#artepartecipativa | Libere (e poco sistematiche) riflessioni in quattro punti e tre problemi sui rapporti fra teatro, performance e arti partecipative
L'intervento all'incontro "Spunti e riflessioni intorno all'arte partecipativa" (22 novembre 2017, Casa dei Diritti, Milano)
Primo punto: la rivoluzione
Una delle caratteristiche che ha da sempre accompagnato il profilarsi di una necessità partecipativa delle arti (e soprattutto del teatro) è quella di coincidere con periodi ‘rivoluzionari’ di mutamento degli assetti politico economici e culturali della società.
A voler giocare (ma non troppo) con le date, mi pare infatti emblematico che l’attuale diffusione di forme artistiche partecipative come il teatro sociale o l’arte pubblica si stia sviluppando proprio nel contesto di una profonda crisi del sistema neoliberista di mercato, come antidoto a quell’ipertrofia consumistica del piacere e del godimento individualistico che Lipovetsky ha giustamente definito ‘capitalismo estetico’. Una crisi che ha trovato la sua manifestazione economica proprio nel biennio 2007-2008 (con il fallimento della Lehman Brothers), a quarant’anni dall’altro biennio chiave della rivoluzione culturale delle arti partecipative (il 1967-1968) e a novant’anni dalla prima grande svolta in tal senso, coincidente con la rivoluzione d’ottobre del 1917.
Tutti contesti in cui le arti e il teatro hanno ritrovato la vocazione politico sociale del loro agire, recuperando (e cito Cruciani)
come dato sostanziale e non accessorio, strutturale e non episodico – l’utopia, sottesa alla riflessione sul fare teatro […]: il teatro del futuro, è stato detto, non si pone come il futuro del teatro, postula invece una società del futuro.
Nella prospettiva rivoluzionaria, il sistema delle arti si esplicita dunque come forma praticabile dell’utopia, fondata su un processo collettivo e co-autoriale di ricostituzione della società, ossia di rielaborazione / trasformazione del mondo, secondo un principio che colloca la sintesi fra arte e utopia fuori dalla cornice dello spettacolo, nella dimensione della vita comunitaria e nel contesto della festa, luogo privilegiato per il manifestarsi della creatività sociale.
Secondo punto: la rappresentazione
La lettura ‘rivoluzionaria’ non è tuttavia sufficiente per comprendere a pieno lo sbilanciamento delle arti sulla dimensione partecipativa. A rendere propulsiva ed efficace la spinta rivoluzionaria concorre infatti un’altra fondamentale trasformazione epocale del sistema culturale, che il filosofo Jacques Rancière fa coincidere nel passaggio dal regime della rappresentazione al regime estetico, i cui prodromi cominciano a manifestarsi nella seconda metà del Settecento, per dispiegarsi poi in maniera eclatante fra Otto e Novecento.
Rispetto al regime rappresentativo, legato alla rielaborazione rinascimentale della mimesi aristotelica e all’istituzione dei canoni artistici (separazione delle arti, classificazione dei generi e delle poetiche, codificazione delle tecniche), il regime estetico segna infatti la sovversione di ogni gerarchia, stabilendo l’impossibilità moderna di un sistema definito delle arti.
Tutto questo perché cambia totalmente quello che Rancière definisce il partage du sensible, vale a dire il modo di rapportarsi dell’arte con le forme della vita sensibile e con il mutare storico dei processi culturali, sociali e politici che qualificano un’esperienza come esperienza artistica.
Venuta meno la distanza estetica della rappresentazione, la vita irrompe dunque nell’arte senza soluzione di continuità, perché non esistono più norme e canoni che permettano di dire “questa è arte, questa non è arte” e di conseguenza “questo è un artista, questo non è un artista”. Da selettiva, l’arte diventa inclusiva: “tutto può trovarvi spazio, ogni soggetto, ogni oggetto, ogni registro stilistico ed espressivo”.
Una svolta che per Rancière innesca una situazione tanto produttiva, quanto contraddittoria: da una parte infatti l’arte sconfina totalmente nella vita, diventa patrimonio creativo della società e ne assorbe e rielabora tutti i bisogni e le aspettative, in una prospettiva che potremo definire democratica; dall’altra, per definirsi come tale, l’arte si dota di un’autonomia che non essendo più regimentata da regole e canoni, si dà in se stessa, come sospensione / apprensione / godimento del sensibile in quanto tale, senza alcun fine, volontà o destinazione eterodiretta.
Una contraddizione che Rancière, citando Schiller, sintetizza nel concetto di ‘libera appartenenza’.
