Santarcangelo, una ricerca di tradizione

La Romagna performativa al Festival del Teatro in Piazza

Pubblicato il 01/08/2016 / di / ateatro n. 158

Ogni qualvolta si è al Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo viene spontaneo riflettere sull’alchimia che dagli anni Ottanta a oggi ha permesso che in Romagna siano nate alcune delle compagnie di teatro di ricerca più interessanti del panorama nazionale e internazionale contemporaneo. La Societas Raffaello Sanzio, i Motus, il Teatro delle Albe, il Teatro della Valdoca… e una riflessione va anche alla costellazione di gruppi più piccoli o emergenti che sono nati proprio sull’impulso di queste compagnie ‘madri’. Merito della terra romagnola, del carattere dei suoi abitanti? Quale contraddizione profonda, radicata nell’animo romagnolo ha alimentato una creatività tanto trasgressiva in un contesto così forte di tradizioni popolari locali?
Per individuare questo quid non si può ignorare la forza dello spirito anarcoide, anticlericale, comunista e profondamente radicato nella cultura contadina del popolo di Romagna, ma una risposta esauriente richiederebbe una ricerca più approfondita. Ma in occasione della quarantaseiesima edizione del Festival, questa domanda è tornata con l’urgenza di comprendere un fenomeno interessante a cui abbiamo assistito: la coniugazione di ricerca e tradizione popolare.

Nell’amplissima offerta del programma, almeno tre (ma a guardar bene se ne potrebbero trovare altre) sono le cose viste in cui riconoscere questo connubio: Lumen di Luigi De Angelis e Emanuele Wiltsch Barberio, Ritual #12 Dai di Markus Öhrn, L’invincibile. Ascesa all’Olimpo dei Zapruder Filmmakersgroup. Tutti e tre sono significativamente rubricati dalla direttrice uscente Silvia Bottiroli nel suo manifesto artistico come “esperienze rituali”, se non veri e propri riti.
L’evento di apertura del Festival allo Sferisterio, poi replicato nei giorni seguenti nella zona della campagna circostante della Cava, è stato Lumen. La luce evocata dal titolo è quella della immensa pira che viene fatta ardere a ritmo di musiche ‘sciamaniche’; un mix di registrazioni dall’archivio etnomusicologico di Luigi De Angelis – cofondatore con Chiara Lagani di Fanny & Alexander, altra compagnia di ricerca nata in terra di Romagna – in cui, tra gli altri, suoni di riti vudù sono assemblati con canti di guerra Sioux, ma anche tracce di dance floor contemporaneo, e sono introdotti dalla amplificazione live del suono del battito cardiaco di una performer. Fiamme calore suoni e ritmi creano una dimensione immersiva in cui farsi trasportare.

©diane-Ilaria Scarpa, Luca Telleschi, Lumen

©diane-Ilaria Scarpa, Luca Telleschi, Lumen

Ritual #12 Dai è lo sviluppo di un’esperienza cominciata a Santarcangelo la scorsa edizione del Festival, quando un gruppo di azdore romagnole è trasformato dall’humor nero del regista svedese Markus Öhrn in inquietanti fattucchiere che tatuano la pelle di chi si presta a passare sotto le loro grinfie. Ora diventa un mega concerto black metal: le ‘reggitrici della casa’, da una impalcatura a torre issata al centro del grande cortile di Villa Torlonia, sbraitano a squarciagola una raffica di aggressivi “Dai” amplificati a fior di decibel che, oltre ad assordare, provocano un vero e proprio sommovimento fisico.

©diane-Ilaria Scarpa, Luca Telleschi

©diane-Ilaria Scarpa, Luca Telleschi, Ritual #12 Dai

Dulcis in fundo, L’invincibile. Ascesa all’Olimpo è uno degli episodi del nuovo progetto di un altro gruppo radicalmente romagnolo, i Zapruder Filmmakersgroup composto da David Zamagni Nadia Ranocchi e Monaldo Moretti. Quanto proposto a Santarcangelo è stato ripreso dal gruppo per diventare parte del ciclo filmico L’invincibile; uno studio che affonda la sperimentazione visuale nel potere magmatico e metamorfico del mito, e in particolare prende le mosse dalla suggestione del mito di Ercole. L’ascesa all’Olimpo, più una fatica che un’impresa vincente, viene compiuta da squadre di persone che, incitate dalla una musica metal live degli ZEUS!, si sfidano nel tentativo di scalare una pertica alta sedici metri ricoperta di grasso. Nella sua concretezza e fattività, questa fatica, considerata isolatamente dalla proiezione immaginale del ciclo filmico, svela tutta la sua natura di festa popolare, un albero della cuccagna dove gli eroi dei paese fanno a gara per mettersi alla prova.

