#artepartecipativa | Più che un cappello un ennesimo interrogativo
L'intervento all'incontro "Spunti e riflessioni intorno all'arte partecipativa" (22 novembre 2017, Casa dei Diritti, Milano)
Come educatrice alla teatralità, impegnata negli ambiti di cura e riabilitazione psichiatrica, mi interrogo su come trasmettere l’esperienza dello stupore, della curiosità e della catarsi che avviene sul palcoscenico: se il teatro è fatto per essere visto come posso mostrare e contemporaneamente proteggere lo spazio del gruppo di lavoro teatrale che si svolge in un ambito di cure dove il setting della relazione terapeutica è per sua definizione intimo e privato? E poi mi interrogo in quale modo comunicare la specificità dell’iniziativa di uno spettacolo come esito del laboratorio senza comunicarne l’etichetta.
E ancora mi chiedo che cosa succede al territorio dopo uno spettacolo di questo genere? E una volta che ho finito di interrogarmi, arrivano ancora più dubbi. Quindi analizzo alla radice le intenzioni del senso pratico e istintivo che mi ha portato fin qui.
Quello che intendo per laboratorio teatrale all’interno dei Dipartimenti di Salute Mentale, nasce dall’osservazione di ciò che permette all’attore, per regola, di lavorare al presente, in assenza di giudizio, affrontando un sentimento di solitudine e nel contempo di relazione con l’altro, reggendo il confronto con uno sguardo del pubblico: mi chiedo cioè, visto che l’ho praticato su di me, quanto codesta attitudine, che il gioco teatrale permette in termini di ascolto, di presa sulla realtà, di comprensione dei limiti e dei confini, del rispetto delle distanze, possa essere compresa attraverso il gioco teatrale da persone affette da diagnosi psichiatrica. Dico “persone affette da diagnosi” poiché il confine fra salute e malattia a volte sta nella somma di esperienze, compresa quella di essere entrato in un circuito di diagnosi e cura. Molti attori ad esempio scoprono di essere affetti da sindrome bi-polare, eppure grazie al loro mestiere di attori riescono a circoscriverne il disagio, magari inconsapevolmente curati dal loro stesso mestiere… Gli effetti di cura ci sono tutti, visibilissimi, ma spesso impraticabili dal punto di vista dell’astrazione di dati scientifici ( laddove ad esempio si perdono nelle evidenze della somma data dalla terapia farmacologica, psicoterapeutica, una relazione affettiva importante, una ripresa a livello di risocializzazione).
E a questo punto come faccio a definire l’arte come “terapia”? Risucchiare le parole nel significato clinico vuol dire operare l’asimmetria paziente/terapeuta che implica di per sé la negazione dell’Arte che non fa distinzioni del genere, proprio perché è Arte: penso quindi che se per arte terapia s’intende circoscrivere il luogo in cui si opera (il contesto terapeutico) il mio laboratorio è teatro terapia, ma poiché credo che la terapia per me diventi sostanza nell’agire all’interno della relazione, ho sempre il dubbio di comprendere la ragione per cui quel dato approccio così connotato sarebbe terapeutico e un altro – semplicemente teatro – no, se non nella scelta degli esercizi proposti, dell’approfondimento di alcune attitudini.
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