L’orrore spiegato dai bambini
Five Easy Pieces di Milo Rau
Five Easy Pieces è un lavoro che interroga sulla possibilità e sulla necessità del teatro oggi. In questi anni Milo Rau, regista svizzero di origini rumene, con il suo International Institute of Political Murder (fondato nel 2007), ha costruito una serie di dispositivi spettacolari dalla forte valenza politica. In presa diretta con la realtà, questi “documentari teatrali” portano in scena episodi drammatici e insieme emblematici della storia recente: la caduta del regime in Romania (Die Letzten Tage der Ceausescus, 2009-10), le radio che hanno ispirato i massacri del Ruanda (Hate Radio, 2011-12), la strage di Utoya rivissuta nella delirante autodifesa dell’assassino (Breivik’s Statement, 2012), i processi contro l’avanguardia artistica voluti dal regime di Putin (Die Moskauer Prozesse, 2013).
Ogni volta la “rivelazione del reale” (il titolo della retrospettiva alla Sophiensale di Berlino nel 2013-14) di questo “Realtheater” (la definizione è di Alexander Kluge) spiazza e colpisce con la forza della provocazione – che è in realtà lo scandalo del reale e del suo orrore. C’è prima un meticoloso lavoro di documentazione, perché solo l’esattezza può garantire la credibilità della ricostruzione: a ispirare lavori di questo genere dev’essere l’etica del filologo e dello storico. C’è poi ogni volta la definizione di un dispositivo che lavora su due piani: il primo è l’effetto di verità determinato dalla precisione dei dettagli e della vicenda; il secondo è il piano della rappresentazione, che viene brechtianamente esplicitato e sottolineato, e spesso produce effetti stranianti, anche ricorrendo all’intermedialità.
Questo approccio è stato adottato anche con Five Easy Pieces, presentato nelle scorse settimane con profonde emozioni e grande successo a Short Theatre (Roma), al Festival di Terni e a Contemporanea (al Teatro Mestastasio di Prato), dopo il debutto al Kunstenfestival di Bruxelles.
Questa volta l’obiettivo del lavoro è la feroce parabola di Marc Dutroux, l’elettricista belga che tra il 1986 e il 1996 (anno del suo arresto) ha torturato sei ragazze tra gli 8 e i 18 anni, uccidendone due. La sofferenza degli innocenti: Five Easy Pieces affronta il problema dell’esistenza del male, nella sua forma più lancinante. Siamo di fronte a un orribile fatto di cronaca nera, in apparenza lontano da tematiche esplicitamente politiche – anche se la gestione delle indagini da parte della polizia e della magistratura ha giustificato il sospetto di una rete più ramificata e dunque di protezioni di alto livello. Ancora ancora più lontana da una impostazione rigidamente ideologica è l’idea di far raccontare la storia di un pedofilo da sette bambini tra gli otto e i tredici anni: un serial killer pedofilo dal punto di vista dalle potenziali vittime.
Eppure Five Easy Pieces è uno spettacolo radicalmente politico, anche nelle tecniche di straniamento brechtiano che governano il dispositivo messo a punto dal regista svizzero. In scena interagiscono diversi livelli. Lo spettacolo inizia con una sorta di interrogatorio, con l’unico attore adulto (Peter Seynaeve), seduto nella penombra, ma con l’immagine video del suo volto che campeggia ingrandita sullo schermo.
Una serie di domande ai bambini offre l’occasione per le autopresentazioni: chiede i nomi e l’età, ma consente altre considerazioni a Elle Liza (“In Africa sono una bianca, in Belgio sono una nera” e poi canta Imagine), Pepijn (“Non piango mai, almeno in pubblico”), Willem, Polly, Maurice (“Quando sono nato ero quasi morto”), Winne (che ama danzare sulle note di Eric Satie), Rachel. Le domande allargano e approfondiscono l’orizzonte e sono il frutto del lavoro di preparazione dello spettacolo: “Immagina di essere una madre. Tuo figlio muore. Che cosa provi?”, chiede a Polly. Altre domande sono e saranno centrate sul teatro e sulla rappresentazione: per Winne il teatro “è come il teatro dei burattini, ma con esseri umani”, Rachel è convinta che “tutti meritino il loro posto sul palcoscenico”. Quando il casting director le chiede se farebbe qualsiasi cosa per il teatro, risponde di sì, “purché non sia illegale”.
