Tra le nuvole o sulla terra? Teatri del sacro a Bologna e Prediche al Festival dei due mondi
Fra teatro, ricerca religiosa e tensione spirituale
La rassegna dei Teatri del sacro per il Giubileo, proposta a Bologna presso il Teatro Antoniano in maggio, mi ha stimolato ad assistere anche ad alcune Prediche curate dall’Archidiocesi Spoleto-Norcia per il Festival dei Due Mondi in questo luglio.
Le Prediche a loro volta mi hanno portato a ripensare le giornate bolognesi, anche perché si è aperto il bando per la partecipazione all’edizione 2017 dei Teatri del sacro: l’avventura artistica e culturale nata a Lucca nel 2008, con l’intento di creare intersezioni fra teatro, ricerca religiosa e tensione spirituale all’altezza dei nostri tempi. Da spettatrice laica quale sono, parto da Lo spazio vuoto di Peter Brook, che così conclude il capitolo dedicato al “Teatro Sacro”:
“Per secoli in teatro è invalsa la tendenza a mettere l’attore su una piattaforma a una grande distanza dal pubblico: incorniciato, decorato, illuminato, truccato, calzato di coturni, per far credere all’ignorante che l’artista era sacro, che la sua arte era sacra. Ma era espressione di venerazione? O nascondeva il timore che qualcosa avrebbe potuto essere messo a nudo se le luci fossero state troppo forti o l’incontro troppo ravvicinato? Oggi abbiamo messo a nudo la menzogna, ma stiamo riscoprendo che ciò di cui abbiamo ancora bisogno è un teatro sacro. Dove cercarlo? Tra le nuvole o sulla terra?”
A Bologna il rapporto è stato ravvicinato e a ‘mani nude’. E’ risultato subito evidente il patto stretto attorno a qualcosa di serio ed essenziale tra gli artisti e il pubblico, un pubblico però troppo scarso in tre dei cinque spettacoli proposti: da un lato per i pregiudizi che la parola “sacro” continua a suscitare, quasi riguardasse l’ambiente confessionale e qualcosa di superato; dall’altro, perché troppo spesso il teatro proposto dalle parrocchie o nei raduni è davvero vecchio e poco significativo.
Più rito che spettacolo, Das Spiel (Il gioco) con i bolognesi Antonella Oggiano e Alessandro Bedosti parla di malattia e guarigione in un ‘Atto senza parole’ di precisione assoluta, davvero beckettiana: una partitura dai tempi lenti dove la serietà del tema sposa la leggerezza dei performer, dello spazio – un tappeto nudo – e degli oggetti, spogliati di quel sovrappeso metaforico che porta tante croci sui palcoscenici. Il gioco si svolge come non fosse destinato a un pubblico ma lo coinvolge grazie al rigore e alla pulizia dell’esecuzione, grazie alla potenza del corpo di Bedosti, castamente spogliato, lavato e rivestito dalla donna, fino alla gioiosità di una merenda. Ricorda il corpo di Ryszard Cieslack nel Principe costante di Grotowski, come si incise per sempre nella memoria del teatro in un lontano Festival di Spoleto, nel 1967. Sacro qui è il corpo, sacra è la relazione fra i corpi creata dalla cura e dal gioco.
La radio e il filo spinato di e con Roberto Abbiati (Lucca 2013), è un “racconto per oggetti” sulla vita di padre Kolbe, il dotto radioamatore morto ad Auschwitz. Vengono in mente Kantor o Duchamp o il Meliès di Hugo Cabret, il film di Scorsese; ma è nuovo l’approccio al tema del lager, così pudico. Freddy Rockem ha messo in risalto il valore del Teatro per la Storia, la trasformazione possibile dell’attore in testimone, ma a questi artisti l’assunzione di tale ruolo è sembrata ‘troppo’. “Posso solo giocare in senso alto”, dice Abbiati, che si mette di lato con il suo compagno di scena (Luca Salata), punta sull’eloquenza delle azioni artigianali e sulla forza di alcune frasi, nella consapevolezza della sproporzione fra i fatti e la loro re-citazione. Padre Kolbe, che si offrì per essere ucciso al posto di un altro internato, resse due settimane senza acqua né cibo e fu infine soppresso con un’iniezione letale, viene sfiorato delicatamente, per rispetto dell’indicibile.
