#BP2016 | Una formazione non selettiva ma inclusiva

L'intervento alle #BP2016 | Teatro Sociale e di Comunità: la formazione degli operatori. Scuole e idee a confronto, 5 novembre 2016, Civica Scuola di Teatro "Paolo Grassi"

Pubblicato il 13/11/2016 / di / ateatro n. 160
Fabrizio Fiaschini, #BP2016 | Teatro Sociale e di Comunità: la formazione degli operatori. Scuole e idee a confronto, 5 novembre 2016, Civica Scuola di Teatro "Paolo Grassi"

Fabrizio Fiaschini, #BP2016 | Teatro Sociale e di Comunità: la formazione degli operatori. Scuole e idee a confronto, 5 novembre 2016, Civica Scuola di Teatro “Paolo Grassi”

Per inquadrare in modo corretto la questione della formazione nell’ambito delle pratiche di teatro sociale credo sia fondamentale una premessa: il teatro sociale non è un nuovo modello, una nuova metodologia teatrale, quanto, piuttosto, un nuovo modo di ripensare, radicalmente, il ruolo del teatro nel cuore della nostra contemporaneità, ritornando a valorizzare le potenzialità trasformative del suo linguaggio, in stretta relazione agli sviluppi dei processi sociali e culturali.
Questa precisazione, che di per sé concerne i valori fondativi del teatro sociale, a mio parere è cruciale anche rispetto alla formazione, perché mette apertamente in discussione uno dei principi che caratterizzano gli standard odierni della formazione professionale: il principio di selezione e di expertise, per cui, in termini qualitativi, un modello formativo tende ad essere considerato tanto più valido ed efficace quanto più si presenta come specialistico, sia nel metodo, sia nei suoi contesti applicativi, i quali, a loro volta, finiscono di conseguenza per essere delimitati in modo sempre più esclusivo e circoscritto.
Al di là degli aspetti positivi di un simile approccio, specie in alcuni ambiti scientifici di intervento, è tuttavia noto come una tale impostazione, qualora venga generalizzata (come sovente accade), produca un’ambiguità di fondo, connessa al moltiplicarsi esasperato e ingiustificato dei meccanismi di diversificazione delle competenze e degli ambiti di intervento che connota l’attuale mercato neoliberista del lavoro, soprattutto nella sfera ‘immateriale’ del benessere e della creatività (termini altrettanto ambigui e pericolosi).
Per stimolare, in questi settori, meccanismi di domanda / offerta (e quindi pratiche formative) sempre più evolutivi e dinamici, diventa infatti necessario differenziare il più possibile i bisogni, inventandone costantemente di nuovi, oppure, ancor peggio, suddividendo e sezionando quelli che già esistono in categorie apparentemente distinte e autonome, con nomi e caratteristiche proprie, in modo tale da gonfiare e drogare la domanda e creare così i presupposti per la proliferazione di altrettante presunte metodologie formative, da lanciare sul mercato come innovative e specialistiche (e pertanto esclusive) per ciascuno dei settori individuati.
Una modalità che, oltre a distorcere in molti casi la reale mappatura dei bisogni sociali esistenti, produce di fatto un loro smembramento e isolamento dal tessuto connettivo dei legami comunitari e soprattutto da quella reciprocità di implicazioni che permetteva di comprenderli in una visione integrata di cambiamento e quindi in una prospettiva sinergica (l’unica realmente sociale) di intervento.
In questo senso, la divisione forzata degli ambiti e delle metodologie formative, rischia di creare, pur in assenza di un reale bisogno di specializzazioni, nicchie sempre più pseudo-specialistiche di operatori che operano rigorosamente solo su singoli contesti, in modo del tutto autoreferenziale, perdendo così di vista sia la dimensione complessiva del disagio e dei veri bisogni, sia l’orizzonte del bene comune.
Un rischio che, in questi ultimi decenni, ha toccato da vicino anche le pratiche gravitanti intorno al fenomeno del teatro sociale. Senza addentrarsi in analisi dettagliate, che i tempi stretti di questa comunicazione non permettono di affrontare, si pensi solamente alla gemmazione incontrollata degli approcci e all’invenzione continua di nuove sedicenti metodologie nel campo delle discipline terapeutiche, con una netta propensione ad amplificare la componente analitica e introspettiva a scapito di quella psicosociale, fino alle derive spiritualeggianti dell’ormai consunta newage.
Oppure, venendo alle aree interessate dal teatro sociale, si pensi alla disseminazione settoriale e parcellizzata degli ambiti d’intervento (teatro scuola, teatro e handicap, teatro e psichiatria, teatro con gli anziani, teatro in azienda, teatro e intercultura…): segmenti disciplinari concepiti spesso come settori chiusi e irrelati, che dal punto di vista formativo si autoalimentano di metodologie il cui grado di specificità e innovazione risulta il più delle volte francamente poco credibile.
Con questo non si vuol dire, si badi bene, che in alcuni casi non sia importante differenziare i campi d’intervento, oppure che non esistano aree legittime di specializzazione teorico metodologica, ma, più semplicemente, che, nel definire la geografia del teatro sociale e dei suoi modelli formativi, è bene non cadere nella trappola (tanto seducente quanto infida) del mercato contemporaneo e delle sue logiche di separazione.
Il rischio, infatti, è quello di adeguarsi a tendenze che, invece di costruire figure professionali integrate capaci di mettere in sinergia un unico linguaggio (la performance) in una prospettiva autentica di cambiamento sociale, diano vita a una diversificazione metodologica finalizzata a generare una pletora infinita di profili (pseudo) specializzati in altrettanti (pseudo) specifici ambiti di intervento.
Figure professionali che, pur agendo, in linea teorica, per un medesimo obiettivo, finiranno in realtà per entrare inevitabilmente in competizione tra loro (cosa che peraltro già accade), con una ricaduta sociale che non favorirà l’unione, ma la separazione dei bisogni, alienandoli proprio da quella prospettiva comunitaria di cambiamento che dovrebbe unificarli.
In altre parole, e in estrema sintesi, gli obiettivi che il teatro sociale, a mio parere, dovrebbe porsi oggi a livello formativo, rispondono alle seguenti aspettative:

