Corpo e fango: Yaser Khaseb in Voice of mud per la rassegna “Cuore di Persia”
Attori & Attrici ateatro
Dobbiamo aspettare che cali la notte perché lo spettacolo cominci. Siamo dentro la piscina in disuso che appartiene a Teatri di Vita nel Parco dei Pini di Bologna: è il penultimo spettacolo di “Cuore di Persia”. Dopo la Grecia, la Palestina, il Brasile, i paesi scandinavi, quest’anno è in primo piano la scena contemporanea iraniana: spettacoli, film, incontri, cibo, una piccola mostra…
Il manifesto con l’immagine del Macbeth di Max Theater Group (che non sono riuscita a vedere), una Lady bellissima, è particolarmente attraente. L’estate bolognese è ricca: intanto in Piazza Grande c’è il cinema all’aperto, bisogna arrivare almeno venti minuti prima per trovare posto. Ma la meraviglia stasera è qui, in periferia, lungo la via Emilia Ponente: con Crazy Body Group e Yaser Khaseb, autore, regista e protagonista di Voice of mud, alla seconda e ultima replica.
Lo spazio davanti agli spettatori, seduti in un accenno di semicerchio, prepara a una situazione tribale, di sapore preistorico. Alcuni oggetti marcano la zona dove si svolgerà la performance: un bidone, un po’ di legna da accendere, recipienti vari, un basamento che si intuisce girevole… oggetti da cantiere o da bottega di una volta. Una fabbrica di mattoni? Entra il deuteragonista, è l’artefice che accende il fuoco e mescola la materia: terra, acqua, aria. Agisce senza darsi tregua, gesti e movimenti di chi sta lavorando: si dispone a forgiare un vaso con un’energia superiore a quella richiesta da un vaso. Entra nel bidone e pesta i piedi, lo rovescia e dal fondo estrae una massa strana, come un grande cuscino di cui si vedono alcune pieghe, creta da modellare, su cui continua a gettare terra e acqua. Dal magazzino della memoria esce fuori Colette, un capitoletto de L’envers du music-hall, intitolato “Malaise”, malessere:
“L’uomo comincia un lavoro di contorsionismo, una dislocazione lenta, serpentina, uno svitamento di tutte le sue articolazioni, un groviglio, un ricamo di tutte le sue membra intrecciate […]: il supplizio ch’egli s’impone è tale, a momenti, che il suo volto rifiuta di obbedirgli e diventa, in realtà, il volto di un condannato alle fiamme eterne… Soccomberà come un rettile strangolato dalle proprie spire? […] Quando finalmente se ne va, quando passa sotto di me, camminando con un passo molle, trascinando il suo lungo corpo che sembra svuotato a metà, allargo il mio petto contratto, cerco un po’ d’aria… Attendo la fine di questi drammi brevi, aspiro a qualche balletto fiorito e sciocco…”
Invece Yaser Khaseb non solo non se ne va, ma comincia qui una performance senza parole dove il sudore combatte con il rigore: è un attore, e noi non desideriamo affatto che la tensione si allenti. È rimasto acquattato con il corpo aggrovigliato dentro il bidone per molti minuti, quando gli manifesto – dopo lo spettacolo – la mia ammirazione, minimizza, trattandosi di abilità che ha conosciuto da bambino e ha cominciato ad assimilare allora, da suo padre e poi dallo zio. In fondo ha ragione: quanti migranti tentano di arrivare in occidente chiusi in una valigia o sotto un camion? Introduce subito il tema della natura, come se le sue abilità di contorsionista avessero la stessa ‘naturalità’ delle radici che si incuneano nella terra e dei rami che si piegano nelle direzioni più strane.
All’inizio il corpo di Yaser Khaseb è materia inerte che l’altro artista manipola e forgia come fosse un vaso appunto: poi il groviglio si svita nello spazio, è una marionetta che fatica a diventare autonoma, impazzita ma “con metodo”, come si direbbe di Amleto. Il mix di diversi brani musicali crea un ritmo martellante per accompagnare gli scatti fisici della materia che si va umanizzando. Le membra disegnano geometrie nette nello spazio, in un paradossale flusso spezzettato dove ogni posizione, anche la più acrobatica, si ferma per qualche istante: è sempre difficile stare immobili e muti in scena, ma qui la sfida è moltiplicata. La narrazione della nascita dell’uomo dal fango non può che essere drammatica: viene trascinato per terra con forza, viene piegato, sbatacchiato, ricomposto… L’artefice e la creatura si confrontano senza farsi guerra durante la creazione, sono in fondo assai simili l’uno all’altro, ma poi si scontrano con lealtà in veri e propri combattimenti.
