche il regolamento per la prosa, in scadenza a dicembre 2002, chiedendo un parere dapprima solo al Consiglio di Stato e poi, a seguito di pressioni politiche, confrontandosi con le Regioni. (Da quel confronto uscì il regolamento per la prosa per l’anno 2002, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.) Nel frattempo però era giunto il giudizio del Consiglio di Stato: “la potestà regolamentare spetta alle Regioni” e non allo Stato. Dunque il regolamento prosa viene ritirato, lasciando ancora una volta il settore privo di norme. Seguì dunque un altro Decreto Legge, elaborato assieme alle Regioni e reiterato fino al 2005 che consenti di emanare la normativa sui finanziamenti
Nel 2004-2005 le sentenze della Corte Costituzionale riconobbero la necessità di mantenere in vita le norme emanate dal Ministero per non compromettere i “valori tutelati dall’Art. 9 – 33 della Costituzione Italiana”, indicando l’esigenza di un sistema organico di concertazione, sentito il parere o d’intesa con la Conferenza Unificata.
Nel 2005 con si stabilì normativamente che i Decreti Ministeriali sono adottati d’intesa con la Conferenza Unificata e non hanno carattere regolamentare. La norma consente al Ministero di emanare decreti non più temporalmente (di anno in anno) ma fino a nuove modifiche. Le Regioni e il Governo convennero che, con le imminenti elezioni del 2006, un Decreto a un anno avrebbe rischiato di far crollare l’intera normativa riguardante lo spettacolo dal vivo.
Tutto questo travaglio si riflette nei decreti emanati dal 2006 in poi, preparati di concerto tra gli uffici del Ministero e gli uffici della Conferenza Unificata , per attivare a un testo condiviso e non prevaricare più, almeno formalmente, il ruolo delle Regioni.
Nel 2008 il Decreto ministeriale sui contributi mise in atto il principio del concorso di competenze, almeno sul piano amministrativo:

“La domanda di ammissione al contributo, in formato elettronico, deve indicare anche la regione in cui si svolge l’attività prevalente del soggetto.”
“La direzione generale trasmette le domande alle regioni in formato elettronico.”
“Le regioni trasmettono annualmente alla direzione generale gli elenchi dei soggetti sostenuti finanziariamente anche dagli enti locali, indicando la tipologia dell’attività medesima e il contributo, che nella valutazione qualitativa dei soggetti la commissione, oltre alla qualità artistica, deve tener conto del parere espresso dalle regioni sul ruolo, la coerenza e l’efficacia del progetto medesimo con riferimento alla linea di programmazione regionale in materia”.

A questa norma, ben scritta, non è stata data sostanziale attuazione: il Ministero ha tenuto raramente conto del parere dato dalle Regioni, quando era presente.
Scarpellini si concede una annotazione sui ricorsi di una serie di soggetti contro i criteri d’assegnazione dei contributi nel 2015-2016. Se gli avvocati dei ricorrenti avessero eccepito che il Ministero non avrebbe potuto dare contributi alle Residenze, ed ai progetti multidisciplinari avrebbero quasi certamente vinto, dato che l’elencazione delle tipologie di riparto del FUS erano rimaste ancora quelle del 1985, con l’aggiunta della danza dal 1996.
Nel 2014 il ministro Franceschini ha infatti operato per un radicale cambiamento del sistema di sovvenzionamento allo spettacolo dal vivo Nel 2017 è arrivata un nuovo decreto triennale per il triennio 2018-2020 che introduce alcune modifiche rispetto al precedente del 2014.
Successivamente è intervenuta la legge del novembre 2sul Codice dello spettacolo dal vivo La legge prevede una collaborazione inter-istituzionale (identificazione di presenze delle Regioni, dei Comuni e delle Provincie nelle Commissioni Consultive che riguardano l’assegnazione di contributi); e stabilisce che i decreti legislativi vengano adottati sulla base dei seguenti criteri e principi direttivi: adeguamento agli Art. 117 e 118 della Costituzione, anche alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale intervenuta sulla materia.
In merito agli accordi di programma Stato-Regioni, il Codice dello Spettacolo del 2017 prevede la costituzione di un nuovo organismo, il Consiglio Superiore dello Spettacolo, composto da 11 membri, tre dei quali designati dalla Conferenza Unificata.
Scarpellini conclude la carrellata con un riferimento alle più recenti leggi regionali – Lazio, Lombardia, Calabria, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia – evidenziando che quest’ultima è una Regione a statuto speciale. Il sistema attuale prevede l’attuazione di un concorso di competenze sul piano istituzionale (meno su quello funzionale), con riconoscimento da parte delle Regioni delle normative ministeriali.:
Come ultima segnalazione Scarpellini ricorda che è in atto una forte richiesta di autonomia da parte di alcune Regioni è da capire se ciò coinvolgerà anche la gestione del Fondo Unico dello spettacolo dal vivo

Daniele Donati [Docente di diritto dei beni e delle attività culturali] solleva un problema preliminare: per decenni l’ordinamento italiano non si è occupato né di Beni né di Attività culturali. L’idea di Attività era stata inizialmente presa in considerazione, seppur con molte difficoltà e nel perseguimento delle finalità del regime, ai tempi del fascismo. La Repubblica Italiana non cambia molto dell’impostazione e degli strumenti del ventennio (a parte l’eliminazione di qualsiasi controllo espressamente politico), ma nella dottrina giuridica si fa avanti sempre più l’idea (Giannini) che se ci sono i Beni è perché ci sono, a monte, delle Attività. È questa la chiave di lettura della riforma del ministero di Walter Veltroni, ispirata a quello di Jaques Lang. Veltroni crea un Ministero che assomma appunto la promozione delle attività (finora lasciate assieme al Turismo, in altro dicastero) alla tutela e valorizzazione dei beni, a segretariato generale. Altri Ministeri sono organizzati per dipartimenti, vale a dire con una politica distinta e un responsabile per ogni ambito. Un dicastero con segretariato generale unico implica invece una sola linea di comando amministrativo per tutte le funzioni, e un rapporto esclusivo di questi con il vertice politico.