a. una formazione non selettiva ma inclusiva, che non si preoccupi di differenziare le metodologie e le tecniche (e tantomeno di inventarne di nuove, anche perché, alla prova dei fatti, le presunte novità si rivelano quasi sempre già ampiamente praticate), ma piuttosto di farle interagire in un unico sistema di linguaggi espressivi teso a promuovere il valore e l’efficacia del linguaggio teatrale in una prospettiva comunitaria complessa e integrata (quindi non disciplinare e circoscritta).

b. una formazione che non insegua forzatamente il mito neoliberista della specializzazione e dell’expertise, alimentando la suddivisione esasperata degli ambiti di intervento (e quindi delle figure professionali in uscita), ma al contrario fornisca le chiavi teorico metodologiche per superare i confini disciplinari e promuovere le intersezioni e le interazioni tra diversi contesti, in una logica di vera trasformazione sociale.

c. una formazione che, in questo senso, non abbia timore di uscire dai confini ristretti del teatro tradizionale, come pure da quelli della terapia, per aprirsi a ciò che Schechner ha chiamato “l’ampio spettro della performance”: non solo, quindi, la performance teatrale, ma soprattutto la performance sociale: un’azione espressiva fondata sul superamento del concetto artistico di opera come prodotto, come ‘artefatto’, come rappresentazione, in nome di una sua ridefinizione in termini di coinvolgimento e partecipazione collettiva, ben oltre gli approcci formalistici ed estetici fini a se stessi, nella direzione etica di una trasformazione sociale ampia e condivisa.

d. una formazione, inoltre, che non si limiti (come purtroppo spesso accade) allo sviluppo di processi introspettivi di benessere interiore, alimentando una creatività introflessa, condivisa nelle gabbie dorate di singole esperienze laboratoriali chiuse in se stesse, ma al contrario si traduca in azioni pubbliche (verrebbe da dire politiche) di arte partecipata e di inclusione sociale.

e. una formazione, infine, che metta in primo piano l’importanza di acquisire anche una prospettiva storica del sapere, facendo così capire, soprattutto alle nuove generazioni, che il teatro sociale non è qualcosa di nuovo da inventare ma qualcosa di antico da riscoprire: una memoria da riattivare, rendendola ancora capace di incidere sulla complessità della nostra vita quotidiana, in vista del bene comune.

Fabrizio Fiaschini
Università di Pavia




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