Africa in scena: tre spettacoli a Milano
Considerazioni intorno a Verso Sankara di Maurizio Schmidt, Ricchi di cosa, poveri di cosa? di Livia Grossi, Il riscatto del Migrante di Mohamed Ba
Della storia dell’Africa gli italiani sanno molto poco, ed è una lacuna grave di questi tempi. L’ignoranza, e la conoscenza superficiale della storia (inclusa la storia del presente e quello che le sta intorno), alimenta i luoghi comuni, quelli che fanno dire “non sono razzista ma.. ” e fanno pensare che la soluzione buona e giusta – e forse l’unica possibile – sia “aiutiamoli a casa loro”, pur sospettando che questa strada aiuti anche o soprattutto corrotti e corruttori. Fra questi, in prima fila ci sono le grandi compagnie occidentali, come il gruppo Africa Logistic di Vincent Bolloré (proprio lui, messo recentemente in custodia cautelare in Francia, con accuse di corruzione in Guinea e Togo). Se i francesi hanno sempre difeso i propri interessi in tutti i modi possibili nelle loro ex colonie (e non solo), anche noi (e l’ENI) non scherziamo: in Libia come in Nigeria (per approfondire: https://www.osservatoriodiritti.it/2018/05/16/eni-nigeria-corruzione-processo-opl-245/).
Così è per molti una sorpresa, scoprire che negli anni Ottanta, nel lontano Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo, ex colonia francese nell’Africa occidentale subsahariana, qualcuno aveva tentato la rivoluzione del buon governo, e per pochi anni ci era anche riuscito: il Burkina Faso (che vuol dire “Paese degli uomini integri”, il nome coloniale era Alto Volta), e il suo presidente assassinato, Thomas Sankara, sono stati al centro di due spettacoli al Teatro Franco Parenti di Milano (e ora in tournée).
Due spettacoli-viaggio, finalmente direzione sud-sudovest.
Partire è tornare a casa, alla ricerca della propria doppia identità per il giovane attore metis Alberto Malanchino (nome africano Boubakar), metà italiano metà burkinabé, in scena col musicista-attore Moussa Sanou (Bourkina 100% ma in Italia da dodici anni), in Verso Sankara di Maurizio Schmidt, produzione Farneto Teatro.
Partire è inseguire il sogno africano per Livia Grossi, reporter innamorata del teatro e dell’Africa in Ricchi di cosa, poveri di cosa?, che ci suggerisce una chiave di lettura ribaltata del rapporto ricchezza/povertà al di là della freddezza delle statistiche.
Go south: il ribaltamento di rotta non è irrilevante per la scena italiana, perché sposta l’attenzione dall’esperienza del viaggio come fuga e dramma (è certo necessario sapere, non minimizzare, non dimenticare, ma si rischia di appiattire l’esperienza della migrazione), alla scelta del viaggio come ricerca e necessità di incontro.
Parla di questo anche lo spettacolo dell’artista senegalese (autore, performer, musicista) da tempo in Italia Mohamed Ba, Il riscatto del Migrante, visto nel quadro dell’interessante ciclo di serate organizzate da “Teatro Utile” all’Accademia dei Filodrammatici, a cura di Tiziana Bergamaschi.
Lo spettacolo si apre con una video-conferenza estremamente efficace: è lo stesso Ba che ci elenca tutti i dati e i numeri giusti di questa ultima grande migrazione, riflette sul concetto di tempo, sull’accelerazione dei processi storici, ma soprattutto ci ricorda il dato di fondo: l’uomo è nomade, si è sempre spostato e sempre si sposterà. Si sposta per fame, certo, per sottrarsi alla schiavitù, per i disastri naturali, ma si sposta soprattutto per curiosità, per intima necessità, e “la ricerca dell’umanità è molto più bella dell’etnicità”
(da www.mohamedba.eu, il video della conferenza purtroppo non c’è – ancora – ma si trova molto altro su youtube).
