#Sicilia2018 | Performer sottosale Radica-ti sui Nebrodi
Le installazioni e gli spettacoli del festival Radica
TRE60 lab è un collettivo di giovani che dal 2015 si propone di valorizzare attività culturali nel territorio di San Marco d’Alunzio, facendo rete con gli altri Comuni della regione montana dei Nebrodi nella provincia di Messina. Oltre a ibridare linguaggi, favorendo dialoghi tra poesia, scultura, musica e teatro, TRE60 lab unisce spazi tra loro in apparenza lontani, ma sintesi della ricchezza geografica siciliana. Ispirandosi agli omini di Haring, i ragazzi di TRE60 hanno rimesso a nuovo un parco all’aperto per i bambini del paese; svolgono attività di approfondimento su temi quali il giornalismo libero o la diversità culturale. Queste azioni possono sembrare scontate ma la realtà di San Marco d’Alunzio è popolata da poco più di un migliaio di abitanti e, passeggiando per le vie medievali del borgo – l’antica colonia greca di “Alontio” – dove sorgono belvedere ed edifici costruiti con marmo autoctono, è evidente che la popolazione giovane sembra pressoché assente.
Radica è l’appuntamento festivaliero di TRE60 lab che giungerà alla sua terza edizione nel 2018. Finora luogo delle installazioni artistiche e degli spettacoli dal vivo è stato quello del complesso marmoreo di un ex monastero benedettino in Contrada Badia, nei locali della Basilica di San Salvatore di epoca romanica. Intervistando alcuni dei tanti giovani che intervengono alla manifestazione pochi sembrano coloro che vivono nel paese. La maggior parte di loro in effetti viene dai paesi dei dintorni o raggiunge San Marco solo per dormirci, lavorando durante il giorno nelle fabbriche della costiera tirrenica. Un pub, un centro scommesse e Radica nel periodo natalizio sembrano essere le sole iniziative stimolanti: “peccato che il festival lo organizzino soltanto una volta l’anno” si lamentano gli under30. Eppure il sindaco racconta di una fitta rete di iniziative che “da sempre” riescono a combattere lo spopolamento del luogo, compreso il contributo comunale che sostiene l’attività annuale di Radica. Tindara Miracola, tra i più attivi membri di TRE60 lab insieme con Gabriele Dodeci, sostiene che l’unica soluzione all’oblio sia quella di lottare per rimanere “radicandosi” alle proprie origini, da questa consapevolezza nasce la volontà di fare conoscere i luoghi di San Marco coinvolgendo artisti da ogni dove, così che possano rendere testimonianza di ciò che hanno sperimentato, ma lasciando traccia di sé donando le loro opere al comune. Nella appena trascorsa edizione per esempio Leonardo Cumbo – tra i maggiori scultori contemporanei – ha realizzato una “panchina artistica” nelle suggestive cave di marmo degli alutini il cui titolo è l’accostamento ardito Ghiaccio rovente. Pare insomma che qualcosa stia avvenendo grazie all’ostinazione e all’impegno di TRE60 lab; tra gli altri organizzatori della rassegna ricordiamo Alessandro Arena e Sara Zingales.
Non è pertanto un caso se il 22 febbraio TRE60 presentava Lampemusa – racconti e canzoni sull’isola di Lampedusa di e con Giacomo Sferlazzo. Quest’ultimo si definisce: “attivista politico di Lampedusa, cantautore e (ri)assemblatore di materia, colori, oggetti, fotogrammi e spazzatura.” Dal 2009 con l’associazione culturale Askevusa si occupa di “Lampedusa in festival”, appuntamento estivo, continuando a testimoniare l’impegno civile nello spazio PortoM, dove vengono raccolti in una mostra permanente oggetti dispersi dei migranti che transitano nella più grande isola delle Pelagie. Questo “racconto di una storia alternativa, che rifiuta di seguire le spiegazioni consuete” viene ospitato nel cuore di Radica: segno di una continuità che pare riesca a dare ascolto alle esigenze del territorio e del suo pubblico.