Tuttavia quella della legislazione dello spettacolo resta la storia di un vuoto, e di assenze: vocaboli vecchi, categorie e classificazioni superate. Fino ad oggi non c’è mai stato il coraggio di dire e tentare qualcosa di nuovo, anche perché per il “giuridico” è difficile (se non proprio sbagliato) dare una definizione del “culturale”, perché definire significa chiudere, fermare ed escludere.
Quelle dello spettacolo, di fatto, sono attività private, non di Stato. E così dev’essere.
Ciò non implica che esse non siano però accolte e accompagnate dal settore pubblico, ognuna in grado diverso, in forma diversa, secondo il bisogno: si pensi, per semplificare, al diverso impatto sul mercato delle fondazioni lirico-sinfoniche e del cinema.
L’accompagnamento, il sostegno, la promozione si realizzano in molti modi: con la formazione, l’assegnazione di spazi e le risorse, profilo su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione. A questo proposito non si deve dimenticare che l’idea del sostegno economico con denaro pubblico appartiene alla tradizione dell’Europa occidentale (negli Stati Uniti d’America non è certo lo Stato a finanziare Hollywood, ma i capitali privati, e a sostenere le istituzioni culturali è in genere il mecenatismo privato) e bisogna sempre considerare che non è detto che debba funzionare per forza in questo modo.
La difficoltà definitoria e il problema del finanziamento pubblico a soggetti privati sono e restano i due problemi di fondo.
Ma ci sono altre “doppiezze” in materia di cultura che ne rendono difficile la programmazione.
Meglio seguire la logica di offerta/consumo (industria) o la logica del benessere della collettività (welfare)?
Quali criteri (soggettivi/oggettivi) dovremmo scegliere per la valutazione? E quanto sono davvero oggettivi i giudizi, se sono il frutto di una scelta umana non partecipata?
Donati pone l’accento sulla mancanza di novità: si assiste ormai da decenni alla sedimentazione di soluzioni sempre uguali, senza definire i ruoli reciproci degli attori di mercato e del sistema pubblico.
È utile ricordare, pur brevemente, i passaggi storici: nell’Italia liberale in materia di spettacolo: si esigeva che lo spettacolo si mantenesse nei limiti della decenza, che non sovvertisse l’ordine pubblico, in una accezione del bello come proprio delle élite. Le operette e l’editoria popolare si sono sviluppate a margine di questo panorama, sul mercato. Il fascismo è stato invece – come si è detto – assai attento allo spettacolo, rafforzandone il finanziamento (intervento indiretto) e creando alcuni soggetti pubblici capaci di operare in prima persona nei relativi settori (intervento diretto): ETI, Biennale di Venezia, INDA, e anche la pubblicizzazione degli Enti lirici. Con la futura Accademia d’Arte Drammatica e il Centro Sperimentale di Cinematografia il fascismo si spinge, in modo indubbiamente lungimirante, anche a formare anche il personale. Vi è poi qui l’intuizione per cui la promozione della cultura dovrebbe occuparsi dei tre segmenti della filiera industriale: produzione, distribuzione (specie per contrastare le disuguaglianze territoriali) e fruizione.
Oggi, continua Donati, può aiutare rileggere i punti fermi dettati dalla Costituzione.
L’art. 9 afferma la promozione della cultura come principio fondamentale (la norma fu considerata dal Presidenze Ciampi quella che distingue la nostra Costituzione dalle altre), ponendo il perseguimento del benessere culturale e intellettuale tra i valori essenziali cui deve mirare il nostro ordinamento, al pari del benessere fisico ed economico.
Tuttavia questo principio pare contrastare, almeno in parte, con l’art. 33, in cui si afferma la piena libertà dell’espressione artistica, che difficilmente può essere davvero libera se finanziata con denaro pubblico.
Da questo contrasto nasce una sintesi positiva: il potere pubblico non può dirsi estraneo al sostegno alla cultura e alle attività di spettacolo, ma deve farlo con una “neutralità attiva”, prendendo cioè a riferimento il principio di piena laicità. Donati cita a questo riguardo Norberto Bobbio, che promuove e predica una politica della cultura come contrapposta all’aberrazione della politica culturale, che pretende cioè di denominare cosa è cultura, e che cosa è buona cultura. Occorre piuttosto una politica che sostenga la cultura senza definirla, e senza farsi latrice di propri paradigmi ideologici o estetici, ma favorendo il libero confronto fra le diverse istanze in campo. Il confronto deve essere ispirato da elementi oggettivi, mirando a espandere il più possibile l’offerta culturale secondo il principio di uguaglianza, sostenendo soprattutto le espressioni dello spettacolo e dell’arte che il mercato non coglie ancora, e quindi incapaci di progredire da soli.
Solo le espressioni che tendono alla sopraffazione delle altre (e quindi tendenzialmente anticostituzionali) non vanno sostenute, pur avendo il diritto di esistere.
Questi sono i punti cardinali che ci offre la Costituzione.
Si deve constatare come proprio nella distribuzione del FUS diventi indispensabile mettere in pratica questi precetti. Il compito è demandato da sempre alle strutture amministrative, e non ai politici.
Il settore dello spettacolo rimane un settore di sperimentazione: negli anni Settanta, la Corte Costituzionale e molta dottrina hanno insistito sul suo profilo del pluralismo. Di fatto ciò si realizza con la moltiplicazione dei centri di produzione culturale, che la nascita delle Regioni e il diffondersi delle iniziative comunali rendono possibile e concreto. Tuttavia retano poco chiare le competenze rispettive di Stato e Regioni, demandando il tutto alla dimensione di interesse, nazionale, regionale o locale.
Donati riporta poi il discorso sul nodo della privatizzazione.
Lo spettacolo è, tra o settori di cui si occupa lo Stato, quello che conosce maggiore privatizzazione1, seppur solo formale: il modello è civilistico, di fatto la natura resta pubblica. Tra i primi a tentare la sperimentazione della forma privata sono stati gli Enti Lirici, trasformati in Fondazioni, poi il Centro sperimentale di cinematografia e la Biennale di Venezia.
La privatizzazione non ha però raggiunto l’obiettivo di attrarre i privati, i quali continuano a limitarsi ad atti di liberalità, sponsorizzazioni, o piccola beneficenza.
Nemmeno l’Art Bonus è un meccanismo perfetto, perché toglie fondi alla fiscalità generale e favorisce – numeri alla mano – le realtà più forti (come il Teatro alla Scala), contraddicendo il principio Costituzionale di uguaglianza, che dovrebbe portare a sostenere le forme espressive più deboli.
Concentrarsi sui finanziamenti, sedimentare sempre le stesse soluzioni senza cambiare angolazione, ha prodotto una scarsa attenzione, per esempio, alla disciplina e alla tutela dei lavoratori del settore, che è cosa diversa dalla valorizzazione dei mestieri, cioè dalla salvaguardia di quei mestieri che si esercitano ormai solo nel teatro; oppure alle azioni di educazione connesse allo spettacolo, cioè alla relazione spettacolo-scuola, e in generale alla connessione dello spettacolo con altri settori (il turismo, ma non solo).
Donati conclude ricordando che siamo in presenza di una legge delega, e non di un vero e proprio Codice, ma questo non deve portarci a sottovalutare quella parte di legge che è già prescrittiva. La Legge ci dice che l’ambito oggettivo dell spettacolo dal vivo si è allargato: teatro, lirica, concerti, cori, attività musicali popolari contemporanee, danza classica e contemporanea, attività circensi nelle forme contemporanee, carattere multidisciplinare, carnevali storici e rievocazioni storiche.
Di fronte alla difficoltà definitoria delle attività, abbiamo quindi una lista appunto prescrittiva, non una semplice delega, unita a finalità dotate di una declinazione precisa e alta: lo Stato

promuove e sostiene lo spettacolo nella pluralità delle sue diverse espressioni, quale fattore indispensabile per lo sviluppo della cultura, elemento di coesione e identità nazionale, strumento di diffusione dell’arte e della cultura italiana in Europa e nel mondo, componente dell’imprenditoria culturale e creativa dell’offerta turistica nazionale.

Inoltre nelle disposizioni già in essere si parla di

riconoscimento del valore formativo ed educativo dello spettacolo; valore delle professioni artistiche e delle loro specificità; utilità sociale dello spettacolo.

Queste declinazioni non erano mai apparse in precedenza. E forse questo è un segno sul futuro che ci aspetta.

Il ruolo e le politiche per lo spettacolo tra Stato Regioni ed enti locali

Gianni Torrenti introduce il panel, parlando della propria esperienza triennale, fino all’aprile 2018, di assessore regionale in Friuli-Venezia Giulia e di coordinatore della Commissione Cultura della Conferenza delle Regioni.