Contraria la cifra scelta da Elena Bucci per In canto e in veglia (Lucca 2013): si tratta di un evento tragico che riguarda lei personalmente e tutti noi e, dunque, autobiografico in senso lato: la morte della madre, quello che scatena nella memoria, lo scarto che produce nella quotidianità, le persone reali che resuscita dall’oblio. Il rito vuole essere grandioso, come certi funerali con carrozza e cavalli: l’attrice mette in moto tutta la sua arte, corpo e voce, lamento e racconto, si ispira al Trittico della Misericordia di Piero della Francesca, lega in un nodo stretto Teatralità e Morte, incarna la necessità del pathos. Il pianto non viene sussurrato e smozzicato né si nasconde, si dispiega in racconto e si esalta in canto, diventa “fantasmagorico” per trasformarsi in compianto. Elena Bucci è l’unica attrice in questa rassegna: proprio lei ha dedicato uno spettacolo ad Eleonora Duse (Per non sentire il male), l’attrice che ha definito “il compianto femminile” il più grande e dettagliato, il più dolce e completo.
Per obbedienza. Dell’incanto di frate Giuseppe di e con Fabrizio Pugliese (Lucca 2015) lascia trionfare il fascino teatrale dell’ingenuità, evocando i racconti nelle stalle o certe novelle di Boccaccio. Si tratta della vita di un santo speciale, arrivato a Pugliese anche tramite Carmelo Bene: un uomo umile e incantato, un idiota che si fa portavoce di migliaia di persone, la bocca aperta nello stupore e il corpo che vola nell’estasi. Uno sgabellino accoglie il narratore, che da posizioni spesso in bilico e mai sovrastanti (semmai ascendenti), si rivolge agli ascoltatori. Racconta con astuzia ma senza spocchia e continuamente si mette da parte per far posto al personaggio del santo. Anche qui abiti gualciti e oggetti poveri, ma lo stesso sembra di sentire odore di incenso e di vedere immagini che brillano.
A chiudere un altro titolo che fa catena coi precedenti, Fermarsi. Appunti sulla via mite di un samaritano di e con Alessandro Berti, anima di questa rassegna (con l’ausilio di Caterina Bombarda). Chi l’avrebbe detto, pensando ai suoi esordi teatrali insieme a Michela Lucenti con cui aveva fondato L’Impasto Comunità Teatrale! Leo de Berardinis li accolse giovanissimi a metà degli anni Novanta al Teatro San Leonardo e sorpresero con Skankrer e Terra di burro, dove l’invenzione linguistica martellante evocava l’Emilia produttiva, in anticipo sul Nord est dei Babilonia, con un senso etico e civile che avrebbe poi trovato altre vie espressive. Premiato a Lucca nel 2011 per Combattimento spirituale davanti a una cucina Ikea, Berti presenta uno spettacolo ispirato a don Paolo Serra Zanetti, prete e docente universitario bolognese. L’inizio è folgorante: accompagnandosi alla chitarra, l’attore canta e fischia The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen. Non solo questo canto dei bassifondi, struggente e trattenuto, introduce all’amore attivo e pudico di Don Paolino per i poveri, ma apre al potere di seduzione che la chiesa cattolica esercita con le sue luci e i suoi suoni, con i suoi riti e con la sua offerta di silenzio. Il lavoro mette in relazione fonti di cronaca (sulla protesta dei commercianti di via Castiglione contro la sua prodigalità verso i poveri), pezzi di sue omelie o interventi pubblici e fonti coeve affini, come le ultime interviste di Ivan Illich. Lo scopo non è semplicemente informativo: le parole fanno sì che la visione finale del volto di Don Paolino produca un’emozione fortissima. Berti è un attore che recita molto per primi piani, disegnando paesaggi dell’anima in continua evoluzione: attore a mani nude che conosce il valore della teatralità e raggiunge la spiritualità anche attraverso la mimesi. “Io vedevo Paolino, non avendolo mai visto”, dice più di uno spettatore.