Il gioco delle domande è anche un interrogatorio. All’inizio viene mostrata una foto: “Sì, lo riconosco, è Patrice Lumumba”, l’eroe dell’indipendenza del Congo (che era proprietà personale del re del Belgio), rapito, torturato e ucciso nel 1961.
Una seconda foto, alla fine del prologo: tutti i bambini lo riconoscono: “Ma quante ragazze ha ucciso?”, “Che cosa gli ha fatto?”… Solo a questo punto, dopo che i piccoli protagonisti – ma non il casting director – ci hanno raccontato chi sono, può iniziare lo spettacolo: “Che ruolo vuoi fare?”, “Chi vuol fare Dutroux?” Ma Dutroux è lui: è il casting director, il regista in scena, l’investigatore che conduce l’interrogatorio in scena e il mostro.
Prima di iniziare i “cinque pezzi facili” è però necessario un altro passaggio, che collega il fatto di cronaca alla Storia. La cerimonia della proclamazione dell’indipendenza del Belgio viene ricostruita in un video da un gruppo di attori adulti, ai quali poi subentrano con ruoli analoghi i bambini in scena (c’è anche quello che gioca a fare il Re del Belgio, che era il proprietario della gigantesca colonia africana). A fare da collante tra i due livelli – quello della Storia e quello della cronaca nera – è la rimozione collettiva e mediatica sugli orrori del colonialismo e sulle imprese di Dutroux, lasciato libero troppo a lungo, tanto da far sorgere il sospetto di complicità ad alti livelli.
In questa sequenza, come nei “cinque pezzi facili”, Milo Rau mette in atto un sistematico meccanismo di straniamento, attraverso la giustapposizione tra teatro e cinema (le immagini in bianco e nero proiettate sullo schermo che campeggia sopra gli attori), tra diretta e immagini preregistrate (i filmati con gli adulti che danno inizio alle ricostruzioni), tra adulti e bambini. Le scene interpretate dal vivo vengono doppiate e proseguite in video: la troupe dei bambini allestisce un piccolo set (lo spazio della finzione), cattura il suono con un grosso microfono, batte il ciak – ma la telecamera continua a essere nelle mani dell’unico adulto: l’intrusione del video evoca la metafora dello stupro.
Il primo dei “cinque pezzi facili”, Padre e figlio, ci porta nell’abitazione dell’anziano padre del serial killer. Le domande si fanno più difficili, le risposte impossibili: “Che cosa faresti se tuo figlio diventasse un assassino?”, “Avete mai ucciso?”. Poi siamo nel luogo in cui Dutrox aveva seppellito una delle sue vittime, nell’ufficio di un investigatore, e poi nella cella dove era rinchiusa una bambina (Saggio sulla sottomissione): è la tenerissima e agghiacciante lettera di una delle piccole prigioniere, il momento emotivamente più feroce, con il mostro-intervistatore-videomaker che chiede alla piccola protagonista di spogliarsi. E’ finzione, ma è ugualmente terribile e perturbante.
C’è in questo lavoro il rischio di un’intrusione morbosa, di spingere i bambini all’esibizionismo: ma sono le stesse intrusioni da cui sono già bombardati quotidianamente, con sollecitazioni emotive, senza la possibilità di conoscere i meccanismi che li generano, senza la possibilità di conoscere e discutere i fatti. C’è fiducia nell’intelligenza di questi attori bambini, nel fatto che siano persone e che dunque abbiano il diritto di capire e raccontare.
