Maria Federica Maestri: gli attori “sensibili” di Lenz sono una necessità insaziabile
La poetica del gruppo parmigiano e quella del festibval Natura Dèi Teatri
Porte, punto cieco e scia sono i tre elementi concettuali a cui è dedicato il progetto dedicato all’artista visivo Richard Serra, per il triennio 2015-2017. Dal 16 giugno ha avuto inizio la edizione 2016, ventunesima, del festival Natura Dèi Teatri di Lenz Fondazione, a Parma con Il furioso, distribuito nei vari episodi che lo compongono tra lo spazio del Tempio della cremazione di Valera e la Sala Majakovskij del Teatro Lenz. Proseguirà con il Macbeth con repliche fino al prossimo 3 luglio intervallato dal concerto poetico di Ilaria Drago dedicato a Simone Weil il 29 giugno e dalle Reflections in the Rear View Mirror, di cui sarà protagonista Janek Schafer il 2 luglio. La seconda sessione dei lavori di ND’T, avverrà in autunno dal 17 novembre al 3 dicembre. Maria Federica Maestri, regista e artista di Lenz Rifrazioni, realtà teatrale fondata a Parma con Francesco Pititto nel 1985, ci racconta il festival, l’ultima produzione dal titolo Kinder, con testo e imagoturgia di Pititto, ispirata al “punto cieco” di Serra e con la sua regia, ma attraverso questa intervista-dialogo che qui segue ci vengono rivelate da Maestri anche molte modalità del suo fare teatrale e un’anticipazione per il prossimo anno.
Come si sviluppa la poetica di Lenz a partire da “Natura Dèi Teatri”, la definizione del festival?
Nel 1996 abbiamo pensato di creare un dialogo con altre identità artistiche a partire naturalmente dalla nostra esperienza linguistica e abbiamo pensato che il battesimo, il nome da dare a questo spazio dovesse essere corrispondente alla nostra pratica, alla nostra poetica, che già a quel tempo era presente da più di vent’anni. Natura Dèi Teatri mette insieme elementi apparentemente molto lontani: la natura che è il punto di partenza della nostra indagine, da sviluppare sempre nel corso di un anno, quindi data dalla idea di una circolarità intesa anche nel rapporto tra uomo e natura, quindi una condizione in cui non si mette davanti l’io ma la grande madre, come direbbe Jung. Questa definizione poi corrisponde anche a una delocalizzazione del teatro in luoghi e ambienti non riconducibili allo spazio tradizionale del teatro. Per quanto riguarda gli “dèi” eravamo anche allora immersi nel liquido filosofico di Hölderlin, per il quale gli dei rappresentavano una visione di pluralità, o meglio gli dei ci hanno abbandonato da tanto tempo, ma costituiscono un apporto organico con l’atto artistico, quindi che si tratti anche di una relazione fisica, che riguardi il rapporto con l’uomo quale essere intermedio tra la natura e l’inconoscibile, la dimensione difficilmente raggiungibile, ma che con la pratica poetica si riesce a tangere. A parte “la natura”, femminile singolare, gli “dèi” e i “teatri” sono plurali, abitabili, attraversabili e questo significa che il dialogo con gli altri artisti non é un dialogo autoreferenziale. Noi cerchiamo similitudini, ma cerchiamo anche differenze, non solo linguistiche ma anche concettuali, di formazione e quindi non solo teatro, ma anche musica, danza, una pluralità sintetizzata da “natura dèi”. Una peculiarità è poi data dal fatto che nell’area linguistica di Parma, da cui noi deriviamo e in cui risiediamo, le vocali sono pronunciate molto aperte, per cui questi “dei” accompagnano anche una eco del nostro dialetto, citato in maniera scherzosa e leggera.
