L’Oedipus di Bob Wilson: Olimpico anno zero

Ovvero perchè il Teatro Olimpico non sarà più lo stesso

Pubblicato il 08/10/2018 / di / ateatro n. 165

Bob Wilson, Oedipus [foto di Lucie Jansch]

Entri e ti pare di non riconoscere il Teatro Olimpico. Una pedana nera opaca va da verzura a verzura, scendendovi con due modeste rampe; rialza di poco il palcoscenico palladiano, all’altezza del plinto (un palmo da terra) e da questo leggermente staccata, con il risultato di nascondere appena allo spettatore l’appoggio delle colonne. E dunque la pesantezza dei marmi. Ecco. E venendo avanti digrada in orchestra, ma non la riempie tout court – come molti registi hanno spesso fatto per cancellare l’obbrobrio delle sedie di plastica (o anche solo il vuoto lasciato dalla loro assenza); vi sfuma discretamente, sottraendo alla vista dello spettatore anche l’ipotetica ribalta. È profilata davanti e dietro da due linee continue di led; che traguardano i nostri sguardi impestati di geometrie scolastiche e ci aiutano a non domandarci troppo dove comincia e dove finisce la statica del monumento: così il frons scenae sembra librarsi, finalmente affrancato dai manuali e dalle guide turistiche.
Ci voleva un artista apolide (i suoi orizzonti aperti) per sgombrare il terreno da questo stereotipo olimpico: la distinzione fra luce drammatica e luce architettonica (sebbene lo spettacolo inaugurale del 1585 sia ricordato come il primo esperimento conosciuto di illuminotecnica moderna). Wilson vede oltre: non tanto perché la luce tratta tutti i convenuti, attori e spettatori, come un corpo unico (appunto come in quella antica serata inaugurale); ma soprattutto perché separa nettamente (con i colori, si badi, ton su ton) il primo ordine architettonico dai due superiori, più bassi e sproporzionati all’azione scenica, restituendo al primo una funzione scenografica a misura d’attore; perché, illuminando il frons scenae dal basso, assegna alla statuaria ombre (e sopravvivenze) drammatiche finora sconosciute; perché si permette di giocare con le asimmetrie o perfino con i dettagli, primi piani “americani”, un avambraccio, una corda attorcigliata, emergenze narrative infrequenti a teatro quanto tipiche del cinema; perché ci affligge con un controluce persistente e pulsante, collocato al centro della via centrale, che minimizza quell’effetto di rigidità un po’ kitsch della scenografia scamozziana, relegandola finalmente nella pace della semioscurità. E infine (o soprattutto) perché quest’ultimo controluce accecante, in quei pochi momenti che ci dà requie, ci rende a tratti ancora capaci di apprezzare qualche attimo del Buio, di cui da lungo tempo ci hanno deprivati gli avvisi e i moniti della 626 (‘Uscita di sicurezza’, ‘Non Fumare’).

Bob Wilson, Oedipus [foto di Lucie Jansch]

