La grammatica trasparente del sesso. La figura femminile tra arte, pagina e scena
"Passo tra loro per arrivare a me": Lettura di Manuale della figura umana. Allestimento di un impaginato di Ateliersi
Il Manuale della figura umana di Marta dell’Angelo (edizione Gli Ori, Prato 2007) è un carnet d’artista, in scrittura e immagine, che concerne la figura del corpo femminile e la sua esposizione. La pittrice, che per anni è stata modella vivente all’Accademia di Brera, nel Manuale raccoglie immagini – di nudi o seminudi – dei formati e dei supporti più diversi. Come ricerca preliminare alla composizione pittorica ma allo stesso tempo piccola enciclopedia del pudore e dell’osceno, il libretto colleziona foto d’epoca o ritagli di riviste femminili, tratte dalla moda, rubate al quotidiano; riproduzioni d’illustrazioni. Accanto alle immagini fotografiche convivono scatti “in presa diretta” di corpi o parti di esso. In certi casi si tratta di fotografie di donne colte, a loro volta, nell’atto di fotografare. Una doppia esposizione, tra due estremi, l’autoerotismo e il gesto di divaricazione delle gambe per mostrare il sesso, un gesto naturale e culturale assieme. Corpi dentro e fuori. Le immagini vanno assieme alla scrittura, anche questa sotto le più diverse forme. A volte è l’artista stessa Marta Dell’Angelo a scrivere un appunto o a riprodurre una sua nota scritta a mano, da un quaderno o da un postit; stralci di cronaca rosa e nera, o ancora conversazioni. Sono appunti perché appuntati sui corpi, istruzioni e pensieri colti nel volo. Le annotazioni possono anche farsi varco nella costellazione di corpi e creare sensi, segni e pulsioni. Un appunto:
PASSO TRA LORO PER ARRIVARE A ME (o MI RUBO L’ANIMA).
Poi ci sono le riproduzioni di passaggi di libri, romanzi, saggi o trattati. Della Pittura di Alberti. O Breve storia dell’infinito. L’anima del cervello. Il tamburo di latta. Introduzione al narcisismo, Tropico del cancro, Il ritratto di Dorian Gray, Anatomia umana per artisti, Il paradosso della saggezza, Il linguaggio del corpo, Analisi bionergetica di carattere psicopatico, Il corpo in movimento, Sul pensiero, la percezione aptica, l’integrazione multisensoriale, la metafora del forno e la comunicazione gestuale, Vivere nel proprio corpo… E una costellazione di autori: Ludwig Wittgenstein. William S. Burroughs. Haruki Murakami, Emily Dickinson, Krishnamurti, Rilke, Eugène Delacroix, Sant’Agostino, Pier Paolo Pasolini, Fernanda Pivano e Charles Bukowski, Albert Einstein, Friedrich Nietzsche, Guy Debord, Umberto Galimberti, Michelangelo Buonarroti, Jean Paul Sartre, Camille Claudel…
Qual è il punto di non ritorno, quale il luogo in cui questa costellazione di corpi femminili esposti e divaricati, scritti dalla visione e dall’occhio, può collassare?
Qui si colloca la collaborazione tra Marta Dell’Angelo e Fiorenza Menni, Ateliersi. Dopo il Primo studio presentato a settembre 2015 al Festival Short Theatre a Roma, alla fine di gennaio ha debuttato all’Atelier Sì a Bologna il Secondo studio, nell’ambito di ART CITY, in occasione di Arte Fiera.
La gestazione è lunga, dura due anni, ed è fatta d’incontri regolari in cui le due artiste mettono a punto l’incrocio in cui il Manuale della figura umana diviene luogo di discussione sulla relazione scenica, ovvero vi si configura ciò che Fiorenza Menni spiega come necessario passaggio alla scena. Sembra che l’attrice/drammaturga stia ancora abitando luoghi molto prossimi alla ricerca di una flagranza dell’esposizione, indagata nel dettato veloce ed efficace della scritta muraria, e filo conduttore e drammaturgico di Urban Spray Lexicon, prodotto tra il 2013 e il 2015.