Terzo punto: la performance
Sulla base di quanto abbiamo detto, la rivoluzione novecentesca delle forme estetiche non è tanto una trasformazione interna al sistema delle arti, quanto piuttosto un modo diverso di relazionarsi con l’arte, che supera l’ambito della produzione per coinvolgere quello della fruizione, innescando di conseguenza il meccanismo partecipativo.
Per dirla in termini teatrali, non è quindi solo la rivoluzione dell’attore e della scrittura scenica, ma anche (e soprattutto) la rivoluzione dello spettatore, fondata essenzialmente sulla rottura e sul superamento della separazione oppositiva ‘guardare / agire’, ‘essere passivi / essere attivi’, in nome di un’attorialità diffusa e volutamente ambigua che perde le sue connotazioni distintive (separative) e pone tutti in una condizione di potenziale uguaglianza produttiva.
In questa prospettiva, il modello che meglio incarna tali cambiamenti è senz’altro quello della performance, espressione emblematica di un nuovo modo di relazionarsi con l’arte. Lungo quella linea creativa che Schechner ha definito come un continuum fra arte e vita, il modello della performance si presenta infatti come un sostanziale ripensamento dell’approccio dello sguardo alla realtà: non più legato alla fruizione / comprensione di un’immagine o di un prodotto specifico (la rappresentazione / spettacolo), ma caratterizzato dall’elaborazione condivisa di un processo in cui sono chiamati in causa direttamente autore e fruitore (attore e spettatore), entrambi soggetti co-agenti di un atto che si codifica, in termini di forma e di contenuto, nel suo stesso farsi.
La performance dunque come processo co-creativo di ridefinizione del mondo, sostanziato da relazioni autoriali paritarie fra attore e spettatore (produttore e fruitore) e dall’interazione con l’ambiente, secondo un principio di interscambio tanto più efficace e intenso quanto più ambiguo e permeabile (nel senso di aperto, indefinito e a-specifico) appare il confine fra arte e vita.
Sotto il segno della performance, del grado zero dell’azione culturale e della piena reversibilità fra attore e spettatore, il sistema complessivo delle arti, se da una parte (come si diceva prima) non basta più a se stesso e perde la sua autonomia estetico rappresentativa, dall’altra la ritrova come parte di un più ampio sistema integrato (e interdisciplinare) di azioni partecipate i cui confini non sono più definibili dentro un modello rigorosamente oppositivo e separato (arte / vita, prodotto processo, attore / spettatore) ma dentro un modello aperto e paritario che pone l’arte al servizio delle relazioni, dell’attuarsi autentico e necessario dell’esistenza, in termini non solo estetici ma anche politici e sociali.
Quarto punto: l’amatorialità
Nel quadro performativo di un’estetica inclusiva che riconduce l’arte alla sua vocazione sociale e partecipativa, alla sua potenzialità ludica, trasformativa e relazionale, salta anche la distinzione tradizionale fra professionismo (saper fare) e amatorialità (non saper fare). Se infatti lo scopo dell’azione artistica è quello di creare le condizioni che favoriscano l’attivazione di processi partecipati in cui tutti possono essere protagonisti, senza distinzione, allora anche il concetto di amatorialità assume un nuovo significato.
La sua connotazione non è più quella negativa di un dilettantismo (non saper fare) che si oppone o tenta di imitare goffamente il professionismo (saper fare), ma quella positiva di un’attitudine creativa non selettiva, libera da condizionamenti e aperta al cambiamento, che rifiuta il dogma della specializzazione e della parcellizzazione dei saperi.
L’amatore dunque come garante di una professionalità non specializzata, una professionalità fondata sull’ascolto, capace di prendersi cura dell’ambiente in cui vive e delle persone con cui si relaziona, traducendo l’ascolto in processi performativi di consapevolezza collettiva.
Tre problemi
Le riflessioni fin qui svolte producono però alcune contraddizioni che è necessario sottolineare, per comprendere bene la complessità del presente.
Primo problema: la finta partecipazione
Come ha sottolineato Rancière nel suo ormai celebre e controverso Lo spettatore emancipato, la critica al modello tradizionale della rappresentazione (quello della separazione oppositiva ‘guardare / agire’, ‘essere passivi / essere attivi’) funziona solo disinnesca completamente il dispositivo di produzione / ricezione che lo alimenta. Altrimenti, invece che contrastarlo, lo rafforza, dal momento che, proponendo di rendere attivi coloro che sono passivi, di ‘emanciparli’, non fa che ribadire la loro disuguaglianza e la loro sostanziale subordinazione.