“Vorrei affrontare uno dei temi irrisolti di questi anni, cioè il rapporto da finanziamenti dello Stato e quelli degli Enti Locali (in modo particolare delle Regioni, ma anche dei Comuni maggiori), ipotizzando che il cosiddetto Codice dello Spettacolo venga sostanzialmente confermato nel lavoro parlamentare in corso. Come assessore alla Cultura, Sport e Solidarietà della Regione Friuli-Venezia Giulia, ho partecipato per cinque anni alla Commissione Cultura e Sport della Conferenza delle Regioni, presiedendola come coordinatore per tre anni, dal 2015 a maggio 2018.
La Commissione e la Conferenza sono senza dubbio il luogo privilegiato per comprendere la complessità delle relazioni tra Stato e Enti territoriali. La mia relazione si basa sostanzialmente sulla leale collaborazione, in modo particolare dove ci sono competenze “concorrenti”, cioè non esclusive dello Stato, della Regione o del Comune.
La Cultura è uno dei temi certamente compresi tra la competenza concorrente, diversamente per esempio da Istruzione, Difesa, Giustizia, che sono di competenza esclusiva dello Stato.
Tra le Regioni a Statuto speciale, in modo particolare la Sicilia ha competenza sulla tutela del patrimonio culturale, il Trentino e l’Alto Adige hanno anch’esse maggiori funzioni di altre. Ma sostanzialmente sull’intero territorio nazionale c’è concorrenza. In queste settimane si vedrà come sarà gestita la richiesta di maggiori funzioni chieste dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, visto che hanno chiesto essenzialmente la competenza esclusiva sulla Cultura. Un (probabile) ok del Governo porterebbe alla ribalta una situazione ancor più complicata e forse non utile, e lo dico da convinto federalista, ma si affronterà al momento opportuno, e comunque riprenderò tra poco il tema.
Visto l’obiettivo di questa nota, lascerei da parte la tutela e la valorizzazione dei Beni Culturali e della produzione cinematografica, per concentrarmi sullo spettacolo dal vivo.
Le norme che regolano lo spettacolo prevedono ciascuna rapporti completamente diversi tra Stato ed Enti Locali. Tale situazione non è assolutamente motivata nei contenuti, bensì esito di trattazione separata, in tempi diversi, con estensori legislativi diversi, e senza alcuna coerenza nelle varie materie, o settori, trattati.
Possiamo fare semplici esempi: la recente normativa sulle Residenze culturali prevede un vincolo preciso di cofinanziamento Stato-Regioni, i Teatri Nazionali e i TRIC un cofinanziamento obbligatorio Stato-Enti territoriali e finanziamenti privati, in misura diversa tra loro; le Fondazioni lirico-sinfoniche nulla, se non una premialità sui contributi di Enti territoriali o sponsorizzazioni, i festival e orchestre nulla di tutto ciò e così via. Anzi a volte un buon finanziamento degli Enti territoriali, ancor più delle Regioni, diviene alibi per non sostenere adeguatamente l’iniziativa, a favore di iniziative non finanziate a livello locale. Spesso gli strumenti valutativi di Stato e Regione confliggono, basati su priorità diverse (e questo sarebbe comprensibile), ma soprattutto non coordinate (e questo è meno comprensibile).
Inoltre le responsabilità della gestione e le nomine dei responsabili (sovrintendenti, direttori eccetera) sono in capo a soggetti diversi: per le Fondazioni concentrate sul Ministro, per gli Stabili di origine pubblica da Statuto ma in genere sui soci pubblici (Regione e Comune), i revisori dal Ministero per Fondazioni e teatri di origine pubblica, dai soci per gli altri. Spesso non c’è chiarezza sulla responsabilità di eventuali rifinanziamenti o debiti. Tanto che risulta pretestuoso affermare che gli oltre 400 milioni di euro di debiti delle Fondazioni liriche saranno interamente onorati (dipendenti compreso il TFR, fornitori, banche eccetera) senza specificare chi mette i soldi per l’eventuale liquidazione di una Fondazione.
Non mi risulta che tutti i TFR dei teatri stabili di origine pubblici siano stati accantonati, proprio come avviene nella pubblica amministrazione. Ma oggi, quando dovrebbero risultare aziende di diritto privato, chi patrimonializza questi Enti?
Per venirne a capo e trovare una possibile soluzione “concorrente”, a monte ci sono almeno due ostacoli da rimuovere.
Il primo, che pesa come un macigno nella discussione e nella fiducia reciproca, è la soluzione definitiva del debito delle Fondazioni lirico-sinfoniche. Nate senza patrimonio, in un periodo storico dove cresceva la fiducia del forte coinvolgimento del mondo privato, il progetto delle Fondazioni è fallito. Il finanziamento pubblico è crollato, mettendo in fuga anche i possibili sostenitori privati. Il finanziamento del mondo privato e aziendale non funziona se è destinato a coprire la drammatica contrazione del FUS e tanto meno a tamponare debiti e buchi di bilancio. Il contestuale taglio drastico del FUS e dei trasferimenti agli Enti Locali ha sepolto il sistema. Gli interventi degli ultimi anni, comunque razionali, hanno solo rinviato la resa dei conti.
Il mondo della lirica aveva certamente bisogno di maggior controllo sulla spesa e sulla qualità della gestione, ma gli strumenti non sono stati di supporto al controllo e a nuovi modelli, ma interventi di mero taglio con conseguenze insostenibili. La produzione lirica è il cuore dell’immagine del nostro paese e dev’essere trattata come tale, con attenzione, con rispetto, valorizzando i talenti, investendo perché rappresenta contemporaneamente una tradizione culturale fondante ma anche un asset internazionale decisivo per l’attrattività del sistema Italia.
Solo l’azzeramento dei debiti, attraverso l’iniezione (pluriennale) delle risorse necessarie in una “bad company” che se li assuma integralmente, e la ricostituzione di Enti lirici adeguatamente finanziati e controllati, permetterà non solo di parlare di lirica, ma di mettere in campo una nuova leale collaborazione tra Stato, Regioni ed Enti locali, a oggi paralizzata nel suo complesso dai debiti delle Fondazioni e dalla confusione sull’imputabilità degli stessi. Sgomberare il campo da questa enorme preoccupazione è il primo passo per un sereno confronto fra Amministrazione Centrale e Decentrata.
Nello specifico di una prospettiva di riforma della lirica poi, ritengo che ci debba essere una complessiva coerenza nei rapporti istituzionali. Il modello della prosa (cofinanziamento per Nazionali 100% EE.LL. – compresi sponsor – e 40% TRIC), possa – assestato per il settore (si potrebbe ipotizzare un intervento locale rispettivamente del 100% e del 50% del contributo ministeriale) – essere il modello per gli Enti lirici futuri.
Un teatro come la Scala e Santa Cecilia fuori sacco. Alcuni enti di primo livello (forse Roma, Palermo e magari Napoli) cofinanziati al 100%, con la dotazione di un budget di circa 15.000.000 Ministero + 15.000.000 EE.LL.. Gli altri con un budget 11.000.000 + 5.500.000 minimo.
Definizione di una missio originale per ciascun teatro, accordi di tipo pattizio (comunque valutati in modo omogeneo da una commissione indipendente) per progetti artistici di 4 anni, finanziamento fisso per gli stessi 4 anni, comunicato con un anno di anticipo, e alla fine del terzo anno valutazioni e definizione del successivo progetto quadriennale (tali modalità e tempistiche risultano utili anche per la prosa). A fronte di questi accordi, si tratta di stabilire il budget, un numero del personale prefissato (250 per i piccoli e 450 per i grandi?), ridefinire i contratti delle masse artistiche, con nuovi contratti per l’eventuale compagnia di balletto, che si potrebbe prevedere a servizio di più Enti, utilizzando strumenti contrattuali motivazionali moderni ma limitati. Definizione chiara delle responsabilità artistiche ed economiche (chiarezza sulla responsabilità dei soci, anche in caso di bisogno o volontà di patrimonializzazione), definizione di un ruolo preciso e attivo del CdA e del Sovrintendente, severità quotidiana nel controllo della spesa e della trasparenza di gestione, indispensabilità della formazione non solamente artistica ma gestionale e amministrativa, da sostenere utilizzando anche fondi del Fondo Sociale Europeo.
La chiarezza dell’imputazione del debito delle Fondazioni lirico-sinfoniche diviene ancor più urgente nel momento in cui si avvicina il momento del loro inserimento nella lista degli Enti partecipati o controllati, che prevede il loro inserimento nei bilanci consolidati delle Amministrazioni Pubbliche. Credo sia attualmente impossibile definire la quota di debito che ciascun socio debba considerare come propria. A oggi non si sa nemmeno chi risponde del debito: per esempio i soci privati, e persino le persone fisiche, ne rispondono? In che percentuale gli Enti, Stato Regione e Comune, ne sono titolari? In che modo vengono gestiti interventi presenti e passati volti all’abbattimento del debito effettuati da singoli soci, come rinunce a crediti o conferimenti patrimoniali anche immobiliari? Vanno a riduzione della loro quota (di debito) o sono donazioni che sollevano tutti i soci in uguale misura? Ma questo parrebbe ingiusto. Bisogna risolvere questi quesiti prima di arrivare a definire il debito, o il patrimonio, nei bilanci consolidati. Tra l’altro l’inserimento dei bilanci delle Fondazioni nel consolidato pubblico rende a costo zero lo spostamento del debito a una cosiddetta bad company , essendo a quel punto un debito già pubblico e riconosciuto.
Perché parto da un esempio concreto, invece di teorizzare da principio un rapporto virtuoso tra Stato, Regione, Ente locale e sponsor? Semplicemente perché se si resta prigionieri di variazioni continue di risorse – che per di più vengono comunicate, quando va bene, a metà esercizio – non solo non ci può essere un’attività serena, ma non c’è neppure un rapporto credibile di fiducia tra soci.
Dobbiamo sgomberare il campo dai rischi (reali e vissuti) che l’incremento del contributo da parte di un’istituzione divenga l’alibi per il disimpegno dell’altra. Su questo punto ci sono stati conflitti che vanno risolti. Il primo problema è come motivare, attraverso strumenti come il cofinanziamento vincolante, l’investimento sugli Enti e sui progetti culturali.
Ma è proprio la soluzione di questo problema il principale vantaggio della competenza concorrente. La libertà che viene costituzionalmente garantita ai bilanci delle Regioni e dei Comuni non prevede vincoli di destinazione e pertanto spesso il trasferimento di risorse dedicate a un settore specifico a Enti territoriali con competenza esclusiva prende altre vie e non garantisce la continuità della spesa.
Questa sono le ragioni del mio NO alla regionalizzazione del FUS.
Gli strumenti che possiamo ipotizzare per la competenza concorrente (accordi di programma, cofinanziamento obbligatorio eccetera) risultano facilmente virtuosi. Il cofinanziamento infatti va visto rovesciando il concetto dell’obbligatorietà. Andrebbe correttamente interpretato come un’opportunità di ottenere risorse aggiuntive dallo Stato a fronte di un impegno degli EE.LL. su un progetto culturale importante. “Io (Regione o Comune) finanzio un teatro e tanto più lo finanzio, tanto più posso ottenere dallo Stato attraverso un accordo, sempre sulla base di una valutazione indipendente della Commissione sulla validità del progetto. Questo stimola l’investimento locale.
Non solo, ma lasciare tutto alle Regioni rende difficilissima la creazione di un corretto “mercato” delle produzioni e dell’offerta, impossibile la standardizzazione dei costi, in un mondo che poi in realtà vende i prodotti al suo interno. Lo stesso confronto qualitativo resterebbe tutto all’interno della Regione. Non pretendo che la valutazione debba riferirsi a costi ed esiti europei, ma non confrontarsi a livello italiano è rischiosissimo. Pensiamo al conflitto di questa logica con il tentativo già difficile di far crescere una mentalità di impresa negli Enti di spettacolo. Pensiamo alla difficoltà di trattare ugualmente imprese private e imprese di origine pubblica in un rapporto corretto che guarda all’interesse dello spettatore e alla fruizione, e non alla compagine proprietaria. Potremmo acuire la già importante differenza di impostazione dei territori, ma con il rischio di squilibri pesanti in un mercato già sufficientemente viziato da incoerenze. Pensiamo a 20 commissioni valutative regionali, che già immagino non ci siano ovunque, o comunque non con gli stessi indirizzi, compiti e composizione. Senza un luogo di valutazione comparativa della produzione nazionale (in senso lato di produzione culturale, non solo in senso stretto), si può scivolare in breve su un piano ingestibile.
Il paese ha bisogno di altro. Ha bisogno di onesti bilanci sociali delle attività, per misurare la bontà dell’impatto e gli spazi di miglioramento. Ha bisogno di confronti e di buone pratiche da applicare. Ha bisogno di stabilità ma anche di innovazione, di competitività e di rafforzamento dell’esistente, ma contestualmente bisogna dare spazio alla nascita di nuove strade e nuova progettazione sperimentale robusta, seria e capace di intercettare le rapide evoluzioni degli interessi del pubblico, oltre che di fasce culturali e generazionali escluse e dei nuovi linguaggi che a oggi faticano a svilupparsi.
Una volta proposta una modalità standard di rapporto “concorrente”, il secondo problema da affrontare è l’esistenza di aree del paese con un’offerta insufficiente, che non rispetta il diritto costituzionale del cittadino a poter usufruire della cultura in senso lato.
Proviamo a partire da un’osservazione: l’Italia ha un sistema di istruzione e un sistema sanitario capillarmente diffusi sul territorio, con servizi garantiti dallo Stato, con l’obiettivo di offrire una omogeneità di servizio a tutti i cittadini, anche con modalità integrative (convenzioni eccetera). Non è ovunque funzionante in modo simile, ma le risorse destinate sono uguali ovunque. Se facciamo rientrare l’accesso alla Cultura in senso ampio (patrimonio, spettacolo, lettura eccetera) tra i diritti costituzionali dei cittadini (art. 9), è palese che questo servizio non è equilibrato come gli altri.
E’ dunque necessario che lo Stato, laddove i cittadini non abbiano mai avuto, o abbiano perduto, l’accesso ai servizi culturali (ivi compresi il teatro, la musica, la danza) debba intervenire in supplenza per un tempo determinato (diciamo quattro anni), con progetti di sviluppo di lungo respiro. Progetti che alla scadenza del primo quadriennio proseguano, sia pur con un tutoraggio, sostenuti in modo ordinario da Stato ed Enti Locali.
I cittadini devono avere questa opportunità, e le Amministrazioni devono applicare strumenti di incremento dell’audience, stimolando la crescita di strutture e di operatori culturali su tutti i territori. Si tratta di mettere in campo strumenti anche faticosi e complessi, ma non particolarmente costosi. Le soluzioni sono molteplici, dall’intervento diretto di una struttura statale dedicata, all’affidamento di compiti specifici a Enti riconosciuti come teatri nazionali, TRIC, centri di produzione, circuiti. La finalità deve essere orientata a offrire spettacolo musicale e teatrale al pubblico, costituendo in loco la struttura produttiva o di gestione nell’arco del progetto quadriennale. Formando operatori, coinvolgendo la popolazione. La costituzione del nuovo soggetto e il coinvolgimento delle Amministrazioni locali come cofinanziatori sono parte integrante e decisiva del progetto stesso.
Altro tema e progetto chiave dello sviluppo del settore è l’educazione scolastica alla fruizione e alla partecipazione alla vita di spettacolo. Si può ritenere che tale insegnamento, condiviso ampiamente a tutti i livelli, possa rappresentare anche un’opportunità di espansione del lavoro degli artisti professionisti del settore, che superata una adeguata fase di formazione all’insegnamento potrebbero integrare le giornate lavorative artistiche con tale attività e contemporaneamente trasferire agli studenti non solo nozioni sul tema, ma anche l’entusiasmo e la passione che gli artisti sono in grado di trasmettere. Il MIUR dovrebbe stabilire accordi con le realtà professionali del settore, anche con la mediazione delle Regioni, per offrire educazione qualitativa di conoscenza del patrimonio teatrale. Il possibile utilizzo di fondi FSE può ridurre i costi a carico della Scuola.
Ritengo, a conclusione della mia riflessione, di specificare che le modalità che ho illustrato e che vogliono ripristinare un corretto rapporto tra gli Enti territoriali e lo Stato, sgombrando il campo da diffidenze, palesi disequilibri e confusione di responsabilità, è destinata in modo particolare a quelle attività molto stabili, con bilanci significativi, con un organico di personale dipendente, e non certo prioritariamente a eventi occasionali, o comunque minori dal punto di vista dell’impatto sociale. Non ho accennato al fondamentale bisogno di rispetto del lavoro, della necessità di trovare modalità di sostegno alla continuità contributiva, ma anche su questo tema credo che un sereno confronto tra Stato e Regioni possa dare buone e nuove risposte a soluzioni non rinviabili.”