Ci voleva un artista poliglotta perché la phonè degli attori, ‘straniata’ dalle più ricercate risorse della fonica (basi, eco, dissolvenze, fino al doppiaggio differito degli attori), ridesse vita ai più insospettati anfratti olimpici, facendo risuonare le voci dei nostri fantasmi: il Teatro Olimpico come un Orecchio di Dioniso (se nelle luci Wilson emula Ingegneri, con la sua regia del suono supera Palladio che, progettando una sala ellittica, volente o nolente, aveva disposto due fuochi acustici scomodi e inarrivabili dagli attori a circa tre metri di altezza – del resto poi definitivamente sconciati dal rifacimento in cemento del sottopalco). E l’Olimpico si (ri?)mette a cantare: in greco, tedesco (Angela Winkler), francese coloniale (Kayije Kagame), texano (Robert Wilson), napoletano involontario (Mariano Rigillo), italiano vintage (Romagnoli, per fortuna straniato da un accento brandeburghese) e perché no? in italiano corrente e non corrivo.
Edipo. Certo, è ora di parlarne. Perché tutte queste raffinate invenzioni “multimediali” potrebbero in fondo essere messe al servizio di una qualsiasi attrazione son et lumière, se non fosse che qui ci aprono la “casa” di Edipo (per usare l’illuminata definizione di Giuliano Scabia). Qui le strade sono quelle di Tebe e insieme di Vicenza – Italia, Europa, Mondo; e questo Teatro è l’emblema, unico nel suo genere, di questa fissazione.
Per questa “casa” dunque il regista ha approntato di persona, con l’aiuto di Konrad Kuhn, una drammaturgia palindroma suddivisa in cinque parti (come la tragedia, verrebbe da dire, se non fosse che l’articolazione della tragedia prende origine dai movimenti del Coro da un’entrata a un’uscita – parodos, stasimos, exodos). Nel disegno di Wilson, invece, la prima parte corrisponde antifrasticamente all’ultima (la profezia con la cecità), la seconda con la quarta (il parricidio involontario con l’indagine poliziesca); e al centro, la terza, perno di tutto, è l’Imene – le Nozze di Edipo e Giocasta – celebrate con uno stupefacente rito aborigeno che, più che morboso, appare perturbante: come a dire che il vero incesto non è sessuale; non è del figlio con la madre, ma dell’Uomo con la propria Storia. Perseguendo questa circolarità della narrazione edipica, questo tempo ciclico (chi ricorda l’estenuante e subliminale linearità di Einstein on the Beach può comprendere il percorso fatto da Wilson) il dramaturg insegue così la propria “classicità”; ma quel che più conta per noi è che vi troviamo un Edipo nuovo, non più quello di quei due vecchi moralisti, Sofocle (dove i fatti, i crimini, sono tutti fuori scena, ob-sceni, appunto) e Freud (dove Edipo è latente, patente ma mai presente). I passi da titano, battuti sulla lamiera da Edipo mentre ricalca le sue impronte a quel fatidico trivio, ce lo rendono presenza assordante, compagno di strada; e la sua vicenda un ordito della Ragione (Rousseau, Brecht e Müller non sono passati invano).
Il resto? Una sequenza di insights, a cascata.
Fin da subito la cecità è un annaspo ieratico verso la luce da parte di un Edipo di spalle (con buona pace di tutte quelle bende macchiate di sangue, orbite impiastrate di ceroni, filamenti bulbari, e relativi barcollamenti, che ci propina il teatro prosaico). Siamo tutti falene?
Il mito di Giocasta, un po’ disabile un po’ scema, si distribuisce fra le immagini di una sfinge da fumetto semovente su rotelle, di una Marlene Dietrich distratta e decaduta, e di una vergine afona immagata in un rito più vegetale che animale. Il sesso è solo riproduzione?
E la Peste, la Peste, si diffonde come una progressiva assillante dispositio di sedie sulla scena (di “posti a sedere”, ipoteche di cittadinanza), fino a comporre una platea speculare all’altra, quella del teatro. La nostra malattia è l’ideologia?
Platea di compiacenti sedute che, ça va sans dire, Edipo rovescerà a terra una a una nel momento della sua presa di consapevolezza; perché se la malattia, il teatro appunto, è sociale, il sacrificio che la può riscattare è sempre quello di un solo Uomo (per questo forse, fra tutti gli Edipi, la patristica ci ha tramandato quello sacrificale e salvifico di Sofocle, piuttosto che quello di Euripide che, sappiamo dai frammenti, finiva a tarallucci e vino).