Contaminarsi è nella natura dell’uomo, l’incontro è la cosa più difficile (ne ha parlato a inizio serata anche l’etnopsichiatra dell’Ospedale Niguarda di Milano Lorenzo Mosca, che di traumi da mancato incontro si occupa), ma anche la più desiderata. Solo l’incontro – che è curiosità, attenzione, conoscenza – abbatte gli stereotipi e può ribaltare gli equilibri. Nel finale dello spettacolo il migrante è diventato primo cittadino, e Mohamed Ba, con la sua faccia scavata, la capigliatura rasta, il suo abito africano e la fascia tricolore, è un’apparizione surreale e magnetica.
Conoscere il passato, interpretare e scontrarsi col presente, immaginare e sognare il futuro: il fenomeno migratorio è una grande sfida per il teatro “politico”, e cominciano a delinearsi forme e sperimentarsi modelli.
Se Acqua di Colonia di Frosini Timpano, giocando prevalentemente sulla corda ironica, vale un corso di storia del colonialismo italiano, ed è una lezione amara sul nostro razzismo profondo (si è molto parlato su Ateatro dello spettacolo e delle reazioni che ha suscitato presso gli spettatori), Verso Sankara, confrontandosi con il presente, si imbatte nella storia e incontra il mito.
Il ragazzo Alberto alla ricerca del ragazzo Boubakar si ritrova in una grande famiglia, che è proprio la sua famiglia, con decine di bambini, innumerevoli zie, zii, cugini coetanei, un nonno centenario e impenetrabile patriarca, un islam sconosciuto, calore e formalità nei riti famigliari, ricchezza e povertà estrema sotto lo stesso cognome. E ancora confini labili fra interni e esterno, fra case e botteghe, e polvere, caldo e strade dissestate. Lo sguardo sulla famiglia è divertito, e anche i giovani africani presenti fra il pubblico ne ridono di cuore e volentieri, forse anche perché a raccontare in scena la famiglia allargata che ben conoscono sono un meticcio e un nero, e fra la scena e la platea (quasi totalmente, ma non totalmente bianca) si è stabilito un rapporto speciale.
Ma Alberto non si ritrova nella pelle di Boubakar fino a che non incontra l’Eroe, la figura che riscatta e lo riconcilia con la sua terra d’origine: è un incontro folgorante che non teme la retorica (di retorica gli eroi, non possono fare a meno, e forse un po’ ne hanno bisogno anche gli spettatori: africani inclusi). E il presidente “Tomà”, ucciso a soli 38 anni dal suo compagno di rivoluzione Blaise Compaore (che poi del Burkina è stato il corrotto presidente per 27 anni), ha tutti i connotati e il fascino dell’eroe rivoluzionario: giovane, generoso, preparato, deciso, coraggioso, umile (il parallelo con Che Guevara è obbligato, ma rischia di essere riduttivo). Tomà è soprattutto un eroe nero, e la rivoluzione l’ha fatta per davvero, per quattro anni (dal 1984 al 1987): diritti paritari per le donne, vaccinazione diffusa, educazione contro l’infibulazione e l’Aids, lotta alla desertificazione e all’analfabetismo. Alberto/Bouba ci racconta con entusiasmo crescente questa epopea che il mondo ai tempi della guerra fredda non poteva tollerare (è il panafricanismo, il rifiuto della dipendenza neocoloniale), azioni concrete che anche oggi hanno il sapore dell’utopia.
La memoria di Tomà rivive attraverso i luoghi, i vecchi compagni e i famigliari ormai anziani (in preziose interviste filmate ), ma Tomà è mito, è nostalgia, o rappresenta ancora una speranza, un progetto politico fra le illusioni di una democrazia fragile, e il fragore degli ultimi attentati?
Nel corso dello spettacolo Alberto Palanchino attraversa una vasta gamma di registri interpretativi (narratore brillante, partecipe, entusiasta), conquistando e mantenendo l’attenzione degli spettatori per due ore, grazie anche ai contrappunti musicali e alle battute sagge e divertite in italo-afro-francese di Moussa Sanou (un Sancho divertito, una disincantata e ironica coscienza africana).