Massimo Mezzetti (Assessore alla cultura, politiche giovanili e politiche per la legalità-Regione Emilia-Romagna]) parte dalla constatazione che l’investimento in cultura, al di là di risorse e compatibilità di bilancio, è determinato dalla volontà politica: se con il Presidente Vasco Errani il bilancio della Regione Emilia-Romagna sulle politiche culturali era fermo tra i 17 e i 18 milioni di euro, dall’insediamento del nuovo Presidente nel 2015 a oggi (a un anno dalla chiusura della legislatura) ci troviamo ad aver più che raddoppiato il bilancio delle risorse destinate alla cultura, tenendo fede alla nostra promessa, seppur con le stesse difficoltà di bilancio. E’ stata una scelta politica che non dipende solo dalla sensibilità di chi presiede la giunta, ma dal fatto che tutti hanno lavorato in un’unica direzione, costruendo fin dalla precedente legislatura le condizioni politiche per determinare le scelte dell’amministrazione e condividere con l’opinione pubblica e chi governa le città e la Regione la consapevolezza che l’investimento in cultura può essere anche un investimento “produttivo”, che crea impresa e occupazione.
E i risultati ci sono, a dimostrazione che le risorse sono state utilizzate bene: nel primo triennio (2015-2017) si registra un incremento occupazionale dell’11% nel settore dello spettacolo dal vivo e del 18,2% nel settore cinema e audiovisivo. Alla luce di questo, sono necessarie politiche incentivanti: a un maggior sforzo della Regione deve corrispondere un egual sforzo dello Stato, altrimenti chi è virtuoso si sentirà penalizzato, e si premia chi investe di meno. Mezzetti auspica un Governo molto più attento che in passato nei confronti delle Regioni, applicando per lo meno due criteri fondamentali: il coinvolgimento della Conferenza Unificata sulle scelte e l’armonizzazione territoriale attraverso gli accordi di programma. Inoltre segnala la novità dell’accordo stipulato con il precedente Governo su una maggiore autonomia, rivendicata e riconosciuta anche ad altre Regioni. Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, pur con percorsi diversi, stanno andando verso un federalismo ad assetto variabile. Ciò significa riconoscere che non tutte le Regioni hanno lo stesso punto di partenza e le stesse condizioni, e permettere a chi non desidera maggiore autonomia di rimanere all’interno del sistema dato, ovvero il FUS. Si tratta a questo punto di aprire un altro percorso per chi invece preferisce maggiore autonomia, secondo i principi dettati dal Codice dello Spettacolo, individuando le funzioni, i soggetti qualificati della produzione, della circuitazione e della programmazione, sostenuti e finanziati sulla base di parametri tendenzialmente omogenei per ciascuna Regione, stabilendo i livelli minimi dell’offerta di spettacolo.
Mezzetti illustra la sua proposta di regionalizzazione del FUS. Non intende regionalizzare la titolarità della gestione, ma fissare alcuni possibili parametri per la distribuzione delle risorse alle varie Regioni: investimento storico del FUS su quella Regione, andamento della domanda, con perequazione per le Regioni più svantaggiate (come già fatto per Sanità e Fondo Sociale). Stabilita la quota da destinarsi ai ciascuna Regione, le Regioni effettuano l’istruttoria e sottopongono gli esiti al MiBAC, indicando quale quota del FUS e quale quota del Fondo Regionale (qui detto FUR) assegnerebbero a ciascun soggetto e progetto. L’assegnazione della quota di finanziamento deve avvenire con criteri che ogni Regione determina sulla base di indirizzi generali dettati dal Codice dello Spettacolo, giungendo alla proposta di assegnazione da sottoporre all’approvazione del MiBAC, il quale avvalendosi delle Commissioni può approvare o proporre variazioni alla proposta regionale (negoziazione e concertazione istituzionale). Una volta approvata l’istruttoria finale, il MiBAC trasferisce i fondi ai soggetti. Mezzetti conclude sostenendo che questa modalità di intervento risponde al requisito di trasparenza, tanto necessaria nella comprensione delle decisioni prese dalle Commissioni.
Continuando sul tema del concorso di competenze, Gianni Torrenti rimarca quanto sia fondamentale sciogliere il nodo del “chi fa cosa”, scegliendo i Teatri Nazionali senza affidarsi a parametri puramente quantitativi.”