E’ il caso di tutte quelle molteplici forme di arte partecipata che, coinvolgendo lo spettatore nel meccanismo dello spettacolo, si illudono di renderlo attivo, di sovvertire il sistema della ricezione, ma di fatto non ne mutano il segno. Diventando forzatamente ‘attore’, lo spettatore agisce infatti sempre dentro il meccanismo spettacolare, il quale, da parte sua, invece di indebolirsi, si rafforza, perché deve moltiplicare la sua potenzialità rappresentativa per adeguarsi alle nuove modalità spettatoriali.
Per dirla con Ranciere, a proposito del teatro:
Capita che, per rendere attivi gli spettatori, i registi devono dispiegare una gran profusione di mezzi, di edifici spettacolari, di proiezioni cinematografiche, di interventi sulla scena da parte di quella stessa vita che si supponeva esterna, e così via. E capita che tutti questi mezzi per rendere attivo lo spettatore sono in effetti degli strumenti per aumentare la potenza della macchina teatrale e per rinforzare ancora di più lo spettatore nella sua posizione: quella di colui che sta a bocca aperta davanti a ciò che gli accade.
Secondo problema: il mito del benessere e del cambiamento
Uno dei rischi più insidiosi e diffusi delle pratiche di arte partecipativa è quello di confondere l’orizzonte della trasformazione sociale (che è sempre conflittuale, doloroso e contraddittorio) con quello del benessere (individuale e collettivo). In questo caso infatti l’istanza partecipativa tende pericolosamente ad assecondare la deriva contemporanea della spettacolarizzazione della vita. A fare cioè dell’agire e dell’essere sempre protagonisti il mito compulsivo di un’estetizzazione dell’esistenza, di una sua continua rimodulazione creativa fondata sul culto del benessere psicofisico e sul paradigma emozionale del desiderio.
Un orizzonte autoreferenziale e narcisistico che alimenta una proliferazione dell’offerta in senso apparentemente innovativo, dinamico e partecipativo, ma in realtà governata da strategie indotte di moltiplicazione dei bisogni estetico-emozionali, con la conseguente diversificazione dei prodotti effimeri (il mito degli eventi) e la parcellizzazione del pubblico in nicchie chiuse e isolate di appagamento (ad ogni desiderio estetico, un suo specifico prodotto partecipativo), dominate dal piacere illusorio dell’esclusività e della percezione unica e totalizzante dell’esperienza vissuta.
Terzo problema: il processo senza prodotto
Il terzo problema riguarda tutte quelle esperienze che, enfatizzando la processualità, e soprattutto sottolineandone il suo valore in senso antagonista (come negazione del prodotto), alimentano in realtà quella tendenza all’incompiutezza e alla perpetua rimodulazione che costituisce uno degli effetti più negativi della condizione iper-moderna della società neoliberista mediatizzata.
L’estremizzazione della vocazione partecipativa e della struttura aperta delle esperienze, soggette a sempre nuove riformulazioni, in base agli stimoli dell’ambiente e alle risposte degli interlocutori coinvolti nell’azione, finisce infatti per andare a discapito di esiti produttivi definiti e formalizzati (chiamiamoli pure artistici nel senso tradizionale) che invece sono essenziali per alimentare quella logica trasformativa che dovrebbe essere l’obiettivo delle stesse arti partecipative.
Come hanno infatti dimostrato Boltanski e Chiapello, il trionfo contemporaneo della processualità spesso non corrisponde a una modalità operativa di reale modificazione della realtà, ma alla radicalizzazione di un modus operandi dominato dalla fluidità e dalla mobilità, dal principio autoreferenziale della modularità, per cui tutto risulta perennemente in fieri, ricomponibile e irriducibile ad ogni ipotesi di limite.
In questa prospettiva l’obiettivo del processo non consiste nel raggiungere risultati definiti, dando quindi forma compiuta all’azione, ma nel creare le premesse per la realizzazione di altri processi, secondo un meccanismo di autoreplicazione interna alimentato dalla dimensione ‘connessionista’ della nostra società mediatizzata, che finisce dunque per allontanare sempre di più l’istanza processuale dall’azione concreta, smaterializzandola nella frantumazione delle sue perpetue rimodulazioni di rete.
Un’operatività senza più opere, vuota e fine a sé stessa, sempre più disponibile al cambiamento ma sempre meno motivata a produrre cambiamenti, dal momento che l’obiettivo non è tentare di dare risposte ma creare le condizioni per il nascere di nuovi processi.
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