Poi entriamo nell’abitazione dei genitori di una ragazzina scomparsa (Soli di notte), con due bimbi a fare la parte dei grandi, e a fingere di piangere: le lacrime sono un trucco da set, recitare è un gioco, forse ci salva dall’angoscia. Il prefinale, il quinto “pezzo facile”, il mesto funerale di una delle bambine, ha un titolo pasoliniano, Cosa sono le nuvole? Le nuvole sono quelle che non potevano vedere le piccole vittime nelle loro celle, sono quelle che non potranno vedere i bambini che abitano i mondi sotterranei che Dutrox – dicono – disegna ossessivamente nella sua cella.
E’ un dispositivo complesso e stratificato, malgrado l’apparente semplicità dell’allestimento. I sette giovani interpreti sono in primo luogo sé stessi, con i loro ricordi, il loro sguardo, le loro emozioni, i loro pensieri sulla vita e sulla morte, sulla libertà e la violenza, sulla felicità. Alla domanda sulla cosa più raccapricciante, quasi tutti finiscono per rispondere che è “il bacio della mamma sulla mia bocca”. Ma sono anche attori: sono i protagonisti della vicenda Dutroux, che via via interpretano con sorprendente maestria. Così l’intero spettacolo diventa una riflessione sul rapporto tra realtà e finzione: qualcuno spiega che preferisce recitare al cinema, perché si possono far vedere meglio espressioni ed emozioni, qualcuno invece sentenzia che “recitare è come sognare”…
Affidare alle vittime (ovvero ai bambini) il ruolo degli adulti, di coloro che non li hanno saputi proteggere, è una scelta paradossale, di provocatoria efficacia retorica. Il cortocircuito tra la leggerezza innocente degli interpreti e l’orrore sadico, l’indifferenza, l’inadeguatezza degli adulti genera un vortice di emozioni e riflessioni. Per il pubblico teatrale degli adulti (a Prato la replica era inspiegabilmente vietata ai minori di 15 anni, e dunque ai coetanei degli attori) si tratta di vedersi in uno specchio rovesciato, dove la morbosità della cronaca nera, la fascinazione perversa dell’orrore, viene azzerata dal meccanismo di una rappresentazione che rifiuta il realismo (ovvero la retorica della reinvenzione e ricostruzione) e solo così può puntare alla rivelazione del reale.
Per i bambini che hanno partecipato al laboratorio, è stato un processo di conoscenza e di consapevolezza. Come affrontare argomenti e temi che nelle conversazioni familiari vengono rimossi o trattati con veli di cautela? I protagonisti di Five Easy Pieces hanno le loro opinioni, il loro punto di vista.
C’è dietro il processo di lavoro di Milo Rau la certezza che la forza dei documenti, evidenziata dal distacco di una ricostruzione anti-illusionistica, costruisca consapevolezza. E che la rappresentazione non compiaciuta dell’orrore possa condurre alla catarsi. Il processo – nel duplice senso del termine – comporta qualche rischio. Rau ne è consapevole, come dimostra la scelta di sovrapporre il ruolo del casting director e quello di Dutroux. Il percorso di conoscenza – gustare il frutto dell’albero del bene e del male – comporta la perdita dell’innocenza. Riproporre la terribile situazione di prigionia, con il racconto dello stupro in prima persona, dopo essere stata quasi obbligata a spogliarsi, è una violenza, anche se travestita da “gioco” (to play). C’è violenza nella reclusione delle vittime da parte del serial killer, c’è violenza anche nell’esibizione dei corpi e nel racconto della tortura.
Ma se non vogliamo rimuovere l’orrore, dobbiamo provare a distanziarlo e oggettivarlo (rappresentarlo) e a illuminarlo (il video è luce). Senza dimenticare che il teatro e il cinema sono manipolazione: svelare i loro meccanismi è l’unico antidoto ed è un atto politico.
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