Matteo Lepore [Assessore alla Cultura, Turismo e Promozione della città, Immaginazione civica, Sport, Patrimonio, Agenda digitale – Comune di Bologna] premette che il grande vuoto che si avverte non dipende solo dalla difficoltà di definire cosa sia cultura, ma anche cosa sia una politica culturale. Da un lato si avverte l’esigenza di costruire un sistema ordinato che porti a termine questa incompiutezza, ma per parlare di politiche culturali in Italia – in un’epoca che vede il tentativo di disgregazione dell’Europa – è anche necessario capire cosa significa vivere in un paese lungo, molto lungo, senza limitarsi al punto di vista romano o statale. Lepore si dice convinto che le politiche nazionali, statali, siano necessarie, ma non è altrettanto convinto che, continuando a discutere dell’architettura istituzionale, si riesca poi a confrontarsi sul merito delle politiche culturali. Considerando la spesa a fisarmonica che caratterizza le politiche culturali, manca un luogo atto a sviluppare il rapporto delle politiche nazionali con la popolazione e i suoi bisogni, anche solo a livello comunale. Le città metropolitane di fatto non sono nate, nonostante Bologna ci stia provando. Il timore è di tornare a essere provincia: la dimensione della città metropolitana avrebbe la necessità di un coordinamento e di una maggiore riflessione e capacità di intervento, sia con la Regione sia a livello nazionale.
Tuttavia il Comune di Bologna ha attivato un sistema di convenzioni con l’ambiente teatrale storicamente importante, ed è riuscito a costruire politiche culturali con capacità di finanziamento sia di teatri comunali sia di teatri privati, mantenendo una forte capacità di relazione con la Regione. A livello nazionale invece non c’è alcun tipo di dialogo: per i criteri del FUS non è prevista alcuna ricaduta territoriale a livello di capacità progettuale condivisa. Difficile, in mancanza di un’agenda urbana (presente nel modello francese, ma assente da noi), anticipare che tipo di percorso pluriennale si vorrebbe costruire insieme, sia fra città diverse, sia fra più teatri nella stessa città: nei giorni scorsi Bologna ha radunato in una piazza più di trenta teatri dell’area metropolitana bolognese2. Quale è il peso economico e sociale di questi teatri? Quali interazioni possiamo mettere in campo con le politiche territoriali? Questi teatri lavorano con le scuole, con le politiche di welfare? E’ tutto lasciato alla discrezionalità dei territori: in Emilia-Romagna può significare autonomia, in altre Regioni può significare arrangiarsi.
Tutela e protezione dei lavoratori sono la priorità, assieme alla valorizzazione delle professioni che devono poter contare sulle politiche di settore, senza temere di scomparire una volta tagliato il finanziamento da parte del FUS. È necessario riconoscere il valore sociale degli operatori di un teatro, in modo che se questo malauguratamente dovesse chiudere, non si volti semplicemente pagina. Il contributo potrebbe essere dato dalle città, portando dal punto di vista politico le comunità al centro del discorso del sistema istituzionale. L’agenda urbana così costruita sarebbe utile anche alle Regioni perché fornirebbe una chiave interpretativa differente del rapporto con lo Stato.

Gianni Torrenti ringrazia l’assessore Lepore per aver posto l’accento sulla mancanza di luoghi di discussione, non solo sulle prospettive culturali: al contrario della Francia, l’Italia non ha occasioni per discutere il ruolo di ciascun attore nella crescita del settore.

La parola passa a Graziella Gattulli [Regione Lombardia, direzione ufficio Cultura] per un intervento di carattere più tecnico che politico. La Regione Lombardia, assieme al Veneto, sta insistendo sulla titolarità della gestione del FUS. Gattulli elogia l’intervento di NoME Donati, che sottoscrive in pieno. E’ importante tornare a parlare di che cosa sono le politiche per la cultura, per lo spettacolo, e se questo significa aiutare e sostenere i soggetti, e dunque sostenere l’offerta culturale, nonostante il grande rischio di minare così il pluralismo.
Il dibattito degli operatori si è negativamente fissato sui parametri e sulle cifre del Decreto Ministeriale, su tabelle e finanziamenti, dimenticando le funzioni che le istituzioni delegano agli operatori privati, affinché la cultura e lo spettacolo abbiano un valore sociale e tornino a far parte del settore del welfare (e non di quello economico). L’enfasi sulla cultura come motore di sviluppo ha depauperato il dibattito sulla cultura, relegandola a ruolo ancillare di altre politiche, come lo sviluppo turistico.
Gattulli ritorna sui ruoli delle Regioni e dello Stato nel nuovo Codice dello Spettacolo. Il movimento di tre grandi regioni verso l’autonomia potrebbe essere una leva per incidere sulla direzione da prendere, dato che in passato c’è sempre stata reticenza ad ascoltarle: nel D.M. 2014 con il coordinamento Stato-Regioni tramite Conferenza Unificata per concorrenza si intendeva che lo Stato deve dare una legge quadro che le Regioni devono attuare sul territorio. Questa è l’impostazione che dovrà avere il nuovo Codice dello Spettacolo, perché l’Italia è lunga e un modello centralizzato oggi è impensabile, perché non è possibile mettere sullo stesso piano gli abitanti della Lombardia con quelli del Molise, che forse sono per numero uguali a quelli di un quartiere di Milano. È indispensabile quindi che i territori e le Regioni dialoghino in vista dei Decreti attuativi, e lo facciano convocando a livello nazionale una specie di Stati Generali per cominciare a ragionare non su quante piazze o quanti spettacoli servono per entrare nel FUS, ma cosa vogliamo e cosa intendiamo per politiche della cultura e politiche dello spettacolo. Dobbiamo volare più in alto dei dibattiti che ci sono sempre incentrati sugli stessi temi.