©diane-Ilaria Scarpa, Luca Telleschi

©diane-Ilaria Scarpa, Luca Telleschi, L’invincibile. Ascesa all’Olimpo

E se nel lavoro presentato da Öhrn il riferimento alla cultura romagnola è esplicito nel riuso della figura dell’azdora, vere signore romagnole strappate agli impegni domestici per provare l’ebrezza dell’arte performativa, in Lumen è possibile individuare un riferimento implicito alla tradizione locale. In Romagna lo stare di un gruppo di persone attorno al fuoco, tra balli e canti, consiste in quella che è chiamata la fogheraccia, la festa che cade la vigilia di San Giuseppe, nella notte del 18 marzo, immortalata da Federico Fellini nella scena iniziale di Amarcord.
Si tratta di tre casi in cui assistiamo quindi al riuso esplicito o implicito di un fenomeno della tradizione popolare e alla sua inevitabile risemantizzazione. La fogheraza che avvolge in un’atmosfera da trance con atmosfere tribali di culture altre; le azdore che esercitano il loro potere matriarcale e tellurico in atmosfere dark, e il gioco della cuccagna che eleva al mito classico. Tre casi in cui espressioni performative contemporanee si servono di temi antichi e tradizionali evidentemente – è stato già osservato come comune denominatore di quanto visto a Santarcangelo soprattutto nelle ultime edizioni – per un bisogno inguaribile di fare comunità. Le tradizioni come quelle evocate in questi lavori sono nate all’interno di comunità, e sono concepibili nella loro funzione efficace solo all’interno di esse. Il tentativo di appropriarsene denuncia proprio la necessità di recuperare usi che erano permessi solo nel contesto di un’appartenenza civica comune, e denuncia il desiderio e la nostalgia di quella condivisione. Sono temi che la nostra società, povera di sensibilità per il bene comune, raccoglie dal passato per curare questa profonda mancanza.

Se il teatro nasce originariamente come espressione di una comunità, lì dove questa latita, allora o il teatro è vuoto esercizio di stile o un tentativo di ricrearla. Abbiamo assistito, come ha osservato Jean-Luc Nancy, alla dissoluzione, dislocazione e conflagrazione della comunità che per questo è “inoperosa”, ricorrendo a un termine di Maurice Blanchot. Le forme espressive artistiche, nate nel tentativo di ricostruirla, possono solo ripartire dal segno di questa dissoluzione. Lo si legge nella dispersione delle forme performative che cercano di riabitare il mondo, con l’uso e la riscoperta anzitutto dello spazio, e di cui si sono viste molte varianti a Santarcangelo, nel Festival del teatro che ha proprio nella piazza il suo luogo d’elezione. Fare comunità significa abitare il mondo, è per questo che la socialità virtuale dei network, le grandi comunità del web non lo abitano ma sono anche segno di un primo tentativo da parte delle individualità, orfane di un sentire comune, di uscire allo scoperto. Come se la virtualità fosse inevitabilmente il primo gradino possibile, il primo affacciarsi al mondo permesso al soggetto della modernità, sprofondato nella sua assolutezza e isolamento, prima di poter giungere a una vera riappropriazione incantata e activa del mondo.

Il reicantamento del mondo, la riscoperta del suo portato estetico contro l’anestetizzazione dei sensi, non può prescindere dal riconoscimento dell’orizzonte mitico condiviso come condizione della coappartenenza comunitaria. Non a caso il mito è, come sostiene Claude Lévi-Strauss, ciò con cui e di cui il tempo si fa spazio; quella dimensione che il pensiero occidentale ha per lo più racchiuso nell’interiorità dell’anima deve uscire da sé; il mito richiede il luogo, pretende sempre una ‘scena’. In questo modo il “fuori” è per la “comunità che viene”, di cui ci parla Giorgio Agamben, quel “dono che la singolarità raccoglie dalle mani vuote dell’umanità”. Il “mito interrotto” – l’unico possibile, a detta di Nancy, per la comunità inoperosa – deve avere la possibilità di riattivarsi. Così il rito per compiersi necessita di uno spazio condiviso. Tuttavia ogni rito – anche quello intravisto da Silvia Bottiroli nelle tre performances – per rendersi possibile presuppone il mito, un comune orizzonte di pensiero che, ci insegna Arnold Gehlen, può solo precedere il rito. Non possiamo tanto credere all’emergenza del teatro dal rito, possiamo piuttosto pensare che se l’uomo lo agisce è perché condivide con altri uomini una stessa cultura, una cultura che permette la coappartenenza.

Anche per questo possiamo pensare che quanto visto a Santarcangelo, prima di essere rito, è segno di un bisogno inguaribile di comunità, di ‘appaesamento’ che si fa forte di legami antichi, e rivela anche come in questo frangente storico conti di più l’espressione del desiderio che la possibilità attuale del suo appagamento.

 




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