Dimensioni del diafano, ovvero il negativo della tragedia
Su Democracy in America di Romeo Castellucci
Sappiamo quanto importanti siano i titoli per Romeo Castellucci. Di per sé, la semplice scelta corrisponde allo schiudersi di un mondo; un mondo dentro un altro mondo, lo dichiara esplicitamente in un’intervista (cfr. A. Sacchi, L’estetica è tutto, “Biblioteca Teatrale”, 91-92, 2009), vale la pena di citarlo: “scegliere una parola […] ti getta immediatamente in un torrente di immagini, e delle sensazioni che appartengono a una comune memoria genetica”. Castellucci comincia a lavorare su di un titolo perché non ne sa “nulla di più di ciò che tutti conoscono di quella parola”, e perciò, come fosse una soglia a cui si affaccia, ne “coglie gli aspetti più ombrosi”.
Comprendiamo allora che il titolo si fa scegliere, ha un potere che attrae: le parole che lo compongono, come se avessero un che di numinoso, si impongono su altre, catturano il desiderio di chi si confronta con esse. E questa forza genera attrazione in virtù dell’oscurità che la muove, come nella spinta dall’inconscio al conscio, quando motore dell’azione è l’energia che un’immagine scatena prima di arrivare delinearsi nettamente alla coscienza e per questo perdere di potere.
Questo vale per tutti gli spettacoli diretti dal regista cesenate, e vale in particolar modo per il suo più recente lavoro: Democracy in America visto a Prato lo scorso fine aprile dove ha debuttato in prima nazionale, passato poi a Bologna, a Trento e ora di nuovo in tournée europea. Sappiamo dalle dichiarazioni del regista e leggiamo nel foglio di sala che il titolo rimanda direttamente all’opera di Alexis de Toqueville De la démocratie en Amérique (1835) a cui lo spettacolo è liberamente ispirato, ma già di per sé il titolo è assolutamente potente, e lo è anche contro le intenzioni del regista. Accade cioè quello che lo stesso Castellucci ha paventato: si cade nel titolo come “in un buco per la strada”, perché Democrazia in America non può non risuonare sinistro e beffardo nell’immaginario attuale, e stimolare inevitabilmente aspettative molto alte nel pubblico. Ma è proprio il contrasto tra queste aspettative e quanto si vede in scena ad alimentare la risonanza dell’opera nell’immaginario dello spettatore.
Mai come in questo frangente storico, la parola democrazia svela tutta la sua problematicità. Simbolo di un valore civile indiscutibile, fondativo della cultura occidentale, ci mostra oggi il suo aspetto contraddittorio. Se in secoli di storia si è lottato per la democrazia contro il suo principale nemico, la tirannia, che afferma univocamente il potere assoluto dell’uno sui molti, oggi quei molti, il cui valore consisteva nel riconoscimento reciproco della differenza nel dialogo e nel confronto, si sono uniformati in una identità omologante, hanno perso la qualità plurale e costituiscono l’opposto complementare del tiranno, un’unica massa monocefala. La violenza dell’indifferenziato dei molti equivale alla violenza dell’Uno indifferenziato. L’ascesa al potere di Trump in America, come nel Vecchio Mondo l’esito della Brexit, ci parlano inequivocabilmente della possibilità di questa violenza, della tirannia della massa, e quindi della democrazia negata. E Toqueville, sembra farci notare Castellucci, può essere uno strumento di comprensione del fallimento della democrazia in America. Nell’indicarci il fondamento puritano – il fondamento democratico dell’egualitarismo biblico – alle origini del suo radicamento nel Nuovo Mondo, svela in realtà al tempo stesso l’impossibilità di quel radicamento, o per lo meno del radicamento dell’originario modello greco. Utopia a cui i padri fondatori degli Stati Uniti d’America hanno seriamente creduto ispirandosi consapevolmente ai principi della democrazia ateniese.
Quanto emerge è proprio l’impossibilità di fondare la democrazia sul presupposto dalla cultura puritana, una cultura monoteista che, come tutti i monoteismi, sa essere tirannica. È infatti un tiranno il Dio contro cui si scaglia la rabbia del personaggio femminile che impersona in scena una contadina vessata dagli stenti per un misero raccolto. In uno dei momenti più nitidamente definiti dello spettacolo, dove in scena compaiono una coppia di contadini in dialogo, se per il marito la fede cieca in Dio è indiscutibile, dalla moglie si leva una maledizione carica d’odio. E con la maledizione l’atto sacrilego della vendita della figlia, fatto a immagine e somiglianza, verrebbe da pensare, del Dio imperscrutabile e violento che ha preteso da Abramo il sacrificio del figlio Isacco.