Gianni Torrenti ringrazia Graziella Gattulli, rilevando come Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino con questi incontri e in generale con le Buone Pratiche stiano lavorando proprio in questa direzione, facendo discutere gli operatori su questi temi.
Massimo Mezzetti precisa che per mettere in atto la sua proposta non è necessario attendere il riconoscimento dell’autonomia delle Regioni, perché non viene messa in discussione la titolarità del FUS e dunque è aderente ai criteri della concorrenza e può essere quindi tradotto nella Delega del Codice dello spettacolo.
Gianni Torrenti passa la parola a Franco D’Ippolito, ponendo una domanda che suscita un applauso della platea: “Il mondo del teatro si fida di più dello Stato o delle Regioni?”

Franco D’Ippolito [Teatro Metastasio, Prato] risponde di fidarsi di uno Stato che mantiene gli impegni e di Regioni che facciano altrettanto. Parte dalla considerazione che il livello di elaborazione politica e l’attuazione delle politiche culturali sia diverso nelle varie regioni, e addirittura diverso all’interno della stessa regione a seconda dei cicli politici. Senza che questo debba incidere sulle etichette, ingabbiare il rapporto Stato-Regioni in un modello che include tutte le Regioni porterebbe inevitabilmente ad abbassare il livello di elaborazione, progettazione e attuazione: un esempio è l’Art. 45 del vecchio D.M., cioè l’accordo Stato-Regioni sulle Residenze, secondo il quale il FUS non finanzia le Residenze, ma le Regioni su progetti finalizzati alle Residenze. Scarpellini interviene ricordando che la voce Residenze presente nel progetto di ripartizione del Fondo Unico per lo Spettacolo non era prevista nella legge istitutiva del FUS. D’Ippolito ribatte che l’articolo del Decreto Ministeriale è stato impropriamente intitolato Residenze, ma nei contenuti gli accordi Stato-Regioni hanno finalità di sostegno dei sistemi Regionali delle Residenze: il Decreto non prevede insomma un finanziamento diretto dello Stato alle Residenze.
Secondo D’Ippolito l’ex Art. 45 (oggi Art. 43) è stato snaturato, snaturando l’intero sistema nazionale delle Residenze, per inseguire l’accordo Stato-Regioni, abbassando il livello generale. Replicando lo schema in altri ambiti, si rischia di peggiorare la situazione, costringendo regioni virtuose e attive a scendere al livello di regioni non virtuose e per nulla attive. L’accordo di programma con la gestione condivisa di FUS e FURS è invece un’opportunità offerta a tutte le regioni, secondo condizioni da non adeguare al livello più basso, ma lasciando libere le regioni secondo un assetto variabile.
D’Ippolito ribadisce che il riequilibrio territoriale è una questione delicata, che rischia di divenire un freno per il sistema, oltre alla difficoltà del ricambio generazionale. Dalle analisi dei Decreti direttoriali con le assegnazioni del FUS per il 2018 emerge un panorama di forte squilibrio territoriale. Su 324 organismi finanziati per la prosa:

– 77% hanno sede al Centro-Nord, in ragione del numero dei soggetti (rispettivamente 141 e 99).
– 14% al Sud.
– 7% nelle isole.

Riguardo alle ultime due voci, andrebbero considerate le maggiori difficoltà in determinate aree del paese nella relazione con gli enti territoriali, con le imprese e con un contesto socio-economico debole.
Lo squilibrio territoriale viene replicato nelle stesse dimensioni anche rispetto ai 51 nuovi ingressi su 324 soggetti finanziati. Il riequilibrio richiamato nei principi della Delega andrebbe regolamentato, almeno riguardo ai nuovi ingressi. Al contrario, i progetti speciali andrebbero limitati, perché incontrollabili e ingiudicabili.
Le Regioni virtuose andrebbero forse premiate con la sussidiarietà solidale, chiedendo loro un contributo di solidarietà per le regioni più deboli.
D’Ippolito chiude con la speranza che lo squilibrio territoriale sia discusso secondo un piano triennale, dando maggiori opportunità alle Regioni che vorranno incamminarsi in questa direzione assieme allo Stato, finalizzando il piano di riequilibrio alla compensazione delle minori opportunità di un soggetto meridionale con pari capacità artistica, culturale e gestionale rispetto a un competitor emiliano-romagnolo. I dati del FUS non sono certo il risultato dell’inferiorità artistico culturale dei soggetti meridionali, ma la conseguenza di inferiori opportunità per consolidarsi e crescere.

Graziella Gattulli ribatte che la ripartizione del FUS non è la soluzione per i soggetti appartenenti a territori svantaggiati, anche perché spesso questi soggetti non fanno neppure domanda. Il problema non è limitato al solo Sud: anche il Piemonte (Torino-centrico) vede pochissimi soggetti al di fuori del capoluogo finanziati dal FUS, mentre una regione del Sud come la Puglia è molto attiva.
Oliviero Ponte di Pino conclude il breve dibattito sullo squilibrio territoriale, riportando l’attenzione sul tema politico di fondo: quanto premiare chi si impegna e quanto andare nella direzione del riequilibrio.

L’impatto sul settore
introducono e coordinano: Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

Per Claudio Longhi [Direttore ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione e membro di P.L.A.TEA, che accoglie l’area della stabilità] allo stato attuale dell’arte è ancora difficile valutare l’impatto sul settore delle disposizioni in materia di spettacolo della legge del 22 novembre 2017, dal momento che si tratta di una legge quadro di cui ancora mancano i Decreti attuativi. Tuttavia Longhi sottoscrive la proposta avanzata dall’assessore Mezzetti sull’ipotesi di struttura della relazione Stato-Regioni, concentrandosi poi su tre considerazioni.
E’ necessario cercare di definire, dal punto di vista dell’identità e delle funzioni, le categorie tipologiche in cui dovrebbe articolarsi il sistema. Stabilire cioè cosa sono queste categorie e a cosa servono, dato che al momento sono state date indicazioni soprattutto in merito alle dimensioni quantitative.
Quando si parla della relazione Stato-Regioni-enti locali, e quindi della relazione tra questi ultimi con i soggetti che operano all’interno del settore teatrale, si affronta a tutti gli effetti la questione della funzione pubblica del teatro. Dobbiamo chiederci se allo stato attuale dell’arte il teatro può essere ancora considerato un servizio pubblico, una nozione sulla quale Longhi solleva dubbi: perché l’idea di servizio pubblico comporta una domanda che al momento non è codificata, mentre si avverte una necessità di teatro (che è altra cosa). Longhi suggerisce che sarebbe più proficuo utilizzare altre categorie come ”valore” e ”bene comune”. Questo diverso atteggiamento potrebbe incidere sull’impianto operativo e sulle modalità di finanziamento.
Riguardo alla relazione con Enti locali, Longhi sottolinea che il Decreto Ministeriale 2014 prevede l’istituzione delle tipologie categoriali ed entra nel merito della sussidiarietà degli Enti locali al finanziamento dei soggetti, ma resta evasivo rispetto ai rapporti che questi soggetti hanno con le istituzioni (Comuni e Regioni). È evidente l’impostazione verso la stabilità che impone il Decreto (una stabilità che guarda alla Francia, dove i teatri funzionano in modo totalmente diverso, con compagnie stabili). Ma è altrettanto evidente che sarebbe necessario un forte radicamento sul territorio, all’interno di un orizzonte geografico che può essere municipale o regionale, a seconda della natura del teatro.
Se un Teatro si dice Nazionale, la relazione con l’estero è un dato importante, pur mantenendo l’equilibrio con il radicamento nel territorio, poiché quel teatro diventa sia un portavoce della cultura italiana, sia un ricettore della cultura estera all’interno del paese, sia un tramite con gli artisti.
Longhi affronta il nodo del rapporto con la scuola. Qual è la posizione dello spettacolo e delle discipline performative nell’attività didattica? Anche devolvendo il 3% del FUS al rapporto teatro-scuola, non è possibile raggiungere buoni risultati se i percorsi didattici non contemplano gli insegnamenti delle discipline performative all’interno della scuola.
Sempre in tema di formazione, va chiarita anche la relazione tra Scuole di Teatro e AFAM: un requisito per i Teatri Nazionali, previsto dal Decreto nella sua forma primitiva e che poi si è lasciato cadere, era che avessero una scuola di teatro, che è rimasto solo un parametro per valutazioni successive. Il Ministero, pur prevedendo di istituire scuole di teatro o contemplandone la valutazione, non si è posto il problema del rapporto tra scuole di teatro e AFAM, disciplinata dal MIUR, una istituzione che dovrebbe interagire con le arti performative anche da questo punto di vista.