Ma il finale si vela progressivamente di malinconia: come se la regia avesse lasciato giocare e scorrazzare per il paese e per la Storia il giovane Alberto/Boubakar con il fido Moussa, guidandoli con mano leggera all’interno di una struttura rigorosa sul piano drammaturgico e scenico, ma sul finale abbia insinuato in quell’entusiasmo giovane tutta la nostalgia matura per una rivoluzione che è stata, ma non ha potuto decollare, e forse non solo in quel paese: Sankara – classe 1949 – è il tassello di un mosaico mondiale, in fondo era un ragazzo del ’68 (e in quell’anno era in Francia).
Malinconia e forse pessimismo. Il viaggio di Alberto accompagnato da Maurizio Schmidt (che in Burkina Faso ha girato un film documentario per Tamat, una ONG che lavora con progetti di cooperazione legati all’agricoltura, alle donne e al micro-credito) è un viaggio reale, e si svolge nei giorni intorno all’ultimo di tre gravi attentati che si sono verificati negli ultimi due anni e mezzo, quello del 2 marzo 2018 all’Ambasciata francese: è opinione abbastanza diffusa che l’Isis, sconfitto in Iraq e in Siria, stia costruendo la sua nuova roccaforte nel Sahel, la fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana che si estende a sud del deserto del Sahara.
Ricchi di cosa, poveri di cosa? è una puntata del “Giornale Parlato” ideato da Livia Grossi: un modo nuovo di fare informazione, un ‘giornalismo live’, in cui il tradizionale reportage, arricchito di contributi fotografici, video-interviste e musica dal vivo (Omar Jali Suso con la sua splendida kora in questo caso), è interpretato dalla giornalista-autrice con passione. E sono la passione un po’ emozionata (non “da attrice”), l’empatia, le convinzioni profonde, che convivono con l’informazione rigorosa, a coinvolgere lo spettatore e distinguere questa forma originale dal giornalismo spettacolo, molto diffuso in questa stagione milanese (interessante, anche se meno originale, più prossimo alle trasmissioni televisive storico-divulgative).
Dal suo incontro con l’Africa, Livia Grossi impara che “Coraggio, Dignità, Condivisione, Solidarietà, Accettazione, Scambio, ma anche la gestione del tempo, il rapporto con la natura, la capacità di sognare” … tutto questo conta più del PIL e del denaro: se lo capissimo “quali sarebbero i Paesi ricchi e quali quelli poveri?”. Ed è ancora Sankara a dirci che un mondo diverso forse sarebbe (stato?) possibile, con un estratto da un suo famoso discorso all’ONU sul debito pubblico, che protrae il colonialismo ben oltre le conquiste nazionali di indipendenza. Ma questi valori di certo precedevano e sopravvivono a Tomà.
Livia è stata più volte in Burkina Faso e ci comunica un affetto speciale per questo paese, per la vitalità delle tradizioni comunitarie che ancora scaldano il cuore, per la vivacità dell’arte, e in particolare del teatro, forma radicata e diffusa, come strumento fondamentale di informazione, di formazione e di dibattito. A teatro si parla di agricoltura e di infibulazione, di ambiente e di educazione: può sembrare incredibile apprendere che in Burkina di teatro si possa vivere (decentemente), ma questo è proprio uno dei messaggi della serata, quando il teatro (ri)trova il proprio senso, il teatro vive e di teatro si vive.
Da cronista precisa, Livia Grossi ci informa che il presidente Macron si augura che – ora che sono desegretati gli atti – si scopra tutta la verità sull’assassinio di Sankara: ovvero, chi c’era dietro al vecchio amico Blaise. Ma chi sa se il soft power à la Macron (“Bisogna inventare una nuova grammatica dell’influenza internazionale e la cultura ne fa parte”) è solo una nuova forma di post post colonialismo, o potrà offrire la cornice politica a nuove prospettive di incontro fra Europa e Africa. In questo quadro il “paese degli uomini integri” ha di certo qualcosa da dirci (e forse anche la scena italiana potrà fare la sua parte).
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