Spostiamoci a Spoleto, per entrare dentro una chiesa – San Domenico, una navata unica ad aula dai caratteri gotici – dove sono programmate sette Prediche. Non è necessario conoscere la storia del teatro occidentale per sentire quanto teatro è ‘nascosto’ nella religione (direbbe Claudio Meldolesi), e nemmeno troppo nascostamente.
Ogni volta un’attrice legge una parabola, introducendo il relatore. Anna Leonardi lo fa portando sentimento e colore, per assecondare la capacità della scrittura evangelica di lanciare “messaggi per immagini” e per casi reali, comprensibili da tutti. Ho assistito a due Prediche: quella del Cardinale Angelo Comastri su La pecora, la moneta, il figlio perduto e il figlio fedele e quella di Monsignor Giampiero Gloder su Il fariseo e il pubblicano.
Identica la loro postura: fermi in piedi dietro il leggio, muovono solo qualche volta il braccio e la mano sinistra, mentre gli occhi dalla pagina scritta salgono a fissare chi ascolta. Un paio di volte il Cardinale si asciuga il sudore sulla fronte. Ciò che si muove è la parola, la parola insieme al pensiero, in un percorso volto a persuadere ma forte nelle argomentazioni e pacato nei toni. Il predicatore oscilla fra partecipazione e commento, ora dentro ora fuori come un attore narratore, sembra rivolgersi individualmente a ogni membro della comunità, con un intento dichiarato e diretto.
Il rapporto con il testo e con il pubblico di Comastri, Vicario generale del papa per la Città del Vaticano, è più da maestro con la minuscola, seppur magistrale nella trattazione e nei riferimenti, da Dostoevskij a Pasolini. La sua cordialità, nel senso etimologico della parola, porta a reinterrogarsi umanamente sul mistero dell’amore paterno, su quel figlio perduto più festeggiato del figlio fedele e sulla negatività del rancore. Seguendo questo filo conduttore – l’amore, la misericordia – non c’è bisogno di far cenno alla tragedia che si è appena compiuta a Dacca, dove l’odio ha portato a torturare e sgozzare. Più da professore l’attitudine di Gloder, Arcivescovo di Telde e Presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica. Interroga criticamente e storicamente il testo con logica implacabile e lascia aperta la relazione problematica fra osservanza dei precetti (il fariseo) e consapevolezza del peccato (pubblicano), fra conseguenze della colpa sulle vittime e assoluzione del peccatore pentito.
Nella tavola rotonda che ha concluso la rassegna bolognese, a partire dal rapporto del sacro con la profanazione stabilito da Agamben, Fabrizio Fiaschini rivendica la sfida lanciata dai Teatri del sacro (di cui è direttore artistico), mentre Francesco Giraldo ne ricorda le difficoltà: restituire all’uso il sacro che è venuto meno, che è stato espulso. Da tutt’altro punto di partenza – lo studio delle fiction di qualità americane – il teologo Andrea Franzoni ricorda l’importanza di ricostruire la struttura psicologica sociale attraverso l’immaginario e l’utilità a tal fine dei testi religiosi in quanto “grandi narrazioni”. Il pubblico bolognese “si scalda lentamente”, dice Alessandra Deoriti, la città è piena di “nicchie” che fanno proposte interessanti, certi temi creano timore, tanto più se presentati dal vivo, a teatro. Torniamo così a parlare di azioni concrete, perché questa iniziativa abbia seguito. Torna in mente Brook, l’inizio del capitolo sul “Teatro Sacro”: la scena “è l’ultima tribuna dove l’idealismo è ancora una questione aperta”, può attrarre con “parole altisonanti e vaghe” che possono trasformarlo in Teatro Mortale.
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