Oliviero Ponte di Pino ringrazia Longhi per gli argomenti sollevati e ricorda che la seconda edizione delle Buone Pratiche nel 2005 era dedicata al tema della “Cultura come valore”. R, e che riguardo al rapporto con le scuole sarebbe opportuno discutere, trattandosi di uno dei temi centrali di questi mesi. Mimma Gallina specifica che il termine “impatto” nel titolo del panel è riferito al lavoro fatto rispetto all’impatto del Decreto, come valutazione da farsi prima che si creino dei danni.

Ruggero Sintoni [Accademia Perduta, Presidente Sezione Spettacolo dal Vivo Agis, Emilia Romagna] ricorda che da molti anni si parla del rapporto Stato-Regioni-Enti locali in relazione alle sovvenzioni ovvero del sistema di sostegno dello spettacolo dal vivo. La volontà dell’Emilia-Romagna di valutare i soggetti per le assegnazioni del FUS è una prospettiva affascinante per i teatri del territorio, che sanno di essere ben conosciuti da questa istituzione, sia grazie ai funzionari regionali che hanno il compito di monitorare l’attività teatrale, sia per la relazione che i teatri hanno con la Regione. Se però non dovessero esserci altrettante competenze amministrative da parte delle altre Regioni, cosa accadrà al sistema dello spettacolo dal vivo?
Manca oggi del tutto il controllo dello Stato. Il D.M. 2014 prevedeva una sistemazione del settore dello spettacolo e il relativo controllo, e non è stato fatto nulla. Il sistema delle istruttorie non può dunque essere applicato, perché sarebbero diversi i criteri da Regione a Regione. E sarebbe indispensabile poter fare almeno le istruttorie a fine lavoro (a consuntivo).
L’Emilia-Romagna possiede un sistema dello spettacolo estremamente diversificato e ricco, che ha trovato nel rapporto con la Regione un valido appoggio. Dobbiamo però pensare che tutte le Regioni debbano trovare un sistema di relazione con lo Stato. Al momento siamo in mano agli algoritmi. Applicare il solo algoritmo allo spettacolo dal vivo può andare bene, a patto che le risorse aumentino. Quando le risorse diminuiscono, l’algoritmo porta all’angoscia.

Laura Valli [presidente di C.Re.S.Co. – Coordinamento della Realtà della Scena Contemporanea] riferisce del recente incontro con il Ministro, il quale conferma che la proroga sarà di dodici mesi, che si metterà mano al FUS attraverso le consultazioni di AGIS, C.Re.S.Co e altri, e la Commissione Cultura Senato, che non esiste al momento un tavolo sull’accordo MiBAC-MIUR: il MIUR chiede i finanziamenti al MiBAC, che temporeggia.
Valli il resoconto del documento presentato al Ministero.
Territori e Residenze – riconoscimento all’interno del FUS del lavoro delle imprese che operano contribuendo alla crescita del patrimonio immateriale delle comunità, garantendo servizi ai cittadini. L’accordo di programma interregionale, in attuazione dell’Art. 43 determina un netto cambio di prospettive: se da un alto permette la nascita di importanti centri di residenza a livello nazionale, dall’altro non sostiene adeguatamente il lavoro territoriale. Occorre forse uno strumento nuovo per dare continuità ai servizi ai cittadini che le residenze artistiche hanno garantito nello scorso triennio.
Valli ritiene che il documento sintetizzi bene una serie di temi in discussione da tempo: le Residenze innanzitutto, sulle quali uno dei primi progetti regionali fu Residenze piemontesi, seguito dalla bellissima iniziativa “Teatri abitati”, un finanziamento della Lombardia attraverso una fondazione privata. In tutti questi casi, le Residenze hanno avuto un peso consistente nella diffusione della cultura teatrale, delle performingarts e della danza nei territori periferici –. Sorprendente è constatare come lo Stato e molte Regioni non riconoscano che il teatro in Italia, e in qualsiasi paese, non è fatto solamente dai Teatri nazionali, dai TRIC, dai centri di produzione, ma deve andare a creare un sistema linfatico che sostenga, come in un organismo, il sistema circolatorio sanguigno, ed è ciò che hanno fatto le Residenze in questi anni.
L’Art. 43 concentra la questione sulle Residenze artistiche (ovvero sull’attraversamento degli artisti), abbandonando il lavoro sui territori: in questa visione lo Stato ha avuto un peso forte, cosicché le Residenze andranno forse ad avere un ruolo di sostegno alla produzione, ma sui territori rischia di crearsi un vuoto. Occorre superare il concetto di Residenza, trovando prima di tutto un nuovo nome e, successivamente, un nuovo modo per mantenere vivo questo settore, senza il quale il sistema è destinato a collassare. Valli conclude ribadendo che una regia da parte dello Stato ci deve essere, soprattutto per impedire che si verifichino squilibri come la mancata uscita del bando per le Residenze in Calabria. Ci vuole un coordinamento (non un’ingerenza ma una con-correnza) che impedisca a ogni regione di fare di testa sua. Per C.Re.S.Co è fondamentale il ruolo dei territori, delle terre: poiché sono quelle da cui crescono i semi del nostro lavoro, e fanno crescere pubblici che dai piccoli comuni si spostano, anche verso i grandi centri.

Si aprono gli interventi del pubblico.

Per Patrizia Ghedini [ex-responsabile del Servizio Cultura Sport e Progetto Giovani della Regione Emilia-Romagna] la questione è politica: la riattualizzazione delle politiche culturali, l’incertezza normativa che ha contraddistinto il settore, il tema della qualità legata solo alle risorse, eccetera. Purtroppo i temi sono gli stessi di dieci anni fa, occorre cambiare metodologia. Nel Decreto sono presenti i contenuti, gli ambiti di intervento e si citano gli strumenti, ma le Regioni hanno avuto forza solo quando non si sono limitate a esprimere pareri ma hanno avuto il coraggio di prendere l’iniziativa, forti delle esperienze fatte sui territori e del contributo degli operatori del settore. Proviamo a cambiare metodologia, costruendo una proposta di legge nazionale sullo spettacolo fra Regioni e attualizzando i temi. Ma finora è mancata una strategia comune.
Marina Visentini [Associazione ETRE] condivide con Laura Valli (ex-presidente di ETRE) l’idea di Residenza come presidio culturale diffuso nel territorio della Regione, non centralizzato. E’ uno strumento di valorizzazione del capitale umano e del paesaggio, soprattutto nelle periferie come centro di interesse dei bandi e di fondi a livello ministeriale.
Allo stato attuale Visentini ritiene prioritari la semplificazione burocratica dei processi e il dialogo con gli interlocutori, perché passare le giornate a parlare di conti e di budget rischia di mettere in secondo piano la qualità artistica. A livello di interlocutori, dato che spesso non ci rispecchiamo negli standard imposti dal Ministero, diventa più funzionale interfacciarci con l’ente locale, perché è il soggetto con cui è possibile progettare.
Conclude affrontando il tema del gap tra pubblico e privato: nell’impresa culturale come in quella commerciale, mentre il privato riesce ad aggiornarsi nei suoi processi, il pubblico rimane spesso indietro e magari usa ancora il fax…