Il protagonismo dell’uomo nascente si origina nella relazione con il corpo superattivo dell’altro, si sviluppa all’interno di questa relazione fino a invertire i ruoli. L’attore che lo fronteggia è Behrangh Esmaieli, bravissimo e tendenzialmente chiaro di colore, ma ce ne sono stati altri. Questo ha contribuito a rendere vivo lo spettacolo così come la collocazione in spazi diversi: perché Yaser Khaseb entra in relazione non con la misura astratta dello spazio ma con la sua materialità, la terra proprio, anche quando lo spettacolo si svolgerà al chiuso. Ed è diverso, nei numerosi paesi incontrati – dalla Polonia al Brasile –, il rapporto della terra con l’acqua, il vento e gli esseri animati e inanimati.
Colpisce la quantità di riferimenti culturali che la performance evoca e la loro totale irrilevanza rispetto a “un qui ed ora” che s’impone. Davvero la mente viaggia. Ecco le mani che si toccano di due uomini, dipinte da Michelangelo nella Cappella sistina, ma qui l’una si aggrappa all’altra e protagonista è il fango, che è stato spalmato senza risparmio su tutto il corpo, faccia compresa e occhi. Ora i corpi sembrano uscire da un cumulo di cadaveri di deportati in un lager, è un effetto prodotto dal buio perché qui dalla magrezza esplode l’energia; d’altro canto è carica di energia anche l’immagine di quelle ossa ammucchiate e lontane, che ‘non passano’. E poi i corpi senza valore − materia sporca e deteriorabile, destinata a essere fatta a pezzi, a seccare al sole o a rimescolarsi alla terra −, delle narrazioni di Cormac McCarthy, ma questo Iran/mondo è agli antipodi della Frontera americana, in un tempo in cui il Male non sembra ancora così vittorioso. Può tornare in mente Artaud, ma non ha senso, anche se forse questo è uno dei modi per riprendere in mano, dopo un secolo, la sua incandescenza.
Quando chiedo a Yaser Khaseb quali sono i suoi maestri, i suoi riferimenti, si misura da un altro punto di vista la ricchezza del suo approccio e insieme si percepisce la condizione di stanchezza di tanto teatro occidentale. Ha portato spettacoli in tanti paesi – dall’America alla Cina, dalla Francia alla Danimarca – e ha così conosciuto da vicino altre realtà teatrali: questi scambi continui, in cui l’uno impara dall’altro, sono la base e il nutrimento del suo lavoro artistico. Poi fa tre nomi: Charlie Chaplin, Marcel Marceau e Bruce Lee, dove quest’ultimo è un mito dell’infanzia che lo ha portato ad amare, praticare e insegnare le arti marziali. E sono forse queste ultime a ispirare il ritmo del suo spettacolo, a creare quel “primitivismo contemporaneo” di cui si è scritto.
Tre elementi sono fondamentali nel suo linguaggio: il teatro appunto e le arti marziali, e poi il rapporto con la natura. Viene da una famiglia di artisti e di sportivi: il nonno, il padre che è morto durante la guerra fra Iran e Iraq, e lo zio erano legati al teatro tradizionale e coltivavano Yoga, Karate e Kungfu. Ed è vissuto nella prima parte della sua vita nei campi, nell’Iran occidentale, dove la cultura curda è molto presente, e dunque la danza. Ci saranno poi gli studi all’Università di Teheran, il dottorato e l’insegnamento; nel 2005 la creazione del Crazy Body Group e due anni fa quella di un’Accademia di Teatro fisico. Alto e basso, mestiere e accademia si intrecciano con semplicità nel suo discorso in una orizzontalità alta dove l’Iran e il mondo si confondono.
Gli domando se questo è il suo spettacolo più importante. Ride e dice di no, ce ne sono altri molto più difficili ma Voice of mud gli piace perché è estremamente semplice e gli dà una grande energia. Molti in Iran si domandano dove voglia andare col suo teatro. Nella sua carica sperimentale e antiaccademica, con un corpo così addestrato ed espressivo, giovane e generoso Yaser Khaseb ha una barra che lo guida verso un teatro di qualità ma non elitario. Gli viene da un’indicazione del nonno attore: non chiudere mai i pugni ma tenerli aperti perché ciò che sta chiuso appassisce e muore.
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