Ma se la nascita della democrazia in America deve fare i conti con l’impossibilità di istituire il modello greco, ossia la sola democrazia esistita nell’arco di tempo di un secolo, il V secolo a. C., in perfetta consonanza con l’inizio e la fine della tragedia greca, sua eminente forma espressiva, mettere in scena l’impossibilità della democrazia in America significa confrontarsi per Castellucci, ancora una volta, con la domanda sull’impossibilità della tragedia, sulla sua negazione. E quindi con la questione della possibilità della rappresentazione, nella tensione dialettica tra rappresentazione e visione. La rappresentazione per Castellucci è una procedura di rivelazione ottica in cui la non diretta visibilità, la sfocatura, gioca un ruolo chiave, come per la verità che rimane sempre nascosta, perciò il diafano, quel “milieu attraverso cui avviene l’affioramento alla visibilità” (cfr. A. Vasiliu, Du Diaphane, Paris 1997), può essere il prisma con cui leggere la sua opera. Non è una questione di oscurità enigmatica, è l’entità del diafano, che mostra attraverso la messa a distanza e al tempo stesso attraverso la connessione, l’assimilazione tra chi vede e l’oggetto della visione. In questa relazione simbolica si dà la possibilità stessa del darsi dell’immagine e della visione in trasparenza.
Diafano più che un aggettivo qualificante l’estetica dello spettacolo, è un sostantivo atto a significare una dimensione della visione. Il velo, gli schermi trasparenti, sono infatti elementi ricorrenti nelle opere di Castellucci e lo sono in particolare per quest’opera che si sostanzia nella trasparenza per la maggior parte delle scene. Una “serie di immagini eterogenee” appaiono così dietro a velari schermanti in trasparenza, sono le composizioni agite da un corpo attoriale tutto al femminile, 18 attrici che, con la compattezza di un coro, danno vita a quadri, coreografie, tableaux. Corpi nudi imbrattati di sangue, il gesto reiterato di una figura femminile che frusta i capelli sanguinanti su di un’asta metallica, figure nere longilinee attorno a un aratro dorato, arti meccanici che calano dall’alto…e sembra di rivedere una somma di immagini provenienti da altre opere dell’artista. Un flusso di immagini riverberate nella creazione sonora di Scott Gibson in opache trasparenze, interrotte da squarci di scene in cui, nella chiarezza e luminosità cristallina, il testo, composto assieme alla sorella Claudia, fa da protagonista in modo per certi versi inedito per la poetica del regista.
È di Aristotele l’accezione sostantivale di diafano, lì dove, occupandosi delle facoltà dell’anima, tratta anche della visione (cfr. Aristotele, De anima). Diafano è quanto si interpone tra l’occhio di chi guarda e l’oggetto osservato. È un intermediario la cui trasparenza e opacità dipende dall’affiorare alla luce, dal passaggio progressivo dal buio alla luce, al visibile mantenendo sempre un margine di nascondimento, un rapporto con l’oscurità.
Diafano allora, verrebbe da dire, è “la quinta parete” (cfr. N. Delhalle, Le Théâtre et ses publics. La création partagée, Besançon, 2013) che Castellucci ha individuato come quinta dimensione da aggiungere alle quattro che costituiscono il teatro; per cui oltre all’altezza, la profondità, la larghezza, che disegnano linee, superfici volumi, oltre al tempo ce n’è una quinta che si colloca tra la scena e la coscienza dello spettatore, una sorta di ponte di connessione che riconosce la forza creativa dello spettatore. Diafano quindi coinvolgendo l’atto creativo del vedere è la metafora del visibile, e del conoscibile lì dove, nella rappresentazione della prima forma teatrale, la tragedia, la coscienza si sostanzia nell’atto della visione.
Se con Orestea (una commedia organica?) assistiamo al rovescio della tragedia, nel senso della sua regressione, con Democracy in America c’è il rovescio nel senso di negativo della tragedia, ossia il suo inverso, suggellato per altro dalla presenza, nell’ultima scena, del rilievo di un frammento di una metopa del Partenone rovesciata, vista al contrario, dall’incavo. È l’immagine che simbolicamente e letteralmente fa da sfondo all’altra scena dialogata dello spettacolo, che coinvolge due indiani Chippewa. La negazione identitaria subita dagli indiani d’America attraverso l’imposizione della koinè della lingua inglese, la lingua del potere, e resa dal dialogo tra i due sull’apprendere o meno la parola dei conquistatori, è la negazione del principio eminentemente democratico, fondato sul dialogo tra le diversità, e sotto l’egida del quale si sono toccate vette artistiche supreme, non solo la tragedia, ma anche la costruzione del Partenone. La violenza di questa negazione è tutta condensata nell’immagine dei corpi scuoiati da cui i due indiani fuoriescono come fosse una seconda pelle, e lasciano in scena prima di abbandonare il palco. È la loro identità negata dalla violenza dell’univocità tirannica della lingua del potere, la sola lingua possibile.
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