Lorenzo Scarpellini si riallaccia all’intervento di Patrizia Ghedini, ricordando che nel 2014 è stata fatta una riforma senza finanziamento e che la legge del novembre 2017 non ha portato maggiori fondi allo spettacolo. Commentando l’intervento dell’assessore Mezzetti, nota che il rapporto in atto per rivendicare maggiori autonomie da parte di alcune Regioni è un processo che sta passando sopra la testa degli operatori, mentre riguardo ai decreti legislativi ci sono già consultazioni in atto. Vista la carenza di fondi, propone di ripristinare un vecchio sistema di lavoro ovvero la convocazione all’interno delle Regioni delle associazioni maggiormente rappresentative degli interessi collettivi di cui gli operatori sono portatori. Altre proposte: la costituzione di un’area dello spettacolo popolare, la detassazione delle spese vive per gli operatori dello spettacolo, un fondo perequativo che risponda a quella necessità di sussidiarietà istituzionale prima esposta, il tax credit per la produzione e l’esercizio.
Scarpellini conclude sollecitando le Regioni ad avviare consultazioni con le associazioni a livello nazionale (dato che in sede regionale i contatti sono costanti) per avere il polso della situazione e a farsi portatrici delle esigenze di reinvestimento nel settore, assenti nella legge di novembre, ma con la previsione di intervenire sui costi di gestione.
Daniele Donati rimarca la necessità di un centro forte, perché in assenza di certezze non c’è vera autonomia dei teatri: soltanto la garanzia anche di pochi punti garantisce la capacità di Regioni e teatri di operare nei loro spazi di autonomia. Anche la perequazione Nord-Sud è compito di un centro forte. Purtroppo però c’è poco dialogo tra i Ministeri e questa frammentazione si ripercuote a tutti i livelli. Da professore universitario, Donati si chiede chi sono i manager culturali e chi li forma: i manager non dovrebbero essere prima di tutto economisti, ma studiosi di musica, teatro o arti visive che imparano l’economia, il bilancio, le norme (come succede in altri settori, per esempio i manager della sanità sono prima di tutto medici). Rivolgendosi ad Antonio Taormina, Donati lamenta che si moltiplichino – nel frattempo – corsi di formazione dei manager culturali, quando il management potrebbe essere la risposta per trovare risorse diverse da quelle del FUS, o per rivedere i bilanci di spesa. È necessario mettersi d’accordo su chi gestisce i nostri teatri, le nostre compagnie. La frammentazione si verifica purtroppo anche tra operatori: impossibile abbattere le barriere se non si collabora tra noi, anche tra soggetti diversi per dimensione o tipologia, nello spettacolo dal vivo.
Riperequare, cioè aiutare i più deboli del sistema come sostiene l’Art. 3 della Costituzione (che bilancia l’Art. 9 e l’Art. 33), è una scelta importante di politica per la cultura anche per quanto riguarda la ripartizione del FUS. Invece di concentrarsi solo sulle risorse, Donati invita a ripensare gli incubatori: si potrebbero sostenere start up di piccole imprese che fanno spettacolo, tenendole “incubate” fino a che non sono in grado di sopravvivere da sole.
Gianni Torrenti prosegue il discorso di Donati sulla formazione al management, portando esempi di corsi dedicati al management sul turismo culturale, incentrati sulla conoscenza della storia dell’arte assommati a elementi di economia aziendale. Riguardo agli incubatori, indispensabili e già attivati in aree importanti del paese, il timore dell’insuccesso delle società incubate causa sofferenza e insicurezza rispetto alla parte sperimentale dell’iniziativa.
Per quanto riguarda i livelli minimi standard di offerta culturale, dovrebbero essere garantiti dalla Costituzione, come avviene per l’istruzione o la sanità. Trovare un sistema per garantire lo standard minimo, intervenendo dove questo non venga raggiunto, ha un costo che andrebbe affrontato con risorse aggiuntive. Diversamente si finirebbe per penalizzare le attuali eccellenze.
Torrenti avverte inoltre che è profondamente sbagliato pensare ciascuno solo al proprio microsettore. Dobbiamo essere tutti consapevoli che il sistema non può reggere senza togliere dal tavolo i debiti delle Fondazioni Lirico-sinfoniche, magari costituendo una bad company che prenda in pancia i debiti [circa 450 milioni] e con una copertura dello Stato probabilmente ventennale (e un costo di 25-30 milioni annui). Solo così si potrebbe pensare di ristrutturare il settore della lirica, fondamentale per l’identità della nostra nazione, lasciando una presenza produttiva diffusa come oggi, ma sottoposta a regole certe e non vanificate da un pregresso insostenibile, che è palesemente ridicolo possa essere risolto dalle stesse Fondazioni. Per motivare l’intervento dello Stato per assorbire l’intero debito delle Fondazioni Lirico-sinfoniche, Torrenti ricorda che Sovrintendente e presidente del Collegio dei Revisori sono di nomina ministeriale, quindi è palese dove stiano le responsabilità, certamente almeno quelle formali. Il reperimento di nuove risorse per il settore, togliendolo dal FUS e lasciando a quest’ultimo tutte le risorse attuali, potrebbe dare una risposta anche a tutte le esigenze dei nuovi settori previste dalla legge delega e di investimento al Sud e nelle aree montane e in quelle disagiate.
I nuovi Enti lirici potrebbero essere sostenuti da una modalità di accordo con lo Stato simile a quella per la prosa. Torrenti ipotizza tre o quattro Enti Lirici “Nazionali” con un finanziamento di circa 16 milioni di euro e cofinanziamento al 100% di Regioni, enti locali e sponsor con uno standard di dipendenti attorno alle 450 unità, e gli altri “Lirici TRIC” con un finanziamento di circa 11 milioni e cofinanziamento al 50% con uno standard di dipendenti a 260 unità e lasciando fuori quota Scala e Santa Cecilia. Il tutto con progetti triennali o quadriennali e con certezza di contributo per l’intero periodo (deliberato almeno un anno prima dell’inizio del progetto). Si tratta di un modello simile alle convenzioni francesi ma adattato, per evitare la attuale incredibile situazione di trovarsi a stagione fatta a scoprire che si hanno milioni in meno o in più, una situazione assurda e ingestibile, che ha danneggiato in modo irreversibile i bilanci e la programmazione, che ha reso impossibile persino il risparmio penalizzando direttamente il punteggio in una spirale suicida. La condizione preliminare è una responsabilizzazione reale della gestione da parte del Consiglio e del Sovrintendente, e con un controllo reale che non sia quello di maniera di questi decenni.
Per Lucio Argano, vista la sedimentazione, o la stratigrafia, che negli ultimi anni ha determinato un grande tiro alla fune tra centro e periferia, è necessario recuperare una convergenza di interessi e di obbiettivi, qualsiasi cantiere si metta in atto, partendo da un centro forte o dalla Conferenza Unificata. Sarebbe utile cercare di ricostruire cosa è successo negli ultimi tre anni, per capire per esempio dove si colloca il Teatro Nazionale, non solo sul tema delle risorse ma nel rapporto con il Ministero dell’Interno (si tratta di locali di pubblico spettacolo) e vista anche la grande quantità di norme in materia, che sfuggirà al lavoro di revisione tanto auspicato.
Mimma Gallina, pur comprendendo l’esigenza di autonomia delle Regioni, non si rassegna alla mancanza di uno standard minimo, per cui la Regione Calabria – per esempio – sia obbligata a fare alcune cose; ma come ottenerlo? Se il governo è intenzionato a veicolare i finanziamenti sui progetti speciali, avendo fatto promesse ai primi soggetti che si sono presentati in ordine di tempo, è opportuno far presente pubblicamente che occorre un’attenta analisi perché siano efficaci in termini di politica di perequazione o del riempimento di vuoti. Una delle ragioni per cui ci troviamo a questo punto (con un calo del FUS al 50% rispetto al 1985) è che gli operatori sono sempre sottomessi al ministro del momento, costruendo le proprie clientele. Il risultato è la svalutazione totale della funzione del rapporto con le istituzioni, del ruolo dei teatro e dei fondi allo spettacolo.
Oliviero Ponte di Pino nota che, anche alla luce delle riflessioni sollevate e delle proposte avanzate, né il governo centrale né il mondo del teatro paiono in grado di ragionare in una logica di sistema. Gli operatori, concentrati sul loro interesse immediato, non sono riusciti a organizzare in questi anni una efficace azione politica comune (come emerge dal Decreto 2014 e dalla pioggia di ricorsi). Ma anche al Ministero manca una strategia. Se in passato qualcuno aveva avuto l’illusione che l’algoritmo potesse risolvere il problema, sulla base di parametri tecnici, oggi sappiamo che non può bastare: serve una visione politica, che al momento è vaga, anche a causa della insufficienza delle informazioni in nostro possesso su cosa sta effettivamente accadendo nello spettacolo. Il lavoro che ha svolto Mimma Gallina sull’impatto del Decreto sul mondo del lavoro è una piccola sonda, ma è rimasto l’unico modello di ragionamento in profondità sull’impatto del Decreto: senza monitoraggio e senza una visione politica diventa difficile ragionare su uno sbocco possibile.

 

Si ringrazia




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