Anche la scorsa edizione di Radica è avvenuta a ridosso del Natale sfidando le rigide temperature nebroidee e ospitando installazioni provenienti dalla Biennale Internazionale di sculture di salgemma. Quest’ultima è organizzata dal MACSS, Museo Arte Contemporanea SottoSale e raccoglie rappresentative opere di svariati artisti. L’Associazione SottoSale che si occupa della Biennale ha sede a Petralia Soprana, in provincia di Palermo, da tempo collabora con TRE60 lab, grazie al contributo dell’artista Enzo Rinaldi, fotografo e artista madonita noto al grande pubblico dell’arte, ma non solo, per le sue installazioni realizzate dall’unione di chiodi e resina. Rinaldi sottolinea come il sale sia una metafora, è stato merce di scambio ed è oggi una possibilità di bellezza. Il sale è anche stratificazione climatica e sculture di pura luce come ci ricorda il bianco della Ophelia di Giuseppe Rizzo, compositore e artista visivo che ha realizzato una installazione video tridimensionale che deriva da una riflessione dal Phoebas di Thomas Sterne Eliot. Aidan Satin Conte propone desolate terne o meglio trittici formati da teste di vuoti cognitivi. Marmo rosso e bianco per una panchina inorganica accolgono invece organismi umani nelle strade del paese.
LCDF Le Cose Di Fuori è un’opera teatrale scritta e diretta da Sergio Beercock, artista angloitaliano che si esibisce anche in un concerto, presentando un lavoro che raccoglie varie ballate in un live acustico da prezioso cantastorie. Una crepa di luce incastra il protagonista di LCDF, Rocco Rizzo, mentre recita “brillo solo io”. La luce sembra tagliare il suo volto che da aggraziato diviene acuminato. Nel testo sono tanti i rimandi a maestri come Franco Scaldati o Magritte per le arti figurative e ancora la cultura pop con Dragon Ball e Hulk. Lo spettacolo frontale appassiona soprattutto i più piccini, grazie alla giocosa performance da fool di Rizzo, ma necessita di una più esatta indagine drammaturgica e scenografica. A coprodurre e ospitare prove e debutto di questa pièce sono stati due luoghi estremi e lontani – ma solo geograficamente – ovvero il Teatro Mediterraneo Occupato di Palermo e la Cavallerizza Reale di Torino.
Il tema della “luce” involontariamente scandisce le esibizioni: il video mapping di Pixel Shapes genera ombre tra teli trasparenti invisibili. Cioffi su versi narra colore che suona ossimorico e ardito vivificato dalle “anime” degli animali morti a cui è dedicato il suo lavoro. Dall’istante e dal qui e ora ripetuto nell’azione dal vivo e dall’ascolto con il pubblico sembra eterna la sua figura anche quando non è più al centro della scena-altare. La Dragonara – installazione video – nelle tematiche anticipa di secoli Marina Abramovic e in effetti anche l’artista del Montenegro avrà avuto dei rimandi di tale genere: spada, ulivo e l’intrecciare rami facendo delle giaculatorie che nel fitto mondo esoterico del popolare femminile hanno origine.
Kaya Starseed e Gio Pagani tra un nocciolo d’avocado e qualche ramo che trema dietro a un velo bianco divengono loro stesse un solo occhio pericolante e libero di fluire à la Tim Burton, la loro installazione inquieta per il sottofondo mozartiano, incorniciata da una sorta di allucinazione sonora e Lacrimosa. Le due artiste eleggono a nuova vita fotografie: istanti di luce su parete di stoffa e legna. Cataste di ombre, in questo caso però assimilabili a flussi di narrazioni infinite, illuminano sculture di metamorfosi attuate in lampade ora gufo ora pesce notturno e umido come ventre o uovo disegnato su tela: ancora una volta omaggio femmineo.
Ciò che rimane e si ripete nel ricordo della scorsa edizione di Radica – di cui tra poche settimane sarà disponibile la pubblicazione del catalogo – è l’apporto tattile nella commistione di bianco-inchiostro-sperma. Certamente questa trinità priva di un definito genere è visibile nella performance del già citato Cioffi, che mescola poesia e pittura. Puntini di verde su parole solenni inflitte dalle voci femminili registrate e talvolta sembrerebbe in strani loop cronologici. Nel lavoro ricorrono parole come lame: “follia”, “sradicare”, “morte”, “sangue”, “violenta”, “mutismo”. Assonanza decisiva è quella di “vite vittime” dove a raddoppiarsi con la “t” è la visione della molteplice mattanza. Tutto piange e spaventa ma le grida restano “imbavagliate”. L’artista con gesti di antica sapienza orientale affonda il corpo nel barattolo di colore e sembra scomparire dentro la tela che diventa carne ferita “scarnificata”. Graffia con la palettina la scena-fondale riverso sul pavimento, in un requiem toccante e vivissimo dedicato agli animali vittime di mattanza da parte degli uomini.
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