Non avete mai pensato di cambiarla dunque…
Lo scorso anno, per la ventesima edizione del festival, ci siamo posti la questione del nome, se mantenerlo o cambiarlo, anche perché questo avrebbe corrisposto a una trasformazione, non a una idea di continuità nella poetica di Lenz. Questa questione ci ha interrogati anche sulla questione: un nome invecchia? Ci siamo chiesti se dopo di me e di Francesco Pititto, “Natura Dèi Teatri” potesse ancora continuare a identificare la Fondazione, io sono molto conservatrice e quindi non me lo sono chiesta, ma l’ho chiesto alle collaboratrici più giovani, che lo trovano sempre attuale, dichiarando di sentire un valore, una energia, un senso privo di tempo, proprio nella nominazione del festival. Quindi “Natura Dèi Teatri” tale è e tale sarà anche nelle prossime edizioni.
Poesia, filosofia, videoinstallazione sono linguaggi che da sempre hanno connotato la vostra poetica. Questo nuovo lavoro dal titolo Kinder, che si riferisce a una condizione di prigionia, in cui vengono ritratti e rappresentati dei bambini ebrei, incastonati dentro delle piccole vasche, non è decisamente didascalica. Guardando la immagine dello spettacolo non viene di certo in mente un dormitorio da campo di concentramento ma viene piuttosto evocata un’altra dimensione, anche causa del bianco, vengono in mente spazi quotidiani in resina da bagno o da pavimentazione, dove collocare dei bambini, ma anche come questi piccoli fossero incarcerati dentro degli ipotetici enormi smartphone colmi di luce, in una superficie quindi alquanto contemporanea all’immaginario presente. C’è questa intenzione o c’è invece una ricerca filosofica?
Sono queste questioni molto difficili, pertanto bisogna essere semplici quando la difficoltà aumenta. Credo che agire nella contemporaneità non è essere nel presente. Non si tratta quindi di fare semplicemente memoria storica, trasporre, ricordare, ma stare nel presente implica la necessità di stare in connessione con il passato, quindi la funzione del presente è una funzione di conservazione. Io mi trovo qui perché ho conservato tutti gli elementi sia vitali sia organici che storici per essere qui, questo è il presente. Artisticamente abitare la contemporaneità è esattamente quasi il contrario, significa creare una intercapedine tra quello che significa il presente e quello che è il passato. Questo è ciò che fanno i poeti, non semplicemente quindi raccontano attraverso la produzione di memoria, ma creano tra il proprio presente e la propria memoria uno spazio, che potrebbe essere anche un punto cieco, in cui presente e storia creano uno spazio come una faglia, una deriva che non crea interazione tra i due dati. Quindi contemporaneo è lo spazio di tempo possibile da creare in questo frangente atemporale, ciò è diverso da stare nel tempo che si vive, attuando un teatro alla moda, questo invece comporta una esplorazione estetica, una ricerca. Ciò premesso, la immagine dei bambini nelle loro vaschine diventa quasi una immagine aniconica, di negazione della immagine stessa, se fosse possibile.
Eppure ci sono dei volti ritratti…
Ma i volti si sono talmente lateralizzati che quasi invece il volto centrale manca, nella trinità ideale che Francesco Pititto vuole riprodurre. È proprio nello spazio nero che è infatti possibile creare la immagine propria, non semplicemente vedere, percepire ma rapportarsi con la immagine creata nel nostro cervello e poi abbandonata altrove. Il festival quest’anno suggerisce un’azione che non si limita al campo teatrale o performativo, ma cerca di infilarsi in altre vie, già note, come la riflessione di Ilaria Drago su Simon Weil, continuando a lavorare però nella ricerca di questa parte nera, interstiziale.
Forse c’è una natura femminile singolare archetipica e onnicomprensiva da mostrare in questa precisa scelta, di ospitare proprio Ilaria Drago, la cui poetica è legata a tale ricerca. Così come è da comprendere una ciclicità, esibita dalla dichiarazione di Pititto “noi facciamo fronte al futuro”. Si usa infatti un dramma passato, vero però nello spazio presente di questo spazio che si interpone, nero, chiedendo pertanto di amplificare qualità percettive sia al performer sia allo spettatore. Questo come avviene con attori che stanno in una condizione già liminare, siano essi bambini o persone affette da disabilità?
Il nostro primo lavoro è Lenz, dall’omonimo racconto incompiuto di Georg Büchner, uno degli autori del Preromanticismo da annoverare tra i dimenticati, non a caso considerato inizialmente solo da Brecht, per essere rappresentato, essendo i suoi dei drammi abbastanza difficili da mettere in scena. A noi è capitato di autorappresentare la nostra esperienza artistica attraverso il suo nome, di raffinatissimo intellettuale ma anche di una persona che non è riuscita a essere contenuta dentro lo spazio della ragione, dal momento che morirà pazzo e mendicante, abbandonato e in assoluta solitudine. Ciò non significa considerare questo autore una vittima o un pietoso, ma essere meglio per noi essere rappresentati da quel nome piuttosto che, come spesso è accaduto negli anni Ottanta, dal proprio nome. Nel periodo collocabile a metà degli anni Ottanta mentre molti gruppi hanno mutato con i loro propri nomi, fenomeni di ricerca teatrale, per quanto invece ci riguarda, al di là del “io sono anche la mia opera”, ci siamo liberati del nostro nome personale, di un impiccio, ci mettiamo in scena attraverso la vita e l’opera di questo piccolo grande drammaturgo che è Büchner. La parabola di Lenz dunque accade attraverso la rappresentazione della follia di un allora giovanissimo attore che era Bruno Stori, nel 1986, e si concretizza nella parabola del corpo-mente dei nostri attori “sensibili” circa quindici anni dopo, dal 1998, divenendo una necessità insaziabile di cui volevamo nutrirci. Ma forse questo attuale amore così profondo esiste a causa di quell’inizio, per il futuro circolare era già scritto nei nostri segni estetici. Questo attore lo abbiamo chiamato “sensibile”, per evitare diminuzioni o determinazioni, l’attore già di per sé dovrebbe esserlo, ecco il nostro è in tal senso “sensibilissimo”. Le vite di questi attori sono dense di esperienze emotive, sono attori ricchi quindi più della norma, molto più attori degli attori, si conquistano così attraverso un alto potenziamento linguistico a teatro. Ma la parola con loro si rifonda entrando nell’attore, rifondandola, non appartenendo più al territorio emotivo personale. Il nostro non è un attore-fenomeno, non vuole impressionare ma vuole semmai impressionarsi. Ora la lingua si sta riappropriando delle parole, è così per definizioni quali quella di “teatro sociale”, si tratta a mio parere solo di una nuova fase della lingua teatrale e le parole le troveremo.
Il Furioso e Macbeth collocati nella edizione 2016 di ND’T, denotano un’attenzione storica importante, data anche dagli anniversari che quest’anno ricorrono, tuttavia Shakespeare denota la vostra poetica da sempre e allo stesso modo Il Furioso è nient’altro che una ennesima possibilità lirica, tra le altre scelte e presenti. È capitato che vi occupaste di questo casualmente o c’è una volontà celebrativa?
Di solito non andiamo mai a guardare le date di scadenza degli autori, è capitato che ci fossero questi anniversari, ma lo abbiamo scoperto quando già stavamo avviando i nostri lavori su questi autori e ci è sembrato molto bello perché sia il numero “400 (corrispondente al numero di anni dalla morte di Shakespeare, ndr)” sia il “500 (numero anche degli anni trascorsi dalla prima pubblicazione dell’Orlando furioso, ndr)” sono entrambi numeri pieni, numeri magici che ci corrispondono. Non pensiamo ad anniversari ma a connessioni drammaturgiche, fin dall’inizio quando per esempio ci siamo occupati di innestare Kleist e La Famiglia Schroffenstein in Romeo and Juliet, facendo dialogare con il Romanticismo il materiale shakespeariano. Nel 2012 abbiamo deciso di concentrarci sulla lingua italiana, partendo dai romanzi tedeschi, nostri numi tutelari, abbiamo pensato di mettere il pensiero e la nostra lingua in un duello. Così lo abbiamo fatto anche nel 2013, volendo rovesciare il grande romanzo mancato sul quotidiano epico, dato da I promessi sposi, inserendolo nella Pentesilea di Kleist. È possibile entrare nella fabula, sprofondando nella fantasmagoria, nella sragionevolezza totale del Furioso per poterci dedicare il prossimo anno alla Divina commedia, nuovo progetto biennale.
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