BP2017 | Napoli e i commons

L'INTERVENTO ALLE #BP2017 NUOVI SPAZI, NUOVE CREATIVITÀ, NUOVE PROFESSIONI, NUOVE CREATIVITÀ, MILANO, 4 MARZO 2017

Pubblicato il 18/04/2017 / di / ateatro n. #BP2017 , 160 , MilanoCORTEmporanea , Passioni e saperi

Fabio Pascapè lavora al Servizio Valorizzazione Sociale degli Spazi e Beni Comuni (in Area Patrimonio) del Comune di Napoli.

Per inquadrare opportunamente il tema dobbiamo fare un breve passo indietro. A luglio 2011 con la elezione della prima giunta De Magistris si chiude una lunga fase nella storia della nostra città. Tutti prendiamo atto che il modello di governance praticato sino a quel momento non aveva dato i risultati voluti lasciando la comunità civica in uno stato di profonda difficoltà. E’ necessario ripartire e sostanzialmente resettare. Si decide, tra l’altro, di scommettere sui Commons, sui Beni Comuni. Lo facciamo in modo molto deciso cominciando con la modifica dello Statuto che come tutti sappiamo in un Comune è la “Grundnorm”, la pietra angolare sulla quale si edifica e prende forma tutto il sistema giuridico locale. Negli anni individuiamo principi che ci consentono di disegnare questo “campo di battaglia” che è quello dei Commons, dei Beni Comuni e ci diamo tutta una serie di norme e regolamenti. In questo lungo percorso è ovvio che il tema grosso, centrale è proprio quello degli spazi e degli edifici pubblici. In una situazione di sostanziale carenza di risorse di tipo tradizionale, quindi di tipo finanziario ed economico, gli spazi e gli edifici pubblici vengono fuori come elemento focale e fattore strategico sia perchè disponibili in grande quantità (ma spesso non in buono stato di conservazione), sia perché la comunità comincia a realizzare una serie di interventi autonomi, spontanei, di liberazione, appropriazione, riprogrammazione, riprogettazione, rigenerazione. Cambia il modus operandi e il punto di attacco. Non si sostiene più lo spazio ma è lo spazio stesso che diventa il modo per sostenere. Uno spazio, come tutti sappiamo, ha dei costi alti di gestione. Anche solo ottenere la disponibilità di uno spazio senza doversene accollare i costi, in determinate situazioni può fare la differenza, può essere il punto di svolta che consente di realizzare. Naturalmente questo bisogna opportunamente incrociarlo con quelli che sono poi i modelli giuridici di riferimento. Occorre sempre ricordare che il tema dei Beni Comuni non è giuridicamente codificato e questo, per certi versi, è una fortuna. Per altri versi, però, è un tema che è necessario declinare per via interpretativa con tutto quello che comporta. C’è poi una burocrazia che fa grande fatica a elaborare risposte, modelli operativi, modelli organizzativi a fronte di una realtà oggettiva che va velocissima, che è creativa e che esprime alti valori di cittadinanza. Il modello di provenienza, divenuto un vero e proprio pantano, è il modello concessorio basato su una visione dualistica: chi concede, il concedente, e chi riceve in concessione, il concessionario. Ovviamente in tale visione bisogna chiedersi perché si concede ad uno e non ad un altro. Questo comporta la necessità di ricorrere ad una procedura ad evidenza pubblica per individuare il concessionario. Ma come si fa a fare questo quando degli spazi hanno già una loro vita? Quando già hanno espresso storia? Già hanno prodotto relazioni? Come si fa ad utilizzare quello spazio senza snaturarlo e conservando gli asset intangibili che già ha prodotto? Senza aprire un’evidenza pubblica alla quale potrebbe presentarsi chiunque aggiudicandosi lo spazio legittimamente ma di fatto tagliando la sua storia e dilapidando il capitale sociale che su quello spazio insiste? Questo è un grosso punto di domanda.
Nel frattempo però che cosa accade? Io dico sotto voce che forse il ruolo della Pubblica Amministrazione in questo delicato momento storico potrebbe anche essere lasciare che un po’ le cose accadano, leggendole, interpretandole e ponendosi in funzione strumentale al loro consolidamento. Ma cosa è accaduto? Che questi processi di rigenerazione, di riprogrammazione politica è proprio sul campo che cominciano a perdere l’individualità intesa in senso tradizionale e giuridico, cioè non sono più movimento, collettivo, comitato con una soggettività giuridica tradizionalmente intesa. Perdono questo connotato e diventano una fetta di cittadinanza che si muove e produce, che si autorganizza, si autogoverna, si autoamministra, si da norme. Lo spazio assume un valore del tutto diverso, diventa ambiente di sviluppo parafrasando il linguaggio informatico. Con ciò si delinea un nuovo ruolo per la Pubblica Amministrazione che finalmente può smettere di essere interlocutore e prova a diventare strumento di sviluppo di cittadinanza. Esercitando funzioni di ascolto attivo, di lettura, di interpretazione deve sforzarsi di trovare il modo di dare voce, corpo e organizzazione a quello che sta accadendo indipendentemente da lei.
Di fatto noi non abbiamo fatto altro che ascoltare, leggere, interpretare, constatare che di fatto era stato realizzato un modello di uso collettivo urbano, recuperando il modello dell’uso civico. Con una differenza, però, che l’uso civico è per i cives, cioè quelli che strettamente fanno parte della civitas, risiedono formalmente in essa. L’uso collettivo supera questa limitazione aprendosi alla collettività.
Abbiamo innescato un processo di trasformazione del procedimento amministrativo che ha portato alla formulazione dei provvedimenti (le delibere). Abbiamo dato una grande attenzione ad una cosa che noi giuristi chiamiamo la effettività di una norma e quindi la generale osservanza della stessa da parte dei destinatari. In altri termini non ci siamo limitati a verificare la mera vigenza o efficacia che sono qualità che attengono al regno delle potenzialità. Ci siamo preoccupati di creare le condizioni perché quel determinato provvedimento fosse sentito norma dalla collettività dei destinatari. Ebbene vi posso assicurare che se potessi calcolarlo direi che il tasso di effettività delle nostre ultime due delibere (n.893/2015 e n.446/2016) che hanno visto l’incremento degli usi civici collettivi in ben otto spazi urbani è molto alto. Ma è lecito chiedersi come si è arrivati a questo. Si è fatto sì che il provvedimento amministrativo non fosse frutto di un esercizio di autoritatività (inevitabilmente autoreferenziale) svolta all’interno del palazzo di governo ma fosse frutto di un processo intrinsecamente condiviso con la collettività di destinazione.
La sperimentazione è a tutto campo e continua…




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