Bob Wilson, Oedipus [foto di Lucie Jansch]. Mariano Rigillo

Così davanti a tutte quelle sedie rovesciate – che restano, oltre la fine, a intralcio dei convenzionali applausi, e non sembra un caso: nessuno spettacolo è a sedimento zero – il cerchio si chiude appunto sull’Olimpico; su quella specularità fra scena e platea che gli antichi accademici avevano inteso incarnare mettendosi essi stessi in scena – unico atto davvero innovativo di un progetto, quello palladiano, che invece per il resto era una monumentale presunzione di teatro.
Che comunque oggi riceve questa nuova consacrazione laica dal Mundus Novus.
E adesso? Teatro “multimediale”? Chissà. L’idea sarebbe forse piaciuta a Wagner, che guarda caso voleva ricompattare proprio i diversi linguaggi della tragedia. Ma una cosa è la sperimentazione concreta e sistematica per unificare la creazione teatrale nel segno di una festa-lutto dell’Immagine; per riduzione e non per accumulo – come quella che si fa fin dagli anni Sessanta al Watermill Center di Bob Wilson; e altra cosa è una sommatoria random di tecniche – o per altri versi il mero superamento ideologico dei generi, ormai d’obbligo. E poi c’è sempre l’attore… Chissà.
Comunque sia, l’abbiamo visto tutti, toccato con occhio e orecchio: questa volta Wilson ha rifatto l’Olimpico; questo evento resta un punto di non ritorno. D’ora in poi, chi potrà sfacciatamente insistere sul fatto che in fondo è solo questione di repertorio? Quale orecchio potrà più sopportare qui dentro: “Mamma!” “Babbo!” “Figlio mio!”, e men che meno “Signora, il pranzo è servito”?
Sarebbe come andare a Stonehenge (altra “pietra sospesa”, come l’Olimpico) per ascoltare le previsioni del tempo, invece che per far piovere.

Su questo spettacolo vedi anche il saggio di Ferdinando Marchiori

Oedipus (tratto da Oedipus tyrannos di Sofocle)

ideazione, scene, light design e regia  Robert Wilson
co-regista Ann Christin Rommen
musiche originali Dickie Landry e Kinan Azmeh
costumi Carlos Soto
collaborazione alla scenografia Annick Lavallée-Benny
collaborazione alle luci Solomon Weisbard
drammaturgia Konrad Kuhn
interpreti Mariano Rigillo, Angela Winkler, Michalis Theophanous, Casilda Madrazo,
Kayije Kagame, Alexis Fousekis, Dickie Landry
con la partecipazione di Meg Harper, Laila Gozzi, Alessandro Anglani, Marcello di Giacomo, Gaetano
Migliaccio, Francesco Roccasecca, Annabella Marotta, Francesca Gabucci
voci di  Robert Wilson, Lydia Koniordou, Christopher Knowles
assistente alla regia, direttore di scena Sara Thaiz Bozano
sound designer Dario Felli
programmazione e supervisione luci Marcello Lumaca
make up Manu Halligan
tecnico del suono Marco Olivieri
direttore tecnico Enrico Maso
capo macchinista Adriano Pernigotti
sarta Lara Friio
attrezzista di scena Cecilia Sacchi
operatore follow-spot Isadora Giuntini
truccatore e parrucchiere Nicole Tomaini
documentazione video Andrea Villa
stagisti Alice Cappellini, Giuseppe Luraghi, Flavia Ruggeri, Francesca Sartorio
direttore di produzione Virginia Forlani
assistenti di produzione Maddalena Papagni e Elisa Crespi
assistente personale di Wilson Nelson Gellrich
ufficio stampa e comunicazione Adriana Vianello / Studio Systema
Spettacolo in italiano, inglese, greco, tedesco e latino; traduzioni originali in italiano di Ettore Romagnoli (1926) e Orsatto Giustiniani (1585)
I workshop preparatori e le prove sono stati resi possibili grazie a Watermill Center, Teatro Stabile di Napoli, Centrale Fies, Fondazione Teatro Comunale di Vicenza 

progetto
CHANGE PERFORMING ARTS
commissionato e co-prodotto da 
CONVERSAZIONI | TEATRO OLIMPICO VICENZA
POMPEII THEATRUM MUNDI | TEATRO STABILE DI NAPOLI




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