Il sottotitolo del progetto è eloquente: Allestimento di un impaginato. La pagina del carnet d’artista come composizione drammaturgica e ritmica. Il passaggio, che è una metamorfosi, non avviene però nella trasposizione in figura corporea (o massa corporea) ma si colloca in quel luogo in cui l’artista sta per allestire la sua tavola, prima dell’esposizione.
L’azione scenica del Secondo studio ha inizio con la stessa Marta Dell’Angelo che davanti al pubblico detta le istruzioni di come si comporrà la tela da mettere in mostra. È il momento della composizione del quadro, dell’accostamento delle immagini, della scelta delle misure e delle distanze tra loro, della posizione dell’una accanto all’altra. Marta è davanti a un pannello bianco. Si prova con il vuoto, la pagina da scrivere; detta le istruzioni a qualcuno che però non è presente sulla scena. Qualcuno che sta dietro o da un’altra parte. Fiorenza Menni parla di “consegna al nulla”. Le parole di Marta quindi nello stesso tempo in cui agiscono come istruzione, costruiscono un possibile interlocutore, che si moltiplica all’infinito. Mentre l’artista replica, ribatte e ribadisce le sue richieste in modo sempre più dettagliato, fornendo i centimetri e l’ubicazione dello scotch per posizionare le immagini, il suo discorso (che può suscitare il riso) ci porta in una deriva di senso (Fiorenza Menni mentre mi racconta il processo: “limite dell’insensato nella relazione, nel senso di esistere”).
In questa deviazione, le parole di Marta si estraggono anche dal suono e ci raccontano della ricerca della posizione da assumere, in fondo il nucleo primo di ciascun umano: collocarsi in un luogo, vicino a, lontano da, davanti a, a distanza da, un po’ più in là, un po’ più in qua. L’antropologia o la sociologia, chiama quest’arte “prossemica” quando all’articolazione di distanza si aggiunge il gesto, che coincide con lo stare sul mondo alle dovute distanze e vicinanze, aderenze o non aderenze: un’interrogazione esistenziale. C’è un momento in cui questo dettato di Marta comincia, infatti, ad allontanarsi e raggiungere luoghi dove, se vogliamo, possiamo andare anche noi; o altrimenti fare scivolare queste parole nel brusio o nell’oblio, pur sapendo che lei è in una questione di collocare qualcosa e qualcuno, che, non so quando, nella performance, a un certo momento appare. Sono quattro “allestitori” (come li chiama Fiorenza Menni), probabilmente quelli a cui l’artista disponeva e trasmetteva le istruzioni. Comunque entrano, da qualche parte, e si aggiudicano un altro luogo, opposto e frontale allo schermo bianco. Il pubblico deve girarsi e cambiare prospettiva: in questo momento comincia la seconda parte della performance. Da come agiscono i quattro performer apprendiamo che le prescrizioni di Marta dell’Angelo, pur nella loro vacuità sostanziale e disciolte nel vuoto, erano anche possibili, insomma praticabili e andavano nella direzione di costruire la Tavola, con materiali e materie, pittura, colle, carta, strumenti, immagini e fotografie e fotocopie di immagini.
Anche cercando di stare nel vuoto di ciò che accade davanti a noi che seguiamo l’approntarsi del quadro, non possiamo non tornare a un debutto, all’inizio di questa storia, della storia dell’arte, vista come accostamento e deflagrazione d’immagini. Mi riferisco all’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, il quale prima di morire aveva progettato quell’immenso Atlante fatto di 63 tavole nere. È fin troppo noto l’adagio che Warburg aveva inventato per spiegare la sua vorticosa combinatoria sull’istinto gestuale umano: “Storia di fantasmi per adulti”. Eppure torniamo a interrogarlo.
Credo che nella tavola di Marta Dell’Angelo e di Fiorenza Menni il fantasma potrebbe apparire. Forse nella meticolosità con cui osserviamo dare vita al progetto di Tavola, usando la sapienza e tutti gli strumenti tecnici del caso. O forse il fantasma è qui, nella “grammatica trasparente” (F. M.) del processo.
Tra la prima parte e la seconda dell’azione scenica si producono due movimenti, attigui ma contrapposti. Il discorso iniziale di Marta, proprio per il suo tecnicismo istruttorio e dettagliato, per il suo addentrarsi in questioni tecniche e materiali, aveva rarefatto la figura, l’aveva portata a un limite di possibilità e impossibilità corporea. Tutto aveva luogo nel linguaggio, nella parola. Nel secondo tempo dell’azione, è presente il medesimo tecnicismo (alcuni dei performer sono artisti o allestitori o tecnici di mestiere), ma stavolta attraverso le mani e la pratica; in assenza di linguaggio, si ridà materia alla figura, e davanti ai nostri occhi se ne costruisce una delle tante possibili combinazioni visive e materiche (l’impaginato al cui allestimento assistiamo compone figure e immagini presenti nel Manuale della figura umana).
Quello di Marta, in apertura dell’azione scenica, era un rito incantatorio dove eravamo catturati da un “saper dire” per saper fare; qui invece è il “sapere fare” a catturarci perché noi ne sappiamo dire. Durante questo tempo, che chiameremo tempo dell’allestimento, si staccano – materialmente e non – due altre postazioni della visione, come escrescenze, di cui non sappiamo le origini; potrebbero sicuramente dimorare nella “sensazione” di ciò che è avvenuto e che sta avvenendo. Se questo desiderio si separa da noi, o dal quadro, o dalla mente delle artiste, non è dato saperlo (sicuramente siamo nell’ordine di ciò che il desiderio chiama e a sua volta “allestisce”). La prima visione è introdotta da due bambine, preadolescenti. Ancora due corpi esposti (rivolti volutamente verso di noi); abbozzano dei movimenti, a volte delle piccole danze, assieme o no. Una di loro – lo riconosco – tratteggia, accennandolo, il Bolero, nella celebre coreografia di Maurice Béjart. Potenza e “quasi banalità” del gesto. L’altra visione è quella di una donna, un ex-ginnasta, che si muove nello spazio-corridoio tra lo schermo bianco e la Tavola in allestimento, attraversando la scena da un’estremità all’altra, mostrandoci alcuni movimenti ginnici. Sa dire “come fare” i gesti atletici, ma “non può fare” tutto. Al gesto dovrà accompagnare la parola (a volte un’autoesortazione) quando questo non può compiersi nella sua interezza. Le tre presenze moltiplicano i “sensi”, come “stille o gocce” che s’infiltrano a corrompere la visione, perché quando si tratta di corpi e materie la corruzione è a un passo.
I “quattro” concludono il quadro. Recuperano i loro attrezzi e in modo molto ordinato lasciano la scena.
In questo tempo dell’abbandono dello spazio espositivo, la donna-ginnasta prende il microfono e ci parla di un paesaggio descrivendolo. Potrebbe trattarsi di un quadro. Il tramonto sul lago di J. M. W Turner? Comunque un altro squarcio della visione. Alla configurazione di un paesaggio non c’è fine, è ciò che ci lavora di continuo anche senza coscienza. Infatti non c’è finale. Perché siamo noi a comporre il quadro successivo (il nostro paesaggio) nel momento in cui possiamo avvicinarci alla tavola “compiuta” e averla accanto, davanti e vicina ai nostri occhi. Un foglio gira tra di noi con la lista esatta delle immagini della Tavola, che è il contenuto dell’Impaginato. Tecnica mista 500 x 200. Nuovi Manuali possono ora scriversi, altre “combinatorie” di figure. Dobbiamo conoscere